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10 Marzo, 2023

Cos’è la vita

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Giovani e meno giovani fin dal mattino avevano occupato i cinquecento posti a sedere della sala bivaccando, chiacchierando, studiando, in attesa delle tre del pomeriggio, ora nella quale Gioacchino Stelvi avrebbe dato inizio alla sua ultima lezione universitaria.

Nel brusio generale, alle quattordici e cinquantotto,  il professore entrò nell’aula magna, come sempre, frettoloso e agitato.  Con tre rapide mosse si sbarazzò del cappello basco “da battaglia”, della gigantesca sciarpa di lana verde – dono di Lucilla e tag, segnatura animale del territorio, minaccioso vessillo di proprietà femminile – e dell’autentico loden austriaco, mostrandosi a tutti per quello che era: un uomo alto, dalla straordinaria magrezza e dall’eccezionale, per quel mondo, eleganza. Giacca, cravatta, panciotto, camicia di seta, scarpe inglesi, guanti di pelle. Toni ancora invernali: verde marcio, beige, marrone, grigio topo.

Terminato lo spettacolo della svestizione, di fronte ad una sala ammutolitasi al suo ingresso, diede le spalle all’aula e scrisse sulla lavagna con il gesso bianco in stampatello maiuscolo, sottolineato due volte: cos’è la vita?

Fece un giro di novanta gradi verso la porta e salutò i colleghi docenti che entravano a testa bassa per la vergogna del ritardo o perché costretti ad andare a salutare un collega detestato da anni. Attese fino a quando l’ultima persona oltrepassò la soglia e stimò non ci fosse più posto per nessuno.  Segnalò al gruppetto parcheggiato sull’uscio, incerto se entrare o restar fuori, di chiudere la porta. Lui non si sarebbe mai comportato come gli altri professori.  Durante le lezioni lasciavano sempre la porta aperta, quasi fossero in attesa di qualcuno, come se chiunque avesse il diritto di entrare senza bussare, come se la lezione non fosse poi così importante. Il tempo delle rivolte studentesche, degli attacchi ai professori, delle manifestazioni impromptu si era concluso, non era più necessario stare allerta. Gli studenti ora volevano studiare e meritavano tutta la sua attenzione. Anche e soprattutto per la sua ultima lezione.

Sospirò al chiudersi della porta e si voltò. Dagli occhi della platea scomparvero il profilo aquilino e il mento puntuto per essere sostituiti da un viso allungato, ossuto, gli zigomi marcati, capelli e barba grigi, perfettamente tagliati rasi e un paio di occhi viola ametista, nascosti dietro agli occhiali quadrati, dalla montatura dorata.

“Allora, sapreste definire cos’è la vita?”.

Nessuno rispose, tutti temevano il tranello. C’era sempre un tranello nelle lezioni di Stelvi. Per questo piaceva, era in grado di spiazzare tutti.

“Molti di voi sono qui perché hanno scelto di laurearsi in biologia e la biologia è la scienza della vita; come pensate di iniziare a studiare una disciplina se non sapete esplicitarne, circoscriverne l’oggetto? E chi tra voi studia medicina dovrebbe avere, anche se soltanto come idea vaga – perché nessun medico si specializza in vita – della sua unità, varietà e resistenza. Per gli altri, quelli che la studiano oramai da anni, oramai ho perso le speranze, le braccia mi sono cadute da troppo tempo”. E così mimò buffamente la caduta del braccio destro sulla cattedra e l’inutile tentativo di tenerlo sollevato con l’altro. Quello, cadeva sempre.

Allo scoppio di risa seguì un silenzio inquieto nella sala.

Allora lui riprese: “E’ una risposta difficile da dare ma, forse, l’unica definizione corretta e onnicomprensiva è che il concetto di vita sia attribuibile soltanto a quella materia in grado di riprodursi”.

Banale. Era una conclusione banale. Era scritto in tutti i libri. Non c’era nulla di originale. La sala si mosse leggermente. Era delusa. Qualcuno accennò perfino ad alzare una mano per intervenire, ma subito la ritrasse, incerto se fosse davvero il momento giusto per la discussione.

In silenzio, Stelvi scrutava il pubblico per verificare l’esistenza di una qualche reazione convinta. Sembrava guardare negli occhi di ognuno di quei cinquecento partecipanti per sapere, per capire se da qualcuno di loro sarebbe emersa una risposta.

