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4 Marzo, 2025

Baptisia tinctoria

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Indaco Selvatico

Disorganizza tutti gli umori del corpo, causando gravi stati febbrili infettivi come la febbre tifoide, febbri settiche o stati di avvelenamento malarico, con la caratteristica di estrema prostrazione.
Le febbri appaiono in modo improvviso e repentino, così come la prostrazione si manifesta bruscamente.

Agisce intensamente sulle mucose, provocando vere e proprie ulcerazioni molto distruttive.
Dolori muscolari che sono più intensi nelle zone di appoggio, come se fossero contusi. Tutto gli sembra duro, soprattutto nella regione sacrale. Non tollera il contatto o la minima pressione.

Tutte le secrezioni del corpo hanno un odore cadaverico, dall’alito al sudore, dalle feci all’urina e alle ulcere.
Tutto il suo organismo entra in stato di decomposizione e gangrena.

Ha un sintomo singolare: la sensazione di sprofondare nel letto.

Peggiora con qualsiasi sforzo, camminando o muovendosi. Anche in una stanza chiusa sta peggio, perché ha avversione all’aria aperta. Migliora leggermente con il riposo, bevendo liquidi e all’aria aperta, sebbene non lo desideri.

 

Quintessenza: Febbre infettiva grave, improvvisa e repentina – Prostrazione fisica e mentale – Delirio – Decomposizione degli umori – Odore cadaverico – Gangrena.

 

  • Febbre infettiva grave, improvvisa e repentina: aumento della temperatura corporea con accelerazione del battito cardiaco e della respirazione.
    • Grave: potenzialmente mortale.
    • Improvvisa: che appare violentemente senza preavviso.
    • Repentina: che inizia e si sviluppa con grande rapidità in modo inaspettato.
  • Prostrazione fisica e mentale: incapacità di manifestare e agire per esaurimento, sia delle funzioni fisiche che delle operazioni mentali.
  • Decomposizione degli umori: degradazione di tutti gli elementi costitutivi dell’organismo con secrezioni putrefatte e odore cadaverico.
  • Gangrena: blocco dell’afflusso di sangue a uno o più tessuti, seguito da necrosi e decomposizione degli stessi.

 

Caratteristiche predominanti

Il malato presenta una profonda depressione nervosa e, improvvisamente, fatica a raccogliere le idee, non riuscendo a completare un pensiero.
Un tratto distintivo è che, quando gli si pongono domande, inizia a rispondere ma subito cade in uno stato di profondo stupore e intensa sonnolenza. È come ubriaco, intossicato. Lo sguardo è fisso e indifferente a tutto.

È esausto e dolorante, ma con una forte agitazione che lo porta a muoversi involontariamente anche in stato soporoso.
Pieno di idee confuse, deliri e stati di divagazione molto particolari: mormora parole e ha la sensazione di essere doppio o triplo, oppure di essere diviso in più parti e si muove facendo gesti come se volesse riunire i pezzi immaginari.

Quando dorme ha incubi e sogni terribili, al punto da temere di addormentarsi. Ha paura di soffocare.
Avverte vertigini e una forte debolezza in tutto il corpo, specialmente alle ginocchia.
Sente pressione alla base del naso e dolore occipitale e frontale, come se la pelle fosse tesa, tirata e retratta.
Il viso è gonfio, di colore rosso scuro, con un’espressione di ottundimento. Anche gli occhi sono rossi, sensibili e dolenti.

Ma il principale centro d’azione della Baptisia è l’apparato digerente.
Il paziente ha difficoltà a estrarre la lingua perché è tremante, gonfia, dolente e bianca, con papille rosse. Secca, screpolata, con una riga marrone-rossastra al centro.
Le gengive sono gonfie, tumefatte, dolenti e ulcerate. I denti sono coperti di sporcizia.

La mucosa linguale è piena di piccole ulcerazioni rosso scuro molto dolorose, che si espandono rapidamente con un sapore amaro e un odore putrido, gangrenoso, insopportabile.
Le fauci appaiono gonfie e di colore rosso opaco, con una secrezione putrida che ricopre la faringe, le tonsille e il palato molle.
Non riesce a deglutire solidi perché rischia di soffocare. L’unica cosa che desidera è l’acqua fredda.

Alla costrizione faringea si aggiunge quella esofagea con una sorta di spasmo cardiaco che provoca crampi e impedisce l’alimentazione.
Sente costantemente la presenza di un corpo duro nello stomaco.
L’addome è gonfio d’aria, con borborigmi e dolore, gorgoglii. Ha fastidi specialmente sul lato destro.
Le evacuazioni sono molto fetide, sebbene scarse. Sono putride e talvolta nerastre o sanguinolente.

Respira con difficoltà perché sente i polmoni compressi, rigidi e dolenti. Preferisce stare seduto per paura di addormentarsi e svegliarsi a causa degli incubi o del timore di soffocare.

