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26 Ottobre, 2024

Il posto dell’esperienza umana nella scienza

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 34 • Giugno 2020

Bio-potere: surrogazione di un dio padre con la scienza

Ad ogni momento che il bio-potere e le sue istituzioni, come i ministeri della salute e le sue discipline, quale la medicina, prendono decisioni che riguardano la gestione della vita e della morte di noi umani, come, ad esempio, con la gestione bio-politica del Covid19, viene invocata la scienza.

Tra i calcoli che potrebbero sorreggere una tale strategia di ricerca di consenso si potrebbero annoverare due delucidazioni. Primo, viviamo in una società i cui ordinamenti governativi ed amministrativi sono stati proclamati secolarizzati e, quindi, i governi non potrebbero invocare che fideismi secolarizzati. Secondo, da un punto di vista della psicologia dello sviluppo, noi, cittadini, potremmo essere valutati come delle popolazioni uscite, non molto tempo fa, dalla lallazione per cui concediamo la nostra ubbidienza sociale ad un succedaneo dell’accudimento genitoriale. Questi, brevemente, possono perfettamente essere alcuni dei calcoli che porterebbero il bio-potere a legittimare le sue scelte di bio-politica con il nome della scienza.

Questa, plausibilmente inconsapevole, surrogazione o, furtivamente voluta, sostituzione della teocrazia con la scienza si è palesata, in modo plateale, con l’emergenza del Covid19. In ogni modo, sebbene non si governi più in nome della divinità, le conseguenze del racconto creazionista sono insospettabili, come oggi suggerisce la nostra ostinata modalità di affrontare l’incertezza con miraggi usciti dalla cornucopia della scienza, vale a dire con il favore di un intervento del dio che appare, parla da una macchina e, come nel teatro greco, risolve la tragedia. Certamente, è allettante pensare che la scienza offra una visione della realtà omologabile alla visione che avrebbe la Divinità che una tale realtà avrebbe creato e, come un buon dio padre, ci risparmi da ogni pericolo e dolore.

In questa visione onnipotente della scienza succedanea di dio, però, dimentichiamo, a nostro rischio e pericolo, il posto dell’esperienza umana nella conoscenza e, pertanto, nella scienza. La scienza, come ogni conoscenza, ha un preciso limite: essa costituisce un’elaborazione di coloro che la costruiscono. Di fatto, sia la conoscenza sia la scienza non sono delle verità. L’idea di verità appartiene alla rappresentazione teocratica e teologica del mondo. Esse, invece, sono costruzioni sociali e le aporie della fisica, ad esempio, costituiscono una via breve per documentare questa, difficilmente rassicurante, argomentazione circa la relatività della conoscenza e della scienza. Indubbiamente, specificare il loro carattere di costrutto sociale, piuttosto che costituire un demerito, rappresenta un riconoscimento delle capacità del nostro cervello e linguaggio per escogitare modelli di comprensione di noi stessi e di rendere la nostra sopravvivenza umana meno precaria e più duratura attraverso metodi di previsione e di ottenimenti di risultati a volte probabili a volte predefiniti.

I limiti della scienza: il problema cosmologico e filosofico del tempo nel modello della fisica

Il problema del tempo è considerato uno dei più grandi rebus della fisica moderna. Il primo pezzo di questo rompicapo sarebbe di carattere cosmologico dal momento che, per capire il tempo, gli scienziati parlano della necessità di trovare una “prima causa” o “condizione iniziale”, vale a dire una descrizione dell’Universo all’inizio o “ad un tempo uguale a zero”. Eppure, siamo costretti a pensare, ragionevolmente, che per determinare la condizione iniziale di un sistema, si dovrebbe conoscere il sistema totale. In realtà, dovremmo misurare le posizioni e le velocità delle sue parti costituenti, come particelle, atomi, campi e così via. La conoscenza di questo punto di partenza del sistema si scontra, tuttavia, con delle aporie di non facile risoluzione quando abbiamo a che fare con l’origine dell’Universo stesso, in quanto noi, tale sistema, non l’abbiamo mai visto dal suo esterno. E non possiamo uscire dalla scatola, cioè dal cosmo o dai limiti dell’Universo stesso, per guardarci dentro semplicemente perché la scatola o cosmo costituirebbe tutto ciò che c’è. Per questo alcuni studiosi propongono che una prima causa non sia solo inaccessibile ma sarebbe, addirittura, scientificamente incomprensibile.