Ancora una volta silenzio.

“Anche voi potete rispondere” continuò poi, rivolgendosi ai colleghi professori, tutti raccolti in un angolo della sala: “ma a voi domanderei di esprimere qualcosa di diverso dalla vostra narrazione quotidiana agli studenti, magari”.

Nessuno di loro provò a rispondere. Rischiava di essere sbeffeggiato. Stelvi era uno di quei ricercatori rigorosi al punto di essere rigidi, teneva l’intelligenza e il sapere nella più alta considerazione; quando qualcuno del suo rango avesse proposto soluzioni stupide o inadeguate, avrebbe conosciuto la sua acuta, sprezzante ironia.

Si allontanò dalla cattedra e iniziò a passeggiare tra i banchi. Gli studenti lo guardavano in attesa. In fondo erano innocenti loro, erano lì per imparare, non poteva certo pretendere di interrogarli.

“Bene, allora ricapitoliamo tutto daccapo” propose. “La vita è un processo che consiste nel mangiare, nel respirare e nel riprodursi. Così almeno la definiscono i vocabolari, e anche noi. Eppure, siamo certi questa sia la migliore delle definizioni? Per esempio, se un determinato tipo di materia non ha una di quelle proprietà, si può definire ancora vita? Oppure all’inverso se ha soltanto una di quelle proprietà, possiamo asserire con certezza che non si tratta di vita?”.

Il professore continuò la sua interminabile passeggiata andando avanti e indietro di fronte alla cattedra. Si sfregava le mani e si toccava i capelli; parlava guardando per terra e poi si voltava verso la sala per verificarne il grado di attenzione. Tutti sapevano quanto apprezzasse l’approvazione incidentale dell’ascoltatore, gli bastava solo un segno di comprensione, con la testa, e così, quasi sincronicamente, cinquecento teste radunate nell’aula magna si muovevano su e giù, nonostante non capissero dove volesse andare a parare.

“Una cosa la diamo per certa, ogni cellula vive. Cioè ogni struttura cellulare è autonomamente capace di scambiare energia con l’ambiente esterno, metabolizzare sostanze e riprodursi. Potremmo quindi dire vita uguale a nutrizione, respirazione e riproduzione uguale a cellula.

Oggi però, sappiamo dell’esistenza di strutture cellulari silenti per anni, secoli, forse millenni. Non mangiano, non respirano, non si riproducono. Sono forme inanimate. Ma possono, in determinate condizioni, tornare ad attivare il loro metabolismo. E abbiamo scoperto gli archeobatteri, organismi presenti nelle calde pozze dei vulcani, delle solfatare, nelle condizioni più estreme di temperatura, acidità, pressione, nelle sorgenti calde, nelle profondità marine, incapaci di sopravvivere nelle nostre condizioni, organismi senza una vera e propria fisiologia respiratoria”.

“Poi – continuò – ci sono i virus. Se isoliamo un virus dalla cellula di cui è ospite e parassita, il virus si riproduce? No, di certo. Si riproduce soltanto se riesce a infettare una cellula. Quindi, la riproduzione è un elemento chiave per permettere a quella specie, virus, di essere presente in quella forma materiale sulla terra. Eppure, il virus non mangia e tanto meno respira. Usa la cellula infettata, lo fa lei al suo posto. È furbo? Si è liberato di una serie d’ingombranti fardelli del metabolismo primario per fare un’unica cosa, riprodursi più e meglio di un coniglio.  E inoltre, lo ricordo, riesce a sopravvivere, tra una riproduzione e un’altra, senza né mangiare né respirare. La vita di un virus farebbe invidia alle fotomodelle. Esistere senza mangiare: il sogno del novanta per cento delle donne. E, ormai, di molti uomini”.

Ancora qualche risatina scoppiò tra il pubblico, erano soprattutto gli studenti. Il professore non raccontava nulla di scientificamente nuovo, ma era noto per sue associazioni di idee, confronti, iperboli.  Lo show di Stelvi era uno dei motivi della presenza di tanto pubblico. Gli altri, zitti e muti.