La pelle brucia. Sente caldo e presenta molte macchie livide sul corpo.
Le febbri brusche e improvvise hanno caratteristiche particolari: compaiono alle 11 del mattino e durano tutto il giorno, con la sensazione di avere il corpo spezzato.
La temperatura sale rapidamente e raggiunge il massimo entro le 15 ore, con una sudorazione abbondante e maleodorante. Il polso è rapido e intermittente.

È tipico della febbre tifoide. Inizia con grande nervosismo, brividi e dolori muscolari molto intensi alla testa, alla schiena e agli arti.
Rapidamente precipita in una prostrazione sempre più profonda, con abbattimento generale e indifferenza. Confusione mentale. Occhi iniettati di sangue. Viso congestionato e ottundimento soporoso, al punto che, se gli si pone una domanda, si addormenta a metà della risposta.
Mormora parole sconnesse e pronuncia frasi confuse, come se fosse a pezzi, cercando di ricomporli con movimenti inconsapevoli.

La lingua è marrone con una riga bianca ben marcata al centro.

Le feci, l’urina e il sudore emanano un odore insopportabile, putrido, cadaverico.

Storia di Arihuá

Arihuá, quando l’ho incontrata per la prima volta, era una donna indigena di circa 65 anni, appartenente al popolo Tarahumara del Messico profondo, una comunità con oltre 15.000 anni di storia. Viveva tra le montagne, in caverne o capanne, come i suoi antenati.

Cresciuta e invecchiata in quelle terre, Arihuá aveva avuto tre figli: due maschi e una femmina. La sua vita era sempre stata dura ma indubbiamente sana, una prova di resistenza quotidiana, caratteristica del suo popolo, famoso per la forza, la resistenza e la velocità nella corsa.

A riprova di ciò, basti ricordare che i tarahumara sono stati ingaggiati da manager sportivi per presentarsi alle Olimpiadi nelle gare di fondo per la forza e la resistenza oltre che per la velocità del loro passo, con lusinghieri successi.

Non conobbi Arihuá nella sua capanna tra le montagne, ma in un modesto appartamento a Città del Messico, vicino a un ambulatorio omeopatico che assisteva le comunità più povere. Sua figlia, Nelli, venne da noi in lacrime, implorando aiuto perché sua madre stava morendo. Non poteva portarla in ambulatorio: Arihuá giaceva a letto con una febbre ardente e violenta, in delirio.

Nelli era venuta da noi spaventata e disperata, così andai a casa sua per visitare sua madre.
Lungo la strada mi raccontò qualcosa della sua storia.

Nelli aveva circa 35 anni ed era l’ultima dei tre figli, nata dall’unione di Arihuá con il suo uomo, anche lui tarahumara, che si chiamava Kárami (colui che corre veloce).
La vita dei tarahumara ruota intorno all’allevamento e all’agricoltura, con la produzione di mais, fagioli, zucca, peperoncino e altre colture. Inoltre, anche la caccia e la raccolta di frutta ed erbe selvatiche fanno parte del loro stile di vita, condito da scambi commerciali con altri gruppi Vicini (mai così vicini). Un commercio fatto con molto sforzo e per il quale sono necessarie molte energie.

Crescendo, lei e i suoi fratelli avevano deciso di lasciare la loro terra in cerca di una vita migliore. Questa separazione fu un trauma per Arihuá: non riusciva a concepire l’idea di abbandonare la sua casa e le sue montagne. Per lei, i suoi figli non avevano bisogno di nient’altro che della natura che li aveva cresciuti.
Non conosceva la parole “emigrare”, abbandonare la casa per vivere meglio. Arihuá non poteva capirlo. Cosa mancava a quei tre figli in quell’immensa meraviglia delle montagne dove erano cresciuti?

Con la rassegnazione mista a dispetto e impotenza, tipica del suo popolo,, Arihuá accettò la partenza dei figli. Ma per una comunità primordiale come la loro, la separazione era definitiva: senza comunicazioni, vedere partire un figlio significava perderlo per sempre. Arihuá e suo marito, Kárami, soffrirono in silenzio ingoiando le loro lacrime.

I figli se ne andarono circa 10 anni fa. Anche loro si dispersero in cerca di lavoro. Un lavoro che non sapevano come svolgere in città. Non erano preparati a quella vita.

Il figlio maggiore andò a vivere vicino a Tijuana. Si diede alla droga e spacciava. Fu incarcerato un paio di volte e poi rilasciato grazie alla corruzione dei poliziotti. Ma non riusciva a venir fuori dalla malavita.

L’altro fratello trovava sempre lavori da manovale malpagati e tornava sempre malconcio, maltrattato e umiliato. Cambiava città più volte, rimanendo nelle vicinanze, ma sempre in una precaria situazione di lavori da scaricatore. Era magro e consumato. Il suo carattere era cambiato. Da ragazzo vitale e allegro che era stato, era diventato un uomo invecchiato e senza sorriso, diffidente, sospettoso e violento.

