Quando un concetto è difficile da spiegare uno dei metodi con cui lo si può rendere più chiaro è ricorrere ad un esempio, attraverso il racconto di una storia. La protagonista è una donna, una quasi sessantenne col sorriso a mo’ di strumento prediletto nel cammino della vita. All’improvviso, nel bel mezzo di un giorno normale di trecentosessantacinque tutti uguali, questa donna si è ammalata e dal momento in cui ha realizzato che il suo cammino si stava annodando impetuosamente, qualsiasi cosa intorno a lei e dentro di lei è cambiata.
Pochi sono stati i mesi a seguire e così come la velocità dello scorrere dei giorni, anche gli ingranaggi del sistema sanitario hanno funzionato con rapidità. Non uno ma un’equipe di specialisti si è prodigata nel fare tutto il necessario. Tutto quello che qualcuno ha stabilito si debba fare in questi casi. Medici d’esperienza e medici giovani pieni di umanità, pieni anche di rigore nel fare tutto quanto è previsto per una persona affetta dalla malattia del secolo. Una persona che non è la protagonista della mia storia, bensì un individuo modello rappresentativo di tante storie simili. Purtroppo, la donna non è sopravvissuta alla sua pena, ma aggiungo che la donna non è sopravvissuta al protocollo applicato. Eppure, ci sono statistiche che dicono l’esatto contrario. Statistiche vere, che abbracciano fasce di popolazione, ma che non abbracciano te.
Questa non è una storia dal lieto fine, ma credo fermamente che lo potrebbe diventare se sommandosi ad altre innumerevoli storie scardinasse un sistema sanitario omologato in cui l’individualità dell’essere umano è messa in secondo piano, se non addirittura soppressa. Mi chiedo quanto si potrebbe ricavare in più, in termini di conoscenza, se uno specialista della suddetta equipe si soffermasse sul paziente e non soltanto sulla sua malattia. Mi rispondo: senza dubbio molto di più. Se oltre alla scrupolosa analisi dei risultati dei test invasivi a cui ci si sottopone in questi casi, ci fosse spazio per accogliere anche qualche altro elemento che nessuna macchina può tirar fuori.
Un corpo ammalato che intraprende una terapia possiamo considerarlo coinvolto in una battaglia per la guarigione ed allora perché non usare tutte le armi a disposizione? Quelle definite convenzionali puntano ad eliminare il visibile quindi l’effetto delle patologie; quelle che vanno in profondità mirano all’eliminazione della causa ed ancora oggi vivono nell’ombra di un sistema sanitario che non può ambire all’infallibilità, ma che potrebbe migliorare.
Ritornando alla mia storia, se il protocollo fosse stato applicato con maggiore conoscenza della paziente, unica su questo mondo, qualcuno ne avrebbe giovato, in primis la donna che non si sarebbe sentita parte di un sistema, ma il sistema. Tra le tante stanze in cui è stata dirottata è mancata quella di un medico omeopata. Probabilmente il suo destino non sarebbe cambiato, ma ci sarebbe arrivata in modo diverso, con la consapevolezza che nessuno degli aspetti del suo stato morboso era stato trascurato. Con meno effetti collaterali, i quali da protocollo vengono gestiti da farmaci che ne generano di altri a propria volta. Quando ad un certo punto della vita ti cade addosso un macigno (chiamato malattia) senti come se ti fosse capitata una condanna da scontare, ma le malattie non capitano, esse dipendono da ogni singolo elemento fisico e non fisico di un individuo tenuti insieme da una forza vitale di cui non si sente mai parlare.
Se disgraziatamente dovessi trovarmi a vivere un’esperienza simile, mi conforterebbe molto incontrare sul mio percorso almeno una persona dell’equipe medica che mi chiedesse chi sono, cosa mi porto dentro… mi chiedesse del mio vissuto, che si prendesse del tempo per osservarmi. Non si sa mai che nelle mie risposte ci siano chiavi di lettura e soluzioni che migliorino l’applicazione del protocollo.