Una politica — retrograda, crudele e miope — rischia di soffocare uno dei pochi settori che ancora offrivano una speranza in un Paese devastato da decenni di conflitti: l’assistenza sanitaria.
Le donne, in Afghanistan, non sono solo il pilastro delle famiglie; sono state, per decenni, la spina dorsale di un sistema sanitario già fragile. La loro esclusione dalle scuole di medicina comporterà inevitabilmente un’emorragia di competenze in settori fondamentali come ginecologia, ostetricia e pediatria. In un contesto culturale dove molte pazienti femminili possono essere visitate solo da dottoresse, questa scelta equivale a condannare migliaia di donne e bambini a sofferenze evitabili, se non alla morte.
L’asse tra salute e genere è particolarmente cruciale in Afghanistan. Le donne medico non sono solo professioniste; sono un ponte tra un sistema patriarcale e il diritto inalienabile alla cura. Eliminare quel ponte significa isolare ulteriormente le donne afghane, già vittime di un sistema che le esclude dall’istruzione superiore, dal lavoro nelle ONG e dalla vita pubblica. Ora, la salute stessa diventa un campo di battaglia dove le donne non possono più combattere.
Le conseguenze di questa decisione non si limitano alle pazienti. Il sistema sanitario afghano, già messo in ginocchio da anni di instabilità, dipende da ogni singolo professionista formato. Privare la metà della popolazione dell’opportunità di contribuire è un atto di autolesionismo istituzionale che accelererà il collasso del Paese. Le donne medico non sono solo necessarie: sono indispensabili. Ogni donna esclusa da un’aula di medicina è una perdita diretta per migliaia di vite future.
Questa politica è anche un segnale inquietante per la comunità internazionale. Mentre i governi e le organizzazioni globali cercano di impegnarsi diplomaticamente con l’Afghanistan, i talebani mostrano chiaramente che i diritti fondamentali delle donne non sono negoziabili per loro. Eppure, il diritto alla salute non è una questione culturale o religiosa: è un diritto umano universale.
La comunità internazionale deve rispondere con fermezza. Non è più sufficiente esprimere preoccupazione o rilasciare dichiarazioni di condanna. Serve un impegno concreto per sostenere le donne afghane: finanziamenti per programmi sanitari indipendenti, creazione di reti clandestine per l’istruzione medica, protezione per chi rischia di opporsi a queste leggi inique.
Ma è anche necessario andare oltre. L’esclusione delle donne non è un problema solo afghano: è un campanello d’allarme per tutte le società che permettono che la metà della popolazione venga ridotta al silenzio. In un mondo che si vanta di progresso e diritti universali, non possiamo permettere che un regime imponga l’oscurantismo in nome di una presunta tradizione.
L’Afghanistan non è solo un caso umanitario. È uno specchio che riflette le nostre responsabilità collettive. Lasciare che le donne afghane vengano estromesse dalla medicina è un fallimento non solo per il loro Paese, ma per l’umanità intera. E se il silenzio continuerà, non sarà solo una sconfitta per loro, ma per tutti noi.