Immagina di essere essenziale ma invisibile. Di salvare vite ogni giorno, ma di dover lottare per un salario dignitoso. Di rappresentare il 40% della forza lavoro sanitaria nazionale, ma di essere trattato come un ingranaggio sacrificabile. È questa la frustrante realtà degli infermieri italiani: professionisti in prima linea ma relegati ai margini quando si parla di riconoscimento economico e professionale.
Il sistema sanitario italiano sta affrontando una crisi strutturale che minaccia la sua stessa sopravvivenza, e al centro di questa tempesta perfetta si trovano proprio loro, gli infermieri. Il primo “Rapporto sulle professioni infermieristiche”, realizzato dalla FNOPI (Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche) in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ha recentemente fotografato questa drammatica situazione con dati che fanno riflettere e, soprattutto, preoccupare.
Il divario economico con l’Europa
La disparità retributiva rispetto agli standard europei è forse il dato più eclatante: un infermiere italiano guadagna mediamente 32.400 euro lordi all’anno, ben 7.000 euro in meno rispetto alla media OCSE di 39.800 euro. Mentre in paesi come Lussemburgo, Germania e Paesi Bassi gli stipendi sono significativamente più alti (in Lussemburgo si arriva addirittura a 80.000 euro annui), l’Italia si colloca tristemente tra i fanalini di coda europei.
Il paradosso è che nei paesi dove gli infermieri sono meglio retribuiti, sono anche numericamente più presenti: questo sfata il mito secondo cui pagare meno permetterebbe di assumere più personale. Al contrario, migliori condizioni economiche rendono la professione più attrattiva e contribuiscono a garantire un’assistenza di qualità superiore.
Le disuguaglianze regionali
Alla già critica situazione nazionale si aggiunge un preoccupante divario interno. Le differenze regionali sono marcate, con retribuzioni che variano dai 37.204 euro del Trentino-Alto Adige ai 26.186 euro del Molise. Anche Campania e Calabria presentano stipendi sotto i 30.000 euro annui. Questo squilibrio si riflette anche nelle opportunità di carriera: nel Meridione i dirigenti infermieristici sono pochissimi (in Campania appena 0,2 dirigenti ogni 1.000 infermieri), mentre regioni come l’Emilia-Romagna o il Trentino superano quota 3.
La carenza di personale e il rischio abbandono
Un altro problema cruciale è la scarsità di personale infermieristico. In Italia ci sono appena 6,5 infermieri ogni 1.000 abitanti, contro gli 8,4 della media europea. Considerando solo il settore pubblico, il dato crolla ulteriormente a 4,79 per 1.000 abitanti, con regioni come Lombardia e Sicilia ferme a 3,5.
Questa situazione genera un crescente malcontento: quasi il 30% degli infermieri italiani pensa di cambiare lavoro, percentuale che sale fino al 45% nelle aree ospedaliere, dove si valuta di abbandonare la professione entro un anno. Le cause principali? Stipendi inadeguati, carenza di personale e scarse opportunità di crescita professionale. Nel solo 2024, si sono registrate oltre 20.000 dimissioni volontarie in appena nove mesi, un esodo senza precedenti.
Il calo dei laureati e il problema della formazione
Dalla formazione universitaria arrivano segnali preoccupanti. Dopo un periodo di crescita dal 2004 al 2014, con un picco di 13.058 laureati nel 2015, il numero di nuovi infermieri è in costante diminuzione. Nel 2022 si sono laureati solo 9.947 professionisti, il valore più basso dal 2011, leggermente risalito a 10.631 nel 2023. Un dato che testimonia la progressiva perdita di attrattività della professione.
In compenso, aumentano coloro che ottengono la laurea magistrale quinquennale: 1.386 nel 2023, il doppio rispetto a un decennio prima. È un segnale di crescita professionale confermato anche dal fatto che oggi oltre due terzi degli iscritti alle facoltà di scienze infermieristiche provengono dai licei, mentre nel 2004 erano meno della metà.
Le soluzioni proposte e le iniziative in corso
Per affrontare questa emergenza nazionale, la FNOPI ha chiesto l’istituzione di una cabina di regia governativa con poteri straordinari che coinvolga più ministeri e strutture di vertice. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha annunciato alcune misure per valorizzare la categoria, tra cui l’introduzione della libera professione per chi lavora nel servizio pubblico, indennità per chi è occupato nell’emergenza-urgenza e detassazione degli straordinari.
Tra le iniziative più concrete ci sono l’avvio di tre nuove lauree specialistiche (in pediatria, cure territoriali e dell’emergenza) che potrebbero partire dal prossimo anno accademico, e un disegno di legge delega atteso per giugno che dovrebbe aggiungere nuove competenze e percorsi di carriera. Queste specializzazioni permetteranno l’ampliamento delle responsabilità, inclusa la possibilità di prescrivere medicazioni, presidi e dispositivi come i cateteri, finora appannaggio esclusivo dei medici.
Le prospettive future e il ruolo nella sanità territoriale
La carenza di infermieri mette a rischio anche lo sviluppo della sanità territoriale, pilastro della riforma sanitaria finanziata con i fondi del PNRR. Le oltre 1.400 Case di comunità da attivare entro metà 2026 richiedono la figura dell’infermiere di comunità (una sorta di “infermiere di famiglia”), con uno standard di un professionista ogni 3.000 abitanti. Tuttavia, i tempi per centrare questo obiettivo variano notevolmente: se la Toscana prevede di implementarlo entro il 2026, altre regioni come l’Emilia-Romagna stimano 4-5 anni per raggiungere il target.
A parziale compensazione di questa carenza, il sistema si sta affidando sempre più a professionisti stranieri: sono 43.600 gli infermieri esteri che lavorano in Italia, con un aumento del 47% dal 2020.
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