La mancanza di mètis
In questi mesi ho lavorato intorno ad alcuni temi interdisciplinari, considerata anche la mia doppia competenza, di medico e di psicologo analista. Alcune settimane fa, mentre approfondivo il concetto di mètis per un Convegno di psicoanalisti junghiani, mi è sembrato di avere sempre più chiaro perché trovo insoddisfacente l’ingiunzione della medicina contemporanea di procedere per linee-guida e protocolli: infatti la nostra pratica, così come viene proposta, manca di mètis, ovvero di quella intelligenza astuta in grado di vedere soluzioni dove la statistica non sa guardare. Possiamo dire che la cultura scientifica dominante ha privilegiato il pensiero logico (logos): unilateralità particolarmente dannosa in medicina, disciplina complessa che non si risolve in pura oggettività. Alcuni correttivi stanno nascendo: si veda l’attenzione nei confronti della medicina narrativa, che viene presentata come una novità ma che per noi medici omeopati è una realtà da oltre due secoli. Si tratta però di correttivi isolati, mancando una visione d’insieme sorretta da una appropriata filosofia della medicina, che ne riconosca e rispetti la duplice natura di scienza e arte.
Mito e mètis
Che cosa dunque è la mètis? La mitologia greca ci dà qualche spunto iniziale, ricordandoci che Mètis è la prima moglie di Zeus: una oceanina che gli sfuggiva in ogni modo, tanto che alla fine Zeus si risolse di ingoiarla, quando però era oramai gravida. Le doglie si annunciarono sotto forma di una terribile emicrania, e dal cranio di Zeus nacque Atena, la dea della sapienza (sophìa). Nel terzo secolo a. C. il filosofo stoico Crisippo pone una distinzione tra sophìa e phronesis: la prima si interessa degli universali, la seconda, intrisa di mètis, è una qualità che dirige l’agire, tenendo conto della complessità e del contesto.
Il pensiero “laterale”
Ora, è evidente come la medicina, per lo meno nella sua declinazione clinica, abbia bisogno di un pensiero contestuale, di un pensiero flessibile, piuttosto che di un approccio sistematico e astratto che proceda per squadrate verità. Potremmo dire che, oltre alla via del razionale, urge percorrere la via del ragionevole, che sappia scegliere di volta in volta, da caso a caso, la soluzione più adatta. La via del ragionevole si nutre di intuizione, di colpo d‘occhio. Che cos’è l’”occhio clinico” se non la capacità di utilizzare un pensiero congetturale, che contempli l’irripetibilità e l’”inesattezza” (nel senso della non perfetta adesione a una casella nosografica) di ogni singolo caso? Sagacia, prudenza, intuito, senso dell’opportunità: le qualità del buon medico. Oceanina come Mètis è anche Peitho, la Persuasione. La loro natura acquatica le rende pervasive, capaci di insinuarsi anche laddove non sembra ci siano spazi. Faccio questa digressione in quanto il buon medico dovrebbe avere anche una gentile capacità di persuadere: qualità ignota, ad esempio, in chi guida la Sanità a colpi di decreti e di minacce, con il risultato di impaurire e di generare diffidenze e negazioni. Il “negazionismo”, infatti, è l’altra faccia dell’autoritarismo medico. Laddove logos si serve di strategie, mètis si serve di stratagemmi, ovvero espedienti astuti, impregnati di spirito mercuriale, in grado di cogliere il momento opportuno (nella filosofia greca detto kairòs).
Mètis e pensiero cinese
Qui si pone uno snodo comparativo assai interessante con il pensiero cinese – segnatamente nella versione taoista –, che propone di assecondare gli eventi, sposando la logica della correlazione e del processo. L’immagine cinese, spesso applicata alle arti marziali, è nota: i rami degli alberi rigidi si spezzano sotto il peso della neve, mentre gli alberi flessibili come il salice la lasciano scivolare via non appena il peso si fa eccessivo, sfruttandone per così dire la forza a proprio vantaggio. Viene in mente il mitico sovrano Yu il Grande, che intorno al 2100 a. C. risolse il grave problema delle alluvioni provocate dallo straripamento del Fiume Giallo in un modo molto ingegnoso: anziché alzare gli argini, operazione costosa e non sempre sufficiente, creò una rete di canali atti a convogliare l’acqua in eccesso. D’altra parte, il Tao è definito “la via dell’acqua che scorre”. Scorrere insieme con il momento significa conformarsi al ritmo dell’Universo, non agire (“wu wei wu buwei”, ovvero “non fare e nulla vi sarà che non sia fatto”) se non quando è veramente necessario. Trasponendo il concetto al campo medico, voglio citare Francesco Eugenio Negro, che nel secondo capitolo del suo libro “Vivere come persona” (Il formichiere, Foligno 2020) scrive una frase che suona come un aureo aforisma: “La clinica vuole l’attesa”.