La seconda parte della sfida della fisica moderna è filosofica. Gli scienziati che si occupano della fisica moderna considerano il tempo fisico come l’unico tempo reale, mentre il tempo esperienziale, il senso soggettivo del passare del tempo, viene considerato una fabbricazione cognitiva di importanza secondaria. Il giovane Albert Einstein chiarì questa posizione nel suo dibattito con il filosofo Henri Bergson negli anni ’20, quando affermò che il tempo del fisico fosse l’unico tempo. Con l’età, sembra che Einstein divenne più avveduto, portando ad alcuni a considerare che, fino al momento della sua morte, fosse rimasto profondamente turbato su come trovare un posto per l’esperienza umana del tempo nella visione del mondo scientifico.

Questi dilemmi poggiano sulla presunzione che il tempo inteso nei termini “fisici”, con un suo punto di partenza assoluto, sia l’unico tipo di tempo esistente. Ma, cosa succederebbe se considerassimo che la questione dell’inizio del tempo sia mal posta? Per iniziare ad argomentare questa possibilità dobbiamo cominciare per avere presente che noi siamo istruiti a pensare che la scienza ci dia una descrizione completa e obiettiva della storia cosmica, svincolata da noi e dalla nostra umana percezione di essa. Quest’immagine della scienza obiettiva e pura, a ben guardare, risulta, però, profondamente imperfetta1.

Nel nostro bisogno di controllo della sopravvivenza e, dunque, di previsione o conoscenza degli accadimenti, abbiamo concepito una visione della scienza quale serie di scoperte su come la realtà sia in sé, per cui essa ci renderebbe un’immagine della natura omologabile alla visione di un suo dio creatore che conoscerebbe, pertanto, con esattezza la sua creazione. Un tale approccio non solo distorce la realtà, ma crea un falso senso di distanza tra noi stessi e il mondo, dove il mondo che conosciamo risulta apparentemente indipendente dalla nostra percezione. Questo divario tra mondo e noi deriverebbe da ciò che si potrebbe chiamare il Punto Cieco, vale a dire quel punto in cui la scienza non vede il retroscena percettivo di sé stessa. Nel Punto Cieco, però, si trova, paradossalmente, l’esperienza, o meglio, la pura presenza e immediatezza della percezione vissuta.

Dietro questo divario tra noi e il mondo, cioè dietro quel Punto Cieco, punto in cui la scienza ignora i propri limiti e il retroscena percettivo di sé stessa, si trova la convinzione che la realtà fisica abbia un primato assoluto nella conoscenza umana, visione che è stata definita, storicamente, come materialismo scientifico. In termini filosofici, tale paradigma combina l’oggettivismo scientifico, vale a dire l’idea che la scienza ci parlerebbe del mondo reale, indipendente dalla nostra mente, e il fisicalismo, o piuttosto l’idea che la scienza ci direbbe assolutamente che la realtà fisica sarebbe tutto ciò che ci sia, senz’alcuna metafisica o elaborazione cognitiva e, di conseguenza, senz’alcuna interpretazione culturale aggiunta dall’osservatore e dalla sua comunità percettiva di appartenenza. Nel paradigma del materialismo scientifico si presume che le particelle elementari, i momenti nel tempo, i geni, il cervello e via dicendo, siano, alla base, reali e identici alle nostre idee su di essi anziché modelli costruiti da noi. Al contrario, esperienza, consapevolezza e coscienza sono considerate secondarie. In questa prospettiva il compito scientifico consiste nel capire come ridurre queste soggettività secondarie a qualcosa di fisico, come il comportamento delle reti neurali, l’architettura dei sistemi computazionali o qualche misura di informazione.