“Non c’è mica tanto da ridere, la vita di un virus non deve essere poi così simpatica. Salvo non riesca a inserirsi nei cromosomi e sopravvivere assieme alla cellula, deve combattere contro il sistema immunitario o qualunque altro sistema di difesa, inibirlo e poi riprodursi. E qual è il premio? La morte della cellula ospite e lui che se ne va di nuovo in giro per il mondo per cercare ancora qualche altra vittima. E lì fuori ci sono le sostanze chimiche, la temperatura, i raggi ultravioletti, insomma tutta una serie di elementi in grado di eliminarlo – fece una pausa – per nostra fortuna”.

Bevve un po’ d’acqua minerale gentilmente offerto dalla presidenza di facoltà per il suo ultimo seminario e sospirò.

“Ci pare quindi, da questo breve e superficiale excursus, che l’unico processo in grado di identificare tutto il materiale biologico, cioè quello che possiede la vita, è la riproduzione”.

L’aula era delusa. Il professore si era fermato di nuovo e guardava tutti. Sorrise.

“Siete d’accordo?” domandò.

Un mugugno nell’aula gli confermò l’accordo di una sala evidentemente insoddisfatta dello spettacolo. Erano argomenti noti e ultra-noti, non c’era niente di speciale. Aspettò lungamente il professore, aspettò anche solo una piccola obiezione, un’osservazione. Niente. Nessuno parlava. Rimase ancora in silenzio per molto. Tre lunghissimi minuti trascorsi spostando lo sguardo dalle sue belle scarpe inglesi al pubblico e dal pubblico alla finestra. Infine, si decise a parlare di nuovo.

“Bene, io dichiaro che fino ad ora vi ho raccontato solo un cumulo di sciocchezze. La vita non può corrispondere alla capacità riproduttiva. Riflettete, da Cartesio in poi noi crediamo di poter analizzare il mondo “biologico” come una macchina. Non solo, noi crediamo il mondo biologico una macchina. Ognuna delle nostre ricerche considera la cellula come un laboratorio in cui avviene ogni sorta di reazione chimica, in cui si realizzano processi meccanici, strutture in cui si creano e si distruggono campi magnetici, elettrici ed elettromagnetici, zone di flussi di energia, molecole, elettricità. Di conseguenza, nella nostra visione materialistica e riduzionista, l’essenziale della macchina in grado di “vivere” deve corrispondere a una struttura in grado di produrre delle copie. Coerentemente, noi definiamo assenza di vita l’assenza di riproduzione.

E allora, pensateci, che cosa stiamo cercando, uno stampo? Se gli esseri viventi sono una macchina, allora uno stampo è la vita. Se voi prendete lo stampo per fare i biscotti, mescolate la pasta e poi fate tanti biscotti uno dopo l’altro potete affermare trattarsi di vita. Lo stampo riproduce cloni di biscotti. Ogni processo seriale di riproduzione potrebbe essere vita. Esattamente come un virus. Lo stampo e il nostro braccio potrebbero rappresentare la macchina riproduttiva, la pasta per dolci la cellula, o almeno i substrati molecolari necessari alla replicazione. In assenza di tutto questo lo stampo rimane così com’è. Non si muove. Se crediamo invece sia l’informazione contenuta nel DNA la chiave della vita, un semplice software d’istruzioni per la costruzione di un qualsiasi oggetto potrebbe essere vita. E non parliamo dei cristalli. I cristalli sono minerali, ma secondo la nostra definizione, crescono, si allungano, si riducono e producono cloni di strutture. Nelle adeguate condizioni fisiche e chimiche, si espandono, cioè si nutrono, scambiano energia e si riproducono. Sono come colonie di batteri sessili, biofilm.

Eccoli lì, sapeva che, dopo le sue affermazioni, il pubblico l’avrebbe iniziato a guardare diversamente. C’era chi aveva un’aria sconvolta, chi lo guardava sconsolato, chi faceva spallucce e sottovoce diceva è la pensione… insomma, lo guardavano come un malato mentale.

Li sfidò. “Bene, se avete delle obiezioni, parlate”.

Evidentemente nessuno era benché minimamente interessato a interromperlo.

