È una domanda che i pazienti si pongono spesso quando si avvicinano per la prima volta a uno studio omeopatico. Ha origine da un fatto tanto sconcertante quanto attuale: l’iperspecializzazione e le sue conseguenze.
La più evidente è che oggi i pazienti non sono abituati a parlare della loro storia personale, delle loro circostanze, delle loro situazioni di vita e delle loro sofferenze emotive quando si recano ai controlli, alle visite mediche periodiche e persino ai consulti privati. Non sono abituati a che il medico si interessi della loro vita, ma solo delle loro lesioni e conseguenze.
Il vissuto del paziente e l’iperspecializzazione
Nessuno, ormai da decenni, si preoccupa delle vicissitudini della propria anima e della propria esistenza, a meno che il medico di base non li mandi direttamente dall’iperspecialista dell’organo più a rischio, e poi sì, direttamente dallo psicologo o dallo psichiatra, che si occupa del comportamento (non tanto dell’anima) e delle sue motivazioni. Sorprendentemente, sembra che l’epatologo, il nefrologo, il cardiologo non siano affatto interessati alla totalità della sofferenza del loro paziente, né al rapporto di ogni organo con la storia di vita dell’essere sofferente (generalmente concomitante con la generazione della malattia).
È a queste specialità, psicologi e psichiatri, che è stato concesso quasi ufficialmente il diritto di interrogare i segreti più nascosti della vita di un essere umano, e quindi sembrerebbe che nessun altro interlocutore o circostanza abbia senso.
L’origine di questa idea di iperspecializzazione ha a che fare con l’enorme volume di pazienti che un ospedale assorbe. L’intenzione sarebbe, in questa circostanza, quella di prestare maggiore attenzione a ogni parte dell’organismo, anche se questa attenzione dettagliata non è integrata, e l’analisi dell’organo o della funzione separata dal suo “tutto” finisce per avere informazioni sempre incomplete, anche se c’è il desiderio di approfondire.
È un modo di separare l’inscindibile con l’intento di comprendere meglio ogni parte in sé, ma dimenticando poi di integrare ciò che si osserva nella totalità reale e storica dell’individuo malato. Vale a dire, senza collegare le parti tra loro. Stranamente, questo viene visto come un progresso, come un successo all’interno del sistema sanitario convenzionale.
Tuttavia, nella divisione dell’uomo si nasconde senza dubbio la perdita di comprensione della sua realtà. La perdita della comprensione della malattia come dialogo dell’uomo con la propria storia.
Per procedere in questo modo, deve aver preso piede il criterio dell'”uomo macchina”, dell'”uomo meccanico”, dell’uomo che può essere scomposto in parti unificate ma intercambiabili. Questa visione meccanicistica non riflette la realtà di ciò che è l’uomo. Non corrisponde all’unità totale di tutto ciò che, all’interno e all’esterno di questo stesso uomo, è organizzato sotto il nome della sua persona: Maria, Giovanni, Pietro o Filippo.
Il vecchio assioma della Gestalt secondo cui “il tutto non è uguale alla somma delle sue parti” è dimenticato. E l’assioma hahnemanniano secondo cui “non esistono malattie, ma solo persone malate”.
Cosa succede in Omeopatia
In breve, perché si pone questa domanda in relazione all’Omeopatia?
La ragione è semplice, la prescrizione di un rimedio omeopatico adeguato dipende dalla capacità di riconoscere i sintomi che costituiscono la sofferenza: ciò che possiamo dire essere caratteristico in quei momenti dell’esistenza del malato.
Tanto più se si tiene conto del fatto che per ogni tipo di sofferenza organica, in Omeopatia, esistono decine e decine di possibili rimedi; occorre quindi affinarsi molto bene attraverso un’interrogazione che permetta di vedere le cose in modo chiaro, accurato e preciso su base individuale.
Questi sintomi caratteristici sono sia fisici che emotivi e mentali, ma arrivano o si manifestano “tutti insieme”, contemporaneamente, nello stesso periodo di tempo.
Per un medico omeopata classico l’atto medico completo ha ovviamente diverse parti da soddisfare: una è l’arte, l’altra è la scienza. Dall’arte deriverà logicamente la conseguenza dell’incontro tra due anime. È in questo momento che avviene la narrazione da parte del paziente della sua esistenza conflittuale, cioè da dove viene, le condizioni e le difficoltà della sua vita fin dall’inizio, trasmettendo tutto ciò che è stato il “suo divenire”. È il momento della comprensione del suo conflitto esistenziale.