Da un approccio epistemologico che consideri la realtà come punto di vista dell’osservatore parziale, approccio capace di intravedere la pura presenza e immediatezza della percezione vissuta nella scienza, questo framework del materialismo scientifico deve affrontare due problemi irrisolvibili. Il primo riguarda l’oggettivismo scientifico. In effetti, noi umani non incontriamo mai la realtà fisica al di fuori delle nostre osservazioni su di essa. Particelle elementari, tempo, geni e cervello si manifestano ma attraverso le nostre idee su di essi e per mezzo delle nostre misurazioni e manipolazioni e dei nostri modelli. La loro presenza si basa sempre su ricerche scientifiche che, però, si verificano soltanto nel campo della nostra esperienza.

Ciò non significa che la conoscenza scientifica sia arbitraria o una mera proiezione delle nostre stesse menti. Al contrario, alcuni modelli e metodi di indagine funzionano molto meglio di altri e possiamo provarli o documentarli. Ma questi test non ci danno mai la natura così com’è in sé, al di fuori dei nostri modi di vedere e agire sulle cose. L’esperienza è indispensabile per la conoscenza scientifica quanto la realtà fisica che essa rivela.

Il secondo problema riguarda il fisicalismo. Secondo la versione più riduttiva del fisicalismo, la scienza, quale rivelazione di un dio, ci svela delle verità anziché proporci modelli probabilistici circa l’esattezza o meno di fatti sperimentali. Vita, mente e coscienza, invece di nozioni variabili nei contesti che le interpretano, sarebbero degli eventi riducibili al comportamento dei più piccoli componenti della materia svelati e misurati dall’oggettività dello scienziato senza alcun intervento della soggettività corporativa socio-culturale che elabora tali nozioni così come tutta la conoscenza a carattere scientifico. Certamente, questo non significa che non si possa asserire, metaforicamente, che non siamo altro che reti neuronali e che i neuroni non sono altro che piccoli frammenti di materia ma, appunto, si tratta di una metafora relativa ad un modello che ci rende l’idea di che tipo di sistemi siamo.

Da un approccio epistemologico che consideri la realtà come punto di vista dell’osservatore parziale si potrebbe sostenere, per di più, che l’affermazione secondo cui non ci sia nient’altro che la realtà fisica sia falsa o vuota. In effetti, se “realtà fisica” significa realtà come la descrive la fisica, allora l’affermazione che esistono unicamente fenomeni fisici può considerarsi falsa. Perché? Perché la scienza fisica, così come, allo stesso modo della biologia e della neuroscienza computazionale, non include un resoconto della coscienza. Questo non vuol dire che la coscienza sia qualcosa di innaturale o soprannaturale. Il punto è che la scienza fisica non include un resoconto dell’esperienza ma sappiamo che anche il fenomeno dell’esperienza esiste. Quindi, l’affermazione che le uniche cose che esistono siano soltanto ciò che la scienza fisica ci dica risulta falsa. D’altra parte, se “realtà fisica” significa realtà secondo una fisica futura e completa, allora l’affermazione secondo cui non ci sia nient’altro che realtà fisica risulta vuota, perché non abbiamo idea di come sarà una tale fisica futura, specialmente in relazione con la coscienza.

Oggettivismo e fisicalismo sono idee filosofiche invece di scientifiche

Il dilemma che pone l’affermazione del cosiddetto materialismo scientifico sostenendo che esistano soltanto fenomeni fisici, misconoscendo, di conseguenza, il fenomeno dell’esistenza dell’esperienza, viene noto da alcuni studiosi come il dilemma di Hempel, dal nome del filosofo scientifico Carl Gustav Hempel (1905-97). Di fronte a questo dilemma, alcuni filosofi considerano, come avverte criticamente Paul Humphreys2, che si dovrebbe definire ciò che si intende per “fisico” in modo tale da escludere un emergentismo radicale3, ossia quella corrente che sostiene che la vita e la mente sarebbero emergenti ma irriducibili alla realtà fisica, e il panpsichismo, cioè quella posizione che sostiene che la mente sia fondamentale ed esista ovunque, anche a livello microfisico. Questa mossa, sostiene Humphreys, darebbe al fisicalismo un contenuto definito, risolvendo in anticipo cosa possa significare “fisico” invece di lasciare che il suo significato sia determinato dalla fisica stessa.