“Dubitate, perché? Perché sto parlando di biscotti? Perché i biscotti non si riproducono? Vi ho appena detto come accade che i biscotti si riproducono. Quindi i biscotti sono “vivi”. Oppure le automobili, o qualunque altro oggetto prodotto in scala industriale con uno stampo. Potreste obiettare che un virus è “anche” uno stampo, mentre uno stampo è solo uno stampo. Io vi rispondo che, se un virus usa la macchina nutrizionale ed energetica di una cellula per riprodursi, il biscotto è anche più furbo, perché ha esternalizzato – oggi si dice outsourcing – perfino il processo riproduttivo. I biscotti vivono la loro vita in modo diverso dalla nostra, ma la vivono lo stesso. E non mi dite che i virus infettano le cellule e le uccidono, perché i biscotti, ovvero alcuni biscotti, ingeriti in quantità industriale, possono provocare più danni degli stessi virus”. E sorrise.

Questa volta però, nessuno rise della battuta. La sala, adesso, sembrava ondeggiare davanti agli occhi del professore. I colleghi lo guardavano stranito senza osare aprire bocca. I suoi nemici finalmente sorridevano e parlavano di follia ad alta voce.

“Ecco, adesso sono pazzo. State pensando, dopo tanti anni di una carriera degna e onesta, con grandi risultati scientifici e accademici, Stelvi ha abbandonato il cervello da qualche parte nell’universo. Pensate sia necessario andare a riprendergli il senno, e Astolfo dovrebbe tornare sulla luna. Certo vi posso capire, ma se avete obiezioni perché non parlate? Vi siete alzati per dire qualcosa, per controbattere, per obiettare? No, perché non sapete cosa dire. Eppure, io parlo con linguaggio semplice, non ampolloso, provo a far funzionare la logica, a ragionare in sequenza”.

Non era possibile, qualcosa non funzionava in Stelvi! I suoi amici, quelli che gli volevano bene, guardavano angosciati il decadimento intellettuale dell’uomo preso ad esempio, umanamente e professionalmente stimato. Quelli che invece non lo amavano oramai gli ridevano apertamente in faccia. In ogni caso restavano tutti ai loro posti. Aspettavano. Chi una redenzione, chi il crollo definitivo.

Intanto, lui, cominciava a stancarsi, a sentire il peso delle sue stesse parole, il rischio di ridicolo di cui ci si può sempre coprire quando si prova a dire qualcosa di diverso, quando si devia dal confortevole tran tran della chiacchiera da libro stampato. Anche nel mondo scientifico, quel mondo che avrebbe dovuto essere aperto a ogni nuova idea, a ogni visione rivoluzionaria, c’era chi preferiva l’abitudine, le cose note, il conservativismo rispetto al nuovo. Ma la scienza non è una disciplina di stelle fisse, tutto cambia, tutto si rigenera. Da giovane aveva scelto di non credere alle apparenze, sapeva che il mondo rappresentato dalla biologia era il risultato di esperimenti, ma anche e soprattutto di una visione antropomorfizzata della vita. Da dove veniva, infatti, l’idea di codice genetico se non dalla tradizione militare dei linguaggi criptati, rafforzata durante la Seconda guerra mondiale? Cos’era la prova scientifica se non il prodotto della congettura e della scienza giuridica ben più antica della rivoluzione scientifica del rinascimento? E il concetto di controllo genetico o cellulare, con acceleratori, rallentatori, mediatori, non era forse il risultato della rivoluzione industriale, dell’invenzione della macchina? La natura potrebbe anche essere completamente diversa, qualcosa che non riusciamo a comprendere con il nostro intelletto, non possiamo capire cose diverse da come le immaginiamo.

Sospirò di nuovo. Questa volta guardò fuori. I finestroni erano stati aperti per ventilare l’aula. Era fortunato, entrava, in quel freddo inizio di primavera, un lieve profumo di erba bagnata a consolarlo, a tonificarlo della stanchezza. E poi, immaginava, c’erano i colori vividi dei ciclamini in lontananza, oltre il cemento del cortile, tra gli alberi del parco del campus. Perché cercare, domandò ancora a se stesso, perché dover avere sempre una spiegazione per tutto? E quando si è capito qualcosa, perché sempre questa pulsione a raccontare, a dire? E perché mi devo ancora sottoporre al giudizio di questi miei incapaci di colleghi?