Già in questa prima parte dell’incontro con il medico omeopata, nella storia di vita del paziente sono presenti prove di sofferenza fisica, emotiva e mentale. Queste sofferenze sono organizzate nel racconto. Si capisce quando, come, dove e perché sono accadute. Vengono collocate nel tempo, in modo che si possa vedere come una sofferenza, un dolore e/o una malattia si sviluppino poco a poco.
Tutto questo aiuta il medico omeopata a comprendere il conflitto esistenziale del paziente e a differenziare il conflitto patologico che deve curare, per il quale deve trovare il rimedio simile alla totalità della sofferenza: il cosiddetto Simillimum.
Un caso clinico per capire
Una donna di 35 anni che si presenta per problemi bronchiali cronici, con una diagnosi di bronchiectasie emorragiche ripetitive. In altre parole, un allargamento (dilatazione) irreversibile di parti delle vie respiratorie (bronchi) a causa di una lesione della parete delle vie aeree.
La localizzazione di questa sofferenza ci parla già delle difficoltà emotive nella relazione familiare, anche se non sappiamo ancora di cosa si tratta.
I disturbi sono classici:
- Tosse con espettorazione di sangue (emottisi) con febbre ricorrente o dolore al petto.
- Farneticazioni (rumori nei polmoni durante la respirazione) e soffocamento.
- Alcuni casi di insufficienza respiratoria cronica con affaticamento, letargia e peggioramento della dispnea, soprattutto durante l’esercizio fisico.
- Perdita di peso.
Dal punto di vista fisico, la medicina convenzionale fornirebbe un trattamento standard e generico, cioè uguale per tutti i pazienti, basato su:
- Vaccinazione per prevenire le infezioni che causano o peggiorano la bronchiectasia.
- Antibiotici per il trattamento delle infezioni che causano o peggiorano le bronchiectasie.
- Drenaggio delle secrezioni dalle vie aeree con terapie di supporto alla tosse (come fisioterapia toracica, esercizio fisico regolare, altre tecniche).
- Farmaci per via inalatoria che aiutano a fluidificare o sciogliere il muco denso in modo che possa essere espulso più facilmente.
- Broncodilatatori per via inalatoria e talvolta corticosteroidi per via inalatoria.
- A volte antibiotici per via orale o inalatoria per uccidere alcuni batteri e prevenire infezioni ricorrenti.
- Raramente, asportazione chirurgica di parte del polmone.
- Ossigenoterapia, se necessaria.
Il trattamento delle bronchiectasie mira a ridurre la frequenza delle infezioni.
In altre parole, non c’è nulla per CURARE IL TERRORE PATOLOGICO del paziente, che è la vera causa della malattia.
Tuttavia, nell’interrogatorio proprio della medicina omeopatica, l’interesse a conoscere tutto ciò che costituisce la realtà della sofferenza porta a chiedere della sua vita, ED È PER QUESTO CHE POTREBBE SEMBRARE UNA SESSIONE DI PSICOTERAPIA a chi non è abituato, ma in realtà si discute normalmente della vita con il paziente, E NON SI UTILIZZA UN METODO PSICOANALITICO, MA UMANISTICO.
Terreno patologico e cause della sofferenza
È allora che si scopre di cosa è fatto questo terreno patologico, qual è il segreto che si cela al suo interno e qual è la ragione della sofferenza che dobbiamo curare. Questa ragione sarà naturalmente rivelata nel racconto dalla paziente stessa con chiarezza, accuratezza e precisione.
Lei stessa ci racconta:
“Ho tre sorelle più piccole, di cinque, tre e un anno, alle quali non mi sono mai sentita vicina. Mi hanno detto che non sono stata allattata al seno e che ho vomitato il latte artificiale. I primi giorni sono stati difficili e ho pianto molto. I miei genitori avevano difficoltà economiche e mio padre ha lavorato all’estero per molto tempo. La mia infanzia è stata fondamentalmente triste. Non ricordo momenti teneri con i miei genitori. Quando avevo cinque anni e mezzo è morto mio nonno materno (cancro alla laringe) ed è stata una liberazione. Credo di aver subito un abuso o di aver assistito a un abuso? Ero molto spaventata. Infatti, all’età di 10 anni ho pensato di essere stata adottata, perché non sentivo di essere amata. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Ho studiato per riconciliarmi con mio padre e mi sono preparata a insegnare letteratura medievale all’università.
A 25 anni ho incontrato il mio futuro marito e mi sono sentita a casa. Quella sera, mentre parlavamo per la prima volta, ho intravisto una vita futura insieme, ho sentito il profumo dei bambini piccoli. Quando rimasi incinta, controvoglia, ancora fidanzata, lui si allontanò da me e io mi sentii sola. La gravidanza mi spaventava, stavo in guardia per me e per il bambino. Ci siamo sposati in modo improvvisato e affrettato quando ero al sesto mese di gravidanza.
Il bambino è nato con un parto cesareo, perché era podalico. Mio marito non si è nemmeno presentato. Mi sono sentita invisibile, inascoltata, inesistente. Ho sofferto di depressione post-partum. Ho allattato per un anno. Ho dormito pochissimo. Abbandonata, mi sono dedicata allo studio, ma ho pianto molto. Quando la bambina aveva tre anni, fu ricoverata in ospedale per una gastroenterite e io rimasi con lei in ospedale per una settimana. Ne uscii con una polmonite che mi lasciò i polmoni ammaccati, entrambi, in tutti i quadranti. Ho sviluppato una bronchiectasia. Ho avuto molti consulti, ricoveri, esami. Ci furono episodi di emorragia dei bronchi e, ancora oggi, tutto il quadro si ripete, così come l’abbandono. Tre anni fa mi sono separata da mio marito perché lui voleva che lo facessi e se n’è andato. Poco prima della separazione sono rimasta di nuovo incinta, ma mio marito non ne voleva sapere e l’ho perso.
Ho vissuto e vivo nel panico, con la paura di morire. Provo molta malinconia, tristezza che a volte è disperazione e senso di colpa. Spesso piango. Vorrei una macchina del tempo per tornare a casa con lui e ricominciare tutto da capo. Mi sembra una punizione esagerata, una ferita aperta che non finisce mai. Ho molta ansia, disturbi del sonno, senso di fallimento, vuoto, paura del futuro. Sono una persona fragile, emotivamente fuori controllo, incline a rimuginare, di cattivo umore, con mille paure… disadattata alla vita e malata.
La via del Simillimum
Cosa fa un medico omeopata con questa storia? Si limita ad ascoltarla? Si limita a confortare il paziente? No! Comprendendo il conflitto in cui si è sviluppata l’esistenza di questa donna, essenziale e fondamentale per capire chi è e perché soffre, e di cosa esattamente dobbiamo curarla, il medico omeopata si concentra sulla scoperta dei sintomi caratteristici che personalizzano la sua sofferenza e che ci porteranno a somministrare il Simillimum, ovvero il rimedio più appropriato per innescare la reazione di guarigione della paziente, fisica ed emotiva, dall’interno della sua vita, dalle sue forze vitali. In questo modo le daremo la capacità di risolvere i suoi conflitti e le permetteremo di affrontare la vita con tutta la forza possibile per ricostruire la sua realtà.
I sintomi caratteristici evidenti sono:
- Conseguenze della mancanza di amore fin dall’infanzia, con un senso di abbandono.
- Paura del futuro, della malattia e della morte.
- Malinconia continua che arriva fino alla disperazione.
- Pianto per ogni cosa, fragilità per ogni cosa.
- Desiderio di compagnia, sostegno e comprensione.
- Tosse emorragica con dolore al torace, soprattutto ai vertici, specialmente stando sdraiati sul lato peggiore.
- Il sangue è nero, come se fosse coagulato.
- La tosse inizia nel pomeriggio e dura tutta la notte.
Insomma, una condizione che richiede un rimedio come Pulsatilla e che, opportunamente prescritto, dovrebbe restituire al paziente la capacità di vivere.
Non ha potuto cambiare la sua storia finora, ma può cambiarla ora, se invece di vivere nel passato si apre alla vita, alla salute e all’equilibrio progressivo, e trova la forza non di ricostruire ma di costruire la felicità possibile che le appartiene.