Studiosi come l’astrofisico Adam Frank, il fisico Marcelo Gleiser e lo stesso filosofo Evan Thompson rifiutano che questa mossa di escludere emergentismo e panpsichismo risolva la questione della fisica come una scienza che conterrebbe unicamente fenomeni fisici da cui si escluderebbe l’esperienza. Dopotutto, segnalano questi studiosi, il significato del termine “fisico” è cambiato radicalmente dal XVII secolo ad oggi. Un tempo si pensava che la materia fosse inerte, impenetrabile, rigida e soggetta solo a interazioni deterministiche e locali. Oggi sappiamo che questo era sbagliato praticamente sotto tutti gli aspetti. Di fatto, accettiamo che ci siano diverse forze fondamentali, particelle che non hanno massa, indeterminatezza quantistica e relazioni non locali. Dovremmo, ugualmente, aspettarci ulteriori cambiamenti epocali nel nostro concetto di realtà fisica in futuro. Per questi motivi, Frank, Gleiser e Thompson sostengono che non si dovrebbe soltanto legiferare su ciò che il termine “fisico” possa significare come un modo per uscire dal dilemma di Hempel.

Stando a loro, oggettivismo e fisicalismo sarebbero mere idee filosofiche, non scientifiche, anche se alcuni scienziati le sposano. Sarebbero idee che non ne conseguono logicamente da ciò che la scienza ci dice del mondo fisico o dal metodo scientifico stesso. Dimenticando che queste prospettive sono soltanto un pregiudizio filosofico anziché un punto di riferimento, i materialisti scientifici ignorano che esperienza immediata e mondo non possono mai essere separati.

Frank, Gleiser e Thompson non sono gli unici sostenitori di questo punto di vista. La loro spiegazione del Punto Cieco, cioè del fatto che noi umani non possiamo conoscere l’universo dal suo ipotetico esterno o, in altri termini, del fatto che la conoscenza non è separabile dall’esperienza, si basa sul lavoro di due importanti filosofi e matematici: Edmund Husserl e Alfred North Whitehead. Husserl, il pensatore che ha fondato la corrente filosofica della fenomenologia, ha sostenuto che l’esperienza vissuta è la fonte della scienza. Sarebbe assurdo, in linea di principio, pensare che la scienza possa, letteralmente, uscire da sé stessa per avere una visione neutrale e assoluta di sé e di ciò che studia. Il “mondo della vita” dell’esperienza umana sarebbe, stando a Husserl, il “terreno di base” della scienza e la crisi esistenziale e spirituale della cultura scientifica moderna, ciò che Frank, Gleiser e Thompson chiamano Punto Cieco, verrebbe dal dimenticare il suo primato. In realtà, oscurando che la scienza sia un costrutto sociale esperienziale, il bio-potere restaura un ordinamento di ubbidienza delle popolazioni in termini sovraumani.

Whitehead, dalla sua prospettiva di matematico e filosofo, ha sostenuto che la scienza si basa su una fede circa l’accesso diretto e oggettivo nell’ordine della natura che non può essere giustificata dalla logica poiché quella fede si basa, effettivamente e direttamente, sulla nostra esperienza immediata. La cosiddetta filosofia del processo

4 di Whitehead si basa sul rifiuto di ciò che egli chiama la “biforcazione della natura“, vale a dire l’operazione interpretativa della realtà che divide l’esperienza immediata in dicotomie quali mente contro corpo e percezione contro realtà, sostenendo, invece, che ciò che chiamiamo “realtà” sia costituito da processi in evoluzione che sono coerentemente fisici ed esperienziali.

