“Revenge porn”, lo hanno definito. Eppure, nella brutta storia della maestra di Settimo Torinese licenziata, non c’è né vendetta né porno. C’è una donna che, nella sua intimità, ha fatto quello che riteneva opportuno. E si è poi fidata dell’uomo che frequentava. Il quale, però, si è rivelato un criminale (condividere materiale privato senza il consenso dell’interessato è un delitto secondo l‘art. 612 ter Codice Penale) e lo ha diffuso ai suoi amici del calcetto. E c’è poi un intero mondo di perbenismo bigotto e arretratezza culturale che ruota attorno a questa “chat del calcetto”. Di questo, però, parleremo dopo. Ora torniamo alla vendetta, e al porno.
Né vendetta né porno, ma arretratezza culturale e reati
Perché quasi tutti i grandi quotidiani hanno utilizzato questi termini, insieme ad altri che provengono dalla stessa sfera, quali “video hard”, o “video a luci rosse”? Perché questo genere di etichette sono funzionali a una narrazione che in Italia ha un grandissimo riscontro: quella dell’uomo sofferente e della donna poco di buono. La vendetta ci fa subito pensare ad una persona ferita, con cui empatizzare. Mentre il porno, nella visione dei più, ci rimanda l’immagine di una prostituta, che col suo fare disinibito ha provocato il raptus dell’uomo. Qualcuno dalle vedute un po’ più aperte potrebbe obiettare che non c’è nulla di male nel porno, né nelle prostitute. Ma questo non ha alcuna importanza, perché il tribunale sociale ha regole diverse di quello penale, e queste caselle ti condannano al biasimo generale.
Etichette che assolvono l’uomo e colpevolizzano la donna
Ora, noi sappiamo che nel caso in esame non c’era nessun uomo ferito, nessuna donna fedifraga, e soprattutto nessun raptus. Ma solo un uomo che considera la donna un trofeo di cui vantarsi con gli amici, senza alcun rispetto della vita di lei. E, attorno a quest’uomo, una serie di persone provenienti dallo stesso retroterra culturale.
La moglie dell’amico che, visti i video, scrive alla ragazza per minacciarla di diffondere le immagini. La direttrice dell’asilo, che la licenzia, per altro rendendo pubblico l’accaduto e il motivo del licenziamento. L’amico dell’uomo che, incredibilmente, intervistato così dichiara: «Quelle cose la maestra non doveva farle. Io e mia moglie non abbiamo fatto nulla di male, e in queste ore abbiamo ricevuto messaggi orribili. Minacce, insulti. In questa storia la donna non è la vittima. lei ha mandato quei video, poteva immaginare ciò che sarebbe successo».
Un quadro sociale allarmante
Purtroppo tutto questo ignobile teatrino ci mostra come il problema non possa essere ridotto all’uomo che ha condiviso il video. Né al solo genere maschile, visto che metà delle protagoniste (e delle denunciate) sono donne. Ma è, piuttosto, l’espressione di un bias culturale che attraversa tutta la società. Dobbiamo essere solidali con questa ragazza, che ha avuto il coraggio di denunciare e mettere in moto la nostra giustizia, lenta e in larga parte inefficace. Ma più che chiedere soddisfazione dalle condanne, peraltro davvero blande date le circostanze, dovremmo lavorare per creare un humus culturale che possa cambiare radicalmente il ruolo della donna nella società.
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