È l’ultima volta, poi sarà finita, pensò ancora, ma era combattuto. Lo sapeva di sé, parlare era la sua droga, non ne poteva fare a meno. Le sue idee non potevano restare inutili prodotti della sua intelligenza. Egocentrico? – pensò. Anche questo era falso. Lui voleva soltanto essere apprezzato, amato, stimato e temuto. Questo voleva. E lo voleva ancora. E lo avrebbe voluto sempre.

“Bene – riprese – vedo l’incredulità dipinta sulle vostre facce; è già una buona cosa. Non credere è il primo livello per capirne di più. Adesso proverò a spiegare le mie riflessioni in modo più accademico, forse vi saranno più comprensibili. Se, e dico se, noi crediamo la capacità riproduttiva l’unica proprietà reale della vita, “vita uguale a riproduzione”, dobbiamo pensare l’obiettivo della selezione naturale sia quello di favorire la sopravvivenza del riproduttore. E null’altro. Tutte le funzioni complementari sono relativamente importanti se non sono finalizzate al raggiungimento di un maggiore adattamento riproduttivo. E, logicamente, una volta raggiunto il suo obiettivo, cioè riprodursi, l’organismo dovrebbe scomparire per lasciare il posto alla sua progenie per non competere per il territorio.

Eppure, non è così. Sebbene vi siano rare specie i cui membri muoiono non appena realizzata la loro funzione riproduttiva, moltissime sembrano non aver alcuna dipendenza dalla riproduzione. Noi siamo una di quelle. Vedete, mia moglie, e senz’altro anche le vostre, ha smesso di essere fertile a cinquant’anni. Nella stessa fascia d’età gli uomini riducono di molto la loro fertilità. Oltre i 38 anni c’è un rischio di progenie malata per alterazioni cromosomiche. Allora, perché siamo programmati per stare su questa terra cento venti anni? A cosa serve? Perché viviamo, e vogliamo tutti vivere, così tanto dopo aver smesso di riprodurci? La giovinezza, il periodo migliore per la riproduzione, è un’ombra che fugge. Non siamo neppure arrivati alla maturità sessuale e subito invecchiamo. Gli spermatozoi si riducono, gli ovuli si alterano. Quindi, perché viviamo? E non è solo la nostra specie a comportarsi in questo modo. Molti mammiferi vivono ben oltre l’età fertile. Si pensi ai cani, ai gatti, ad altre specie che ci sono familiari. E ancora: perché quando ci ammaliamo facciamo di tutto per guarire? Perché abbiamo creato una medicina che ci mantiene in vita ben oltre il tempo del nostro compito biologico? E perché io, che sto lasciando il mio mestiere di professore a settantacinque anni, voglio ancora vivere, ho ancora dei progetti? Chi avrebbe ancora il coraggio di fare un figlio con me o con chiunque alla mia età? Eppure, eppure noi vogliamo continuare a vivere. E ci lamentiamo perché pensiamo che con l’età adulta acquisiamo una saggezza che nessuno vuole, anche se nella realtà corrisponde soltanto a un desiderio di conservazione del potere.

Si fermò, prese fiato, bevve ancora un po’ e, davanti ad un auditorio ormai raccolto in un totale silenzio riprese.

“Potete perfino sostenere che homo sapiens non sia così evoluto e adattato al suo ambiente come un batterio, ma ci sono i fatti. È vero, purtroppo, che i fatti –sospirò – oramai gli stessi fatti li possiamo usare pro e contro una ipotesi senza alcun pudore, ma la verità è che le specie complesse compaiono tardivamente, dopo le specie più semplici, i metazoi dopo i protozoi, e poi pesci, anfibi, rettili e mammiferi e, tra i mammiferi, l’uomo. Si può discettare, discutere su tutto, ma non si può negare l’esistenza di una linea evolutiva orientata verso la complessità. E questa complessità non migliora, non adatta la fertilità, la riproduzione, al contrario, favorisce la vita individuale non fertile. Abbiamo spacciato l’allungamento della vita come il risultato dell’adattamento della specie alle cure di cui hanno bisogno nostri piccoli, uomo incluso. Per quel che riguarda l’uomo, questa idea è una totale, definitiva sciocchezza. Dobbiamo riconoscerlo, a settantacinque anni io vorrei vivere come un ragazzino, scopare come un riccio, avere molte amanti. E non voglio assolutamente, per fortuna, riprodurmi. Insomma, piuttosto della saggezza, cerco il divertimento. E non m’importa per niente se non do spazio ai giovani: voglio il potere, ancora alla mia età, voglio condizionare gli altri. E tutto mi porta alla conclusione che trascorro il tempo che mi è stato dato a cercare di vivere, di sopravvivere al di là delle mie possibilità biologiche, come individuo. Né come genitore, né come famiglia. Anzi, più il mondo è evoluto, moderno, meno figli vogliamo.