Stando al filosofo Evan Thompson, in nessun luogo la distorsione materialistica della scienza si palesa di più che nella fisica quantistica5, scienza degli atomi e delle particelle subatomiche. Gli atomi, concepiti come i mattoni della materia, come ci rammenta Thompson, sono stati con noi fin dai Greci. Le scoperte degli ultimi 100 anni sembrerebbero essere una rivendicazione per tutti coloro che hanno sostenuto la concezione della natura riducibile ad atomi. Ma cosa intendevano i greci, Isaac Newton e gli studiosi del XIX secolo con la cosa da loro chiamata “atomo” e cosa intendiamo oggi, sono, stando a Thompson, cose molto diverse. In realtà, è proprio la nozione di “cosa” ciò che la meccanica quantistica mette in discussione. Il modello classico dei “pezzetti di materia” o atomi, come descritto da Carlo Rovelli in This Granular Life, prevede, metaforicamente, palline da biliardo, raggruppandosi e, per traslati, dondolandosi in varie forme e stati. Nella meccanica quantistica, tuttavia, la materia ha le caratteristiche sia delle particelle che delle onde, esistendo, ugualmente, limiti alla precisione con cui sia possibile effettuare misurazioni. Nel modello della quantistica, le misurazioni, addirittura, sembrano disturbare la realtà che gli sperimentatori stanno cercando di dimensionare.

Oggi, le interpretazioni che offre la meccanica quantistica non sono d’accordo con il modello della fisica classica o meccanica su cosa sia la materia e quale sia il nostro ruolo rispetto ad essa. Queste differenze, secondo il fisico teoretico Marcelo Gleiser, riguardano il cosiddetto “problema della misura”6, vale a dire come (e se) la funzione d’onda dell’elettrone si riduce da una sovrapposizione di più stati a un singolo stato dopo l’osservazione. In effetti, per diverse scuole di pensiero, la fisica quantistica non ci dà accesso al modo in cui il mondo è fondamentalmente in sé. Piuttosto, ci permette solo di capire come si comporta la materia in relazione alle nostre interazioni con essa. Tuttavia, il bio-potere ci presenta la scienza come la via di accesso diretta e indisturbata da ogni interesse corporativo al modo in cui la realtà sarebbe al di là della percezione adattiva sociale con cui noi, umani non scienziati, modelliamo la nostra cognizione della realtà.

La fisica quantistica ci ricorda che non c’è elaborazione scientifica della realtà senza l’osservatore

Secondo la cosiddetta interpretazione di Copenaghen di Niels Bohr, ad esempio, la funzione d’onda non ha realtà al di fuori dell’interazione tra l’elettrone e il dispositivo di misurazione. Altri approcci, come le interpretazioni dei “molti mondi” e delle “variabili nascoste”, cercano di preservare uno status indipendente dall’osservatore per la funzione d’onda. Ma questo avrebbe il costo di aggiungere peculiarità quali gli universi paralleli non osservabili. Un’interpretazione relativamente nuova nota come Bayesianismo Quantico (QBism), che combina la teoria dell’informazione quantistica e la teoria della probabilità bayesiana, assume un approccio diverso; essa interpreta le probabilità irriducibili di uno stato quantico non come un elemento della realtà, ma come i gradi di convinzione che l’osservatore avrebbe circa il risultato di una misurazione. In altre parole, fare una misurazione è come fare una scommessa sul comportamento del mondo e, una volta effettuata la misurazione, occorre aggiornare le proprie conoscenze. I sostenitori di questa interpretazione a volte la descrivono come “realismo partecipativo”, perché l’agire umano sarebbe intessuto nel processo di fare fisica come mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Da questo punto di vista, le equazioni della fisica quantistica non si riferiscono solo all’atomo osservato ma, ugualmente, all’osservatore e all’atomo presi nel loro insieme in una sorta di “partecipazione dell’osservatore”.

