Aiutare i pazienti in un mondo post Covid: sfide e speranze di un medico. Intervista a Antonella Ronchi: “Oggi più che mai in medicina abbiamo bisogno di saggezza.”
Antonella Ronchi è medico omeopata da 30 anni e svolge la sua attività a Milano, utilizzando la medicina omeopatica classica come principale strumento della propria pratica clinica. Ha insegnato omeopatia in diverse scuole italiane ed è stata presidente della FIAMO (Federazione Italiana delle Associazioni e dei Medici Omeopatici) dal 2002 al 2020, rappresentando in numerose occasioni la Federazione presso l’European Committee for Homeopathy ECH.
D. La pandemia ha portato al centro del discorso sociale la salute, nella complessità di tutti i temi che vi sono collegati. Dalla sanità pubblica alle possibilità terapeutiche fino al rapporto medico paziente. Cosa può dirci riguardo a questo ultimo aspetto?
R. Un buon rapporto medico paziente si è dimostrato essere di importanza fondamentale nel corso della pandemia. Potremmo dire addirittura una questione di vita o di morte. Infatti, è innegabile che tutte le persone che hanno potuto curarsi in modo completo, godendo di un buon rapporto con il proprio medico, e senza soffrire di gravi patologie che richiedessero il ricovero ospedaliero, abbiano avuto risultati migliori di chi invece non aveva un punto di riferimento o addirittura è stato abbandonato a se stesso. Aggiungo che è contato anche il fatto di avere costruito già in precedenza un rapporto solido con il medico di fiducia. Questo, unito a uno stile di vita più salutare, ha portato in molti casi a superare meglio la malattia.
D. Il medico di base, però, è purtroppo una figura che sta scomparendo nella nuova sanità, dove la medicina del territorio è la cenerentola della situazione, anche in base al nuovo PNRR.
R. Sì, una dimostrazione di questo è arrivata proprio dalla Lombardia, regione con grandi capacità tecnologiche e sanitarie ma in cui è mancata clamorosamente la medicina del territorio. Se abbiamo imparato una lezione dalla pandemia questa è proprio che la medicina del territorio e il rapporto con il medico restano due caposaldi per la salute della collettività. Mentre il mondo sembra andare in tutt’altra direzione, più spersonalizzata e molto tecnologica.
D. Lei è un’omeopata di grande esperienza. Cosa può dirci riguardo all’integrazione delle terapie nella cura del paziente?
A. E’ un altro fatto incontestabile che le terapie omeopatiche e complementari, utilizzate a integrazione di quelle convenzionali e con un approccio sempre individualizzato, abbiano dato, e continuino a dare, ottimi risultati. Purtroppo questi fatti (vale a dire il rapporto medico paziente e la terapia integrata) sono andati a scontrarsi con una narrazione che puntava a una soluzione unica, quella del vaccino. Benché i vaccini siano serviti a rafforzare le difese dei più fragili oggi ne vediamo i limiti: le persone con tre dosi si contagiano.
D. Dunque, nonostante i progressi della medicina, forse la comunità scientifica è rimasta prigioniera di un “pensiero unico”?
R. Sì, sono convinta che, dopo due anni di confusione, in medicina debba tornare il ragionamento clinico. Infatti non esiste una verità unica ma è fondamentale il rapporto con il medico che sceglie di volta in volta quello che è utile per il singolo paziente. E ricordiamoci che esistono infinite possibilità terapeutiche. Dobbiamo utilizzare una medicina per le persone, non per i protocolli. Per noi medici è importante l’autoconsapevolezza: dobbiamo mantenere libera la mente. Perché le epidemie passano ma la salute resta. Bisogna allargare gli orizzonti, non c’è solo da combattere un virus.
D. A proposito di virus, l’esperienza di questi anni ci fa riflettere sul fatto che la natura ha le sue regole. Possiamo dire che un farmaco di origine naturale, come sono quello omeopatico o fitoterapico, potrebbe avere oggi più che mai maggiori chance nella terapia?
R. Riguardo ai virus, certo fanno parte della natura e dovremo sempre farci i conti. Vediamo dunque di trovare una forma di convivenza in cui noi mettiamo in gioco le nostre risorse. Di fronte alle tanto paventate future epidemie, per esempio, non dovremmo dimenticarci di poter contare su un sistema immunitario che ha difeso la nostra specie e le altre specie viventi per milioni di anni. E ben prima che si inventassero i vaccini. Il sistema immunitario è un patrimonio da rafforzare con uno stile di vita sano e medicinali adatti, quando occorre. Pensiamo solo a come si sono sviluppati nel corso degli ultimi anni gli studi sul ruolo del microbiota intestinale nell’immunità. Queste continue scoperte devono farci riflettere sull’importanza di salvaguardarare le difese immunitarie. Quanto ai medicinali, la principale differenza tra farmaco chimico e naturale è che il secondo ha migliaia di anni di convivenza con il genere umano. C’è stato un lunghissimo adattamento reciproco grazie al quale queste terapie ancora funzionano molto bene. Invece, oggi assistiamo a una forma di arroganza da parte della scienza moderna nella pretesa di intervenire e manipolare la natura. La storia insegna a usare prudenza e a stabilire forme di convivenza con la natura che ci circonda.
D. Qual è oggi l’approccio dei giovani medici riguardo all’omeopatia?
R. In realtà assistiamo a una rinascita di interesse per questa grande medicina. La Scuola di Medicina Omeopatica di Verona, una delle più importanti e storiche scuole di omeopatia in Italia, per esempio, ha avuto un boom di iscrizioni da parte di giovani medici. E’ un’inversione inaspettata. C’è una maggiore richiesta di umanizzazione delle cure e di un approccio diverso. Dobbiamo pensare che la scientificità della medicina non è la stessa della fisica, occorre un approccio globale perché l’oggetto della medicina è in realtà un soggetto. L’omeopatia, con il suo approccio individualizzato, ci offre questa possibilità.
D. Cosa pensa della digitalizzazione che si sta imponendo in campo sanitario?
R. Gli aspetti tecnologici non sono in contrapposizione con un atteggiamento più umano. Il problema oggi non è la digitalizzazione ma l’emotività. E’ stata creata una narrazione a senso unico che toglie speranza e genera continua angoscia. Invece è importante offrire una speranza di evoluzione. In generale, la gestione della pandemia ha mostrato aspetti positivi e limiti. La pandemia è un’occasione per ragionare, è importante che noi medici ci poniamo domande, esprimiamo dubbi. Ma questo finora è purtroppo mancato: nella maggior parte dei casi si è proceduto con una sicurezza e un’arroganza che non ha riscontro nei fatti. Siamo immersi in una realtà da cui non possiamo prescindere, oggi più che mai abbiamo bisogno di saggezza.