Non prendiamoci in giro, non c’entra niente la difficoltà di vivere la contemporaneità. C’entra solo il fatto che vogliamo la vita tutta per noi e i nostri figli sono soltanto un peso. Certo, ne facciamo uno o due per famiglia. La vera spinta alla riproduzione consapevole non è l’amore, è il bisogno di braccia per la nostra vecchiaia. Nel nostro mondo occidentale ne facciamo pochi e hanno tutti i diritti e nessun obbligo. Sono protetti fino all’inverosimile e, quando un genitore tenta di abusarne, è condannato ad anni di prigione. Li proteggiamo perché saranno in pochi a lavorare per noi. È un difficile equilibrio tra il godimento del presente, meno figli abbiamo e più liberi siamo da giovani, e il bisogno di garantirci le braccia per il futuro. Ci basta attraversare il mediterraneo per vedere come trova conferma quello che dico. In Africa le famiglie povere hanno molti figli. Così hanno, come i nostri contadini di cento anni fa, più braccia per lavorare la terra o emigrare altrove in cerca di benessere. Nei paesi mussulmani i vecchi incitano i giovani a sacrificarsi, a farsi saltare in aria, a fare una guerra che sanno di perdere. Perché lo fanno? Per il potere, per evitare che i giovani arrivino al potere e li sostituiscano. Per nascondere loro altro, la loro avidità e attaccamento al potere. Eccoli lì, questi giovani ideologizzati che diventano carne da macello di un potere di “vecchi”. Se i vecchi credessero nel paradiso di Allah davvero, andrebbero essi stessi a farsi saltare. Sono più vicini alla morte, potrebbero godere di tutti i piaceri del paradiso e lasciare la terra ai loro figli. Fare loro spazio. E invece no, certo, perché gestendo il potere, governandoli, avendone il pieno controllo, il loro paradiso è qui. Tutti, in un modo o nell’altro, siamo Saturno che tenta di uccidere Giove.

In occidente invece usiamo l’intelligenza, siamo più umani, siamo consapevoli di aver necessità di una certa progenie e cosa facciamo? Per i primi venti-venticinque anni li obblighiamo a studiare come matti per inserirli subito nel mondo del lavoro e produrre abbastanza per pagare le nostre pensioni. La chiamiamo solidarietà transgenerazionale.

Adesso lo capite, ve ne accorgete? Tutto, tutto nella vita è finalizzato alla “nostra” esistenza oltre il periodo riproduttivo. La riproduzione esiste per caso, perché proviamo piacere – di questo ve ne accorgete – ma è soltanto un accessorio. A noi nulla importa, se non per noi stessi, di avere altri figli, di diventare tanti. Per alcuni di noi la riproduzione esiste solo in relazione all’ideologia seguita o a obiettivi professionali. Ad esempio, gli economisti fondano le loro teorie sulla crescita illimitata della popolazione e dei beni, come se la terra potesse contenere infiniti miliardi di persone. Eppure, queste, assieme ad alcune questioni religiose, sono epifenomeni, non rientrano nella coscienza del mondo che, effettivamente, siamo. La nostra specie, per sua natura, si disinteressa completamente se ci sarà o meno una generazione futura. Vuole tutto adesso, subito.  Per questo proviamo ad allungare all’infinito la nostra capacità di esistenza, con la cultura, la medicina e le macchine artificiali. E quando le macchine saranno in grado di farci vivere, senza problemi, la vecchiaia, il nostro tempo di vita si allungherà all’infinito e ci saranno sempre meno esseri umani sulla terra”.

Questa volta si fermò, aveva finito. Cioè, non aveva finito, doveva chiudere, concludere, emettere la sua nuova ipotesi. Li guardò. Avevano smesso di guardarlo straniti. Avevano iniziato a capire. O forse lui voleva illudersi avessero capito. In ogni caso stavano in silenzio. Interdetti? Non volevano ancora intervenire?