Nell’ambito della fisica teoretica convenzionale, il realismo partecipativo si presenta controverso. Ma è proprio questa pluralità della sua interpretazione della partecipazione dell’osservatore, con una varietà di implicazioni filosofiche, che mina la sobria certezza della posizione materialista e riduzionista sulla natura. In breve, non esiste tuttora un modo semplice per rimuovere la nostra esperienza soggettiva dal nostro agire, pure come scienziati, dalla caratterizzazione del mondo fisico che noi umani sviluppiamo.

Questo ci riporta alla problematica del Punto Cieco. Quando noi, come cultura, compresi gli studiosi e perfino gli scienziati, guardiamo o valutiamo gli oggetti costrutti dalla conoscenza scientifica, non tendiamo a vedere o ad includere nel nostro giudizio le esperienze che li sostengono. Non vediamo come sia proprio l’esperienza che ci rende possibile la loro presenza. Poiché perdiamo di vista la necessità dell’esperienza nell’elaborazione della scienza e, di conseguenza, il suo carattere di costrutto sociale, alziamo la scienza in idolo, in un oracolo che conferisce una conoscenza assoluta della realtà, indipendentemente da come tale realtà si manifesta alla nostra esperienza cognitiva e da come interagiamo con essa.

Il Punto Cieco si rivela altresì nello studio della coscienza. La maggior parte delle discussioni scientifiche e filosofiche sulla coscienza si concentrano sulla “qualia”7, vale a dire gli aspetti qualitativi della nostra esperienza, come il bagliore rosso percepito di un tramonto o il sapore aspro di un limone. Riguardo a quest’argomento i neuroscienziati hanno stabilito strette correlazioni tra tali qualità e determinati stati cerebrali e sono stati in grado di manipolare il modo in cui sperimentiamo queste qualità, agendo direttamente sul cervello. Tuttavia, non esiste ancora, stando a Gleiser e Thompson, alcuna spiegazione scientifica della qualia in termini di attività cerebrale o di qualsiasi altro processo fisico nella materia. Né esiste una reale comprensione riguardo a che cosa una tale spiegazione dei fatti della qualia possa somigliare. Gli eventi ancora oscuri della coscienza includerebbero più della semplice qualia. Difatti, ci sarebbe d’aggiungere la questione della soggettività: le esperienze hanno carattere soggettivo, si verificano in prima persona. Perché se la coscienza fosse riducibile unicamente ad un determinato tipo di sistema fisico dovrebbe provare la sensazione di essere un soggetto? La scienza non ha una risposta a questa domanda.

A un livello più profondo, possiamo chiederci come l’esperienza abbia, in primo luogo, una struttura soggetto-oggetto. Scienziati e filosofi lavorano spesso con l’immagine di una mente o soggetto “dentro” che afferra un mondo o un oggetto “esterno”. Ma filosofi di diverse tradizioni culturali hanno sfidato questa immagine. Ad esempio, il filosofo William James (la cui nozione di “esperienza pura” ha influenzato Husserl e Whitehead) ha argomentato sulla nozione di “senso di vita attivo”, senso di cui tutti godiamo, prima che la riflessione ci distrugga questo nostro mondo istintivo di partecipazione. Quel senso di vita attivo, di fatto, non avrebbe una struttura interno-esterno / soggetto-oggetto e, stando a James, sarebbe la nostra attività riflessiva successiva ad imporre questa struttura all’esperienza.

Più di un millennio fa, Vasubandhu, filosofo indiano del IV-V secolo d.C., già criticava la reificazione dei fenomeni in soggetti indipendenti rispetto a oggetti indipendenti. Per Vasubandhu, la struttura soggetto-oggetto sarebbe una distorsione cognitiva, profondamente radicata, di una rete causale di momenti fenomenici che invero non rimanderebbero ad un soggetto interno che afferra un oggetto esterno, in quanto i fenomeni non sono conoscibili che attraverso i sensi, ossia l’esperienza.