Nelli passò da Chihuahua a Sonora e da lì una signora la portò a Città del Messico, dove lavorò in casa sua facendo le pulizie per molti anni, fino alla norte della signora. E poi Nelli ha cercato di guadagnarsi da vivere come poteva facendo lavori simili, quando li trovava. Quattro anni fa una signora l’ha aiutata ad aprire un piccolo negozio di alimentari e da allora si guadagna da vivere così. Il negozio ha una parte sul retro che le serve da casa. Una stanza che dà su un cortile interno un po’ buia ma con una finestra e una parte separata dove c’è quella che si potrebbe chiamare cucina e sala da pranzo. Cioè, i fornelli e un tavolino con due sgabelli.

Tre anni prima, Kárami morì. Nelli lo scoprì mesi dopo, solo quando riuscì a tornare al villaggio. Resasi conto della solitudine della madre, la convinse a trasferirsi con lei in città. Ma il passaggio dall’infinita vastità delle montagne alla stretta stanza dietro la bottega fu per Arihuá una lenta agonia, in una città che offriva solo sporcizia, rumore, miseria e disperazione.

Piangeva in silenzio, resisteva, ma si consumava. Nelli cercava di distrarla, di portarla in giro, ma nulla la rallegrava. L’ultimo tentativo fu un’escursione sui canali di Xochimilco. Sedute su una trajinera, mangiarono tamales e quesadillas, ma Arihuá rimase assente.

Dopo meno di 48 ore, fu colpita da una febbre violenta, con diarree putride, un caso tipico di infezione da salmonella, la famigerata “vendetta di Montezuma”. Il giorno dopo, Nelli, disperata, venne a cercarci.

Già prima di arrivare, avevo il cuore in una morsa perché capivo “l’irreversibilità” della situazione della vita di Ariuhá. Avevo già capito che dovevo trovare un modo per scappare dal negozio di alimentari, nonostante l’enorme contraddizione nel mio cuore. Entrambe sapevano che non era possibile resistere. L’unica possibilità degna era morire. L’unica vera liberazione era la morte, se non ora in un’altra occasione prossima. Sì, il prima possibile. Non riuscivo a sentire quella verità. La mia missione era curare e guarire.

Quando arrivai, Arihuá era sdraiata su un misero giaciglio. L’aria nella stanza era nauseabonda. Aveva gli occhi fissi, stuporosi, e mormorava parole per me incomprensibili in nahuatl, la sua lingua, ma sentivo il terrore nel suo lamento. Cercava di rispondere alle domande, ma crollava nel delirio.

Ho cercato di farle dire qualcosa e ho chiesto a Nelli di chiederle qualcosa… se aveva sete… se aveva freddo… se ci sentiva…

Quando Nelli le chiedeva in nahuatl, Arihuá faceva finta di voler rispondere, ma a metà parola crollava in una situazione soporosa e delirante.
La vedevo fare gesti inquieti sul letto, sulle coperte su cui era sdraiata, e sembravano movimenti carfologici come se volesse raccogliere qualcosa in sé, sul letto.

Le presi il viso tra le mani e, con la luce della lampada, vidi la lingua: tremolante, screpolata, marrone con una linea bianca al centro. Senza dubbi, le somministrai tre globuli di Baptisia tinctoria, affidando a Nelli altre dosi da sciogliere in mezzo litro di acqua bollita e lasciata raffreddare, aggiungendo due gocce di acquavite per stabilizzare la soluzione da darle un cucchiaino ogni 3 ore… e di avvisarmi tassativamente entro il giorno dopo.

Me ne andai silenziosamente e con il cuore stretto. Sapevo che Arihuá sarebbe uscita  da questa forma di febbre tifoidea. Ma non potevo dimenticare la storia e vedere la coincidenza con il simbolismo delle febbri intense. Ogni febbre è una ricerca di calore, di amore che manca e parla sempre di “emozioni che bruciano l’anima”.

Conoscevo le montagne di Tarauma. Ero andata lì per una festa invitata dai miei indigeni per provare il loro “pulquito”. Ero rimasta estasiata dall’immensità delle loro montagne e dalla loro vita genuina e piena delle loro origini. Non riuscivo a togliermelo dalla testa e non potevo smettere di sentire ciò che Arihuá deve aver vissuto e provato. Lo strappo senza limiti della separazione di oltre 15.000 anni di storia. Essere messi in vita in una tomba per aspettare, semplicemente, l’arrivo liberatorio della morte. Ora sì, la fedele “mictlān”. L’amica. L’amante. L’attesa.

Il giorno dopo, Nelli tornò. Arihuá era migliorata del 50%. Continuammo con Baptisia e in due giorni era in piedi. Ma sapevo che il suo destino era già scritto: aspettava solo il momento per compiere il “Grande Passo” verso Tlalocan, il paradiso della sua gente, dove l’attendevano Kárami, i suoi antenati e le sue amate montagne.