Ecco allora le mie conclusioni. L’unica definizione logica della vita, l’unica che davvero includa tutto quello che conosciamo di biologico, di fisico, di chimico e di culturale del vivente, è che la vita null’altro è se non una lotta, strenua, per evitare di morire, per evitare la degradazione, la decomposizione. Per questo motivo la scintilla, quello che produce la vita è un mistero. Perché qualunque funzione essenziale fossimo mai in grado di attribuire alla vita, siamo anche, isolatamente in grado di riprodurla meccanicamente ma l’unica cosa che non sappiamo neppure anche solo come avvicinarla, è il meccanismo che lotta attivamente contro la morte. L’adattamento a resistere contro la degradazione, il codice finale. Queste però, sono soltanto parole. Che funzione è lottare contro la morte?

Se non è la riproduzione a dare un senso alla nostra come esistenza, non abbiamo alternative, dobbiamo credere esistano ancora le condizioni per la generazione spontanea della vita. Che quella lampadina che noi crediamo essersi accesa per un attimo tre miliardi di anni fa non si sia ancora spenta. Che la vita, sul nostro pianeta si generi in continuazione, naturalmente, spontaneamente.

Altrimenti, dobbiamo pensare di non essere vivi, o perlomeno di servire a qualche vero organismo vivente.

Come tutti ci ho sbattuto la testa, mi sono arrovellato il cervello, domandato il senso di questa esistenza finita, determinata. E poi ho capito. Bisogna tornare molto indietro, alle prime organizzazioni pluricellulari. Le spugne sono insiemi di cellule con un solo organo, il tubo digerente. Attraverso il tubo passano gli alimenti e vengono distribuiti, degradati e metabolizzati. Ecco nato il primo vero organo. E non appena creato, subito abitato da batteri che noi chiamiamo commensali. E poi sempre più avanti nella scala dell’evoluzione, con questo tratto intestinale che appartiene a ogni forma di animale pluricellulare. E nelle piante, filamenti di batteri e funghi che ne avvolgono le radici. E noi, che nel nostro tratto intestinale abbiamo più batteri di quante siano le cellule che compongono il nostro corpo. Non saremmo in grado di sopravvivere se non fossimo invasi dai batteri: l’intestino, il cavo orale, l’ano, la vagina, la pelle. Insomma, siamo l’ospite preferito da qualche migliaio di specie di batteri che ci danno un po’ di vitamine e di difese per vivere. Dove entra in tutto questo la riproduzione? Se non fossimo colonizzati al momento della nostra nascita da miliardi di batteri, la nostra vita non varrebbe nulla”.

Convincetevene signori, la vita, così come vogliamo di definirla, appartiene soltanto alle forme più semplici, gli organismi unicellulari, e questo perché questi ultimi passano davvero il tempo a resistere riproducendosi. Di conseguenza, nell’essere umano nulla, tranne i batteri che lo abitano può definirsi vita. Convincetevene signori, i vostri atti d’amore, di orgoglio, la vostra cultura, le vostre azioni quotidiane, il caffè che prendete alle dieci con i vostri colleghi, l’ansietà per i figli, le vostre passeggiate in campagna, la tristezza che provate quando un vostro caro scompare o la rabbia quando qualcuno si vi ruba un’idea, tutte, tutte queste azioni hanno un’unica finalità, quella di permettere ai batteri che vi abitano di sopravvivere in un ambiente caldo, umido e ricco di nutrimento. È per permettere ai batteri che ci invadono di sopravvivere che viviamo ben oltre il tempo della nostra riproduzione, è per trasferire questi microorganismi in altri luoghi adattati che ci riproduciamo per un tempo limitato della nostra esistenza. E loro realizzano la loro esistenza in noi e fuori di noi. Sì, l’unica cosa che contiene della vita, almeno nel senso che noi scienziati vogliamo darle, sono le vostre deiezioni. Sì, la vostra merda. Voi mangiate e cacate, distribuite vita nel mondo.  Convincetevene colleghi, il senso più coerente che poterete dare ai vostri studi futuri sarà quello di studiare la vostra merda.

Ecco la mia eredità, se vorrete seguirla perché, naturalmente, per me, da oggi questo non è più un mio problema, sono in pensione.

Con questo prese cappello cappotto e sciarpa in mano e senza neppure salutare se ne andò.