Per sottolineare il punto di quest’argomentazione circa la necessità fondamentale dell’esperienza per la conoscenza a carattere scientifico, è sufficiente considerare che in certi intensi stati di assorbimento o attenzione, ad esempio durante la meditazione, la danza oppure assistendo ad un’esibizione artistica altamente qualificata, la struttura soggetto-oggetto può scomparire e ci rimane un senso di pura presenza sentita. Come è possibile uno stato di presenza mentale così fenomenica, vale a dire che viene acquisita per mezzo dell’esperienza, in un mondo che sarebbe solidamente fisico e la cui conoscenza prescinderebbe dell’esperienza? La scienza tace su questa domanda. Eppure, senza una presenza così fenomenica, la scienza sarebbe impossibile, poiché la presenza è una condizione preliminare per rendere possibile qualsiasi osservazione o misurazione. Infatti, forse questa “povertà di presenza” e di “senso di vita attivo” potrebbero spiegare la sterilità e la banalità di tanta produzione, che nasconde il suo soggetto corporativo, circolando, oggi, sotto lo status di scienza.

I materialisti scientifici sostengono che proprio il metodo scientifico ci consente di uscire dall’esperienza e ci permette di afferrare il mondo come è in sé, nascondendo con questa presunta oggettività che ogni sapere è strumentale e, inevitabilmente, legato ad una percezione adattiva anziché accurata della realtà, realtà che nella sua complessità ci appare praticamente come un mondo di allucinazioni. Molti studiosi della materia, però, non sono d’accordo con la soluzione del metodo scientifico e, alcuni, come Gleiser, Frank e Thompson, sostengono che sia precisamente questo modo di pensare a travisare il metodo e la pratica della scienza.

In termini generali, ecco un sunto di come funziona il metodo scientifico, parafrasando, con l’uso del condizionale, le asserzioni dei suoi sostenitori. Innanzitutto, esso metterebbe da parte aspetti dell’esperienza umana su cui non possiamo sempre essere d’accordo, come l’aspetto o il gusto o la sensazione delle cose. In secondo luogo, userebbe la matematica e la logica, costruirebbe modelli astratti e formali che tratterebbe come oggetti stabili procurandosi con questo modo di fare il consenso del pubblico. Terzo, interverrebbe nel corso degli eventi isolando e controllando le cose che si possono percepire e manipolare. In quarto luogo, utilizzerebbe questi modelli astratti e interventi concreti per calcolare eventi futuri. In quinto luogo, controllerebbe questi eventi previsti rispetto alle percezioni dei ricercatori. Un ingrediente essenziale di tutto questo processo sarebbe, certamente, la tecnologia: le macchine, le sue attrezzature, che standardizzano queste procedure, amplificano i poteri di percezione dei ricercatori e consentendogli di controllare i fenomeni ai loro fini.

La questione del Punto Cieco si presenta quando si inizia a credere che questo metodo ci dia accesso alla realtà non verniciata dalla soggettività dell’esperienza. Ma l’esperienza, inevitabilmente, è presente ad ogni passo. I modelli scientifici devono, necessariamente, essere estratti dalle osservazioni, spesso mediati dalla complessa “attrezzatura” cosiddetta scientifica. Ma questi modelli sono idealizzazioni, non cose reali nel mondo. Il modello di Galileo di un piano senza attrito, per esempio; il modello di Bohr dell’atomo con un piccolo nucleo denso con elettroni che lo circondano in orbite quantizzate come pianeti attorno a un sole; modelli evolutivi di popolazioni isolate; tutti questi esistono nell’astrazione cognitiva e mentale dello scienziato, non in natura. Essi non sono che rappresentazioni mentali astratte, non entità indipendenti dalla mente, certamente legata al cervello sociale e al discorso assiomatico della cultura. Il potere di questi modelli deriva dal fatto che possono risultare utili per aiutare a fare previsioni verificabili. Ma anche questi modelli non ci portano mai fuori dall’esperienza, poiché richiedono specifici tipi di percezioni eseguite da osservatori altamente qualificati, come sostiene il fisico Gene Tracy.

Per questi motivi, la presunta “obiettività” scientifica non regge all’esperienza esterna; in questo contesto, “obiettivo” significa, semplicemente, qualcosa che si manifesta fedele alle osservazioni concordate da una comunità di ricercatori o studiosi, di solito vincolati ad entità corporative, che utilizza determinati strumenti. Si potrebbe sostenere che la scienza è, essenzialmente, una forma altamente raffinata di esperienza umana, basata sulle nostre capacità di osservare, agire e comunicare.

La convinzione secondo cui la scienza riveli una “realtà” del tutto oggettiva è più teologica che scientifica

Accennato il limite fondamentale del metodo e dei modelli scientifici, in quanto insieme di assiomi e di osservazioni probabilistiche sperimentali, concordati da una comunità scientifica corporativa, si può affermare che la convinzione che i modelli scientifici corrispondano a come siano effettivamente le cose non consegue dal metodo scientifico. Invece, deriva da un’antica credenza, trovata spesso nelle religioni monoteiste, a pensare che si conosca il mondo come esso, presumibilmente, sia in sé stesso, secondo il disegno di una Divinità. Pertanto, si può considerare che l’affermazione secondo cui la scienza riveli una “realtà” del tutto oggettiva è, in effetti, più teologica che scientifica.

I filosofi della scienza della contemporaneità che prendono di mira un tale “realismo ingenuo” sostengono, concretamente, che la scienza non culmina in una singola immagine di un mondo indipendente dalla teoria. Piuttosto, vari aspetti del mondo, dalle interazioni chimiche alla crescita e allo sviluppo di organismi, dalle dinamiche cerebrali e alle interazioni sociali, possono essere descritti con successo relativo da modelli parziali. Ma questi modelli rimangono sempre legati alle nostre osservazioni, alle nostre azioni, e circoscritti nella loro applicazione.

I campi della teoria dei sistemi complessi e della scienza delle reti aggiungono una qualche accuratezza matematica alle precedenti affermazioni, sui limiti del metodo scientifico e dei suoi modelli, focalizzandosi sugli interi piuttosto che sulla riduzione delle parti. La teoria dei sistemi complessi studia sistemi come il cervello, gli organismi viventi o il clima globale della Terra, sistemi il cui comportamento è difficile da modellare perché il modo in cui il sistema risponde dipende dal suo stato e contesto, sostengono Chris Kempes e Van Savage nelle loro riflessioni sull’intersezione tra fisica, biologia e scienze ambientali8. Tali sistemi, stando a loro, mostrano auto-organizzazione, formazione spontanea di schemi e dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali, dove cambiamenti molto piccoli di queste condizioni possono portare a risultati ampiamente diversi. La scienza della rete9 analizza i sistemi complessi modellando i loro elementi come nodi e le connessioni tra loro come collegamenti, spiegando il comportamento complesso in termini di topologie di rete, vale a dire le disposizioni dei nodi o elementi del sistema, e le sue connessioni in termini di dinamiche globali anziché in termini di interazioni locali a livello micro.

Ispirati da queste prospettive, studiosi come l’astrofisico Adam Frank, il fisico teoretico Marcelo Gleiser e il filosofo Evan Thompson propongono una visione alternativa che cerchi di andare oltre il Punto Cieco, postulando che la nostra esperienza e ciò che chiamiamo “realtà” siano inestricabili. Da questa posizione potremmo considerare la conoscenza scientifica come una narrazione autocorrettiva fatta dal mondo e dalla nostra esperienza di esso in evoluzione congiunta. La scienza e i suoi problemi più impegnativi potrebbero essere riformulati quando si arriva ad apprezzare questo intreccio.

Ritorniamo al problema con cui abbiamo iniziato quest’argomentazione, la questione del tempo e dell’esistenza di una prima causa, vale a dire il problema cosmologico e filosofico nei limiti della scienza. Molte religioni hanno affrontato il concetto di Prima Causa nelle loro narrazioni mitiche della creazione. Per spiegare da dove proverrebbe tutto e