A febbraio, con colpevole ritardo e con indubbie responsabilità nella tragedia sanitaria del Covid-19, la Cina ha finalmente deciso di mettere al bando la vendita per fini alimentari di animali selvatici. Uno stop non certo senza ripercussioni, in un Paese dove questo tipo di commercio, oltre ad avere profonde radici nella cultura locale, rappresenta l’unica fonte di sostentamento per larghissime fasce della popolazione, per la maggior parte residenti delle aree rurali. Le proteste non hanno tardato a farsi sentire. Allevatori (se così si può dire, dal momento che gli animali di queste categorie vengono per la maggior parte catturati nei loro habitat d’origine) delle regioni interne hanno lamentato danni notevolissimi, mentre molte persone appartenenti alle fasce più povere si son viste sottratte in un colpo solo l’unica fonte di reddito e di cibo. Così il partito di Xi Jinping ha deciso di intervenire in maniera più incisiva, stabilendo un vero e proprio “prezzario” di rimborsi garantiti agli allevatori che decidono di riconsegnare i propri animali.
Era ora che la questione del consumo alimentare di animali selvatici venisse affrontata in maniera definitiva e organica. Già nel 2003 infatti, in occasione dell’epidemia di SARS, il governo di Pechino aveva imposto uno stop alle vendite di questi animali in tutto il territorio nazionale. Ma quello che era sembrato un intervento dal pugno di ferro si era presto trasformato in una bolla di sapone. Pochi mesi dopo il divieto era stato eliminato. Il commercio era tornato rigoglioso e i mercati erano tornati a brulicare di serpenti, pipistrelli, pangolini e zibetti. Per avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno, basti pensare che dall’inizio delle restrizioni ad oggi sono state chiusi più di 20mila allevamenti. Un giro d’affari, quello degli animali selvatici, che si stima arrivi a oltre 60 miliardi di euro. Lo stesso, potentissimo Partito Comunista, fino a pochi mesi fa incentivava attivamento questo tipo di allevamenti, ritenendolo un ottimo volano economico. Una pratica molto mal vista nella stessa Cina, dove la più scolarizzata fascia media cittadina, guarda con sbigottimento agli usi e costumi delle zone rurali. Questa volta, però, pare proprio che le cose andranno diversamente. Del resto, anche alcuni personaggi noti della cultura pop locale, che avevano fatto fortuna pubblicando video in cui cucinavano poveri animali esotici, hanno smesso di farlo, chissà se per adeguarsi autonomamente alla nuova aria che si respira, o magari sottoposti a qualche “pressione dall’alto” ben più incisiva.
Così oggi chi si trova nella provincia dello Hunan, o nel vicino Jiangxi, può trovarsi a sfogliare un insolito menù, dove ciò che leggi non è ciò che ti appresti a mangiare, ma ciò che invece non mangerai mai più. 120 yuan (17€) per ogni chilogrammo di serpenti o 75 yuan per i ratti del bambù. Per istrici e zibetti si arriva fino a 600 yuan, una cifra ragguardevole da quelle parti. Speriamo che questo intervento di soft power , irrituale per un governo abituato a usare metodi meno ortodossi, possa portare ai risultati sperati e alla fine delle inutili sofferenze di questi animali. Quello che appare certo, purtroppo, è che vietare un commercio, più che farlo sparire dalla circolazione, tende a trasferirlo nel mercato nero, dove i controlli sono ancora meno e i rischi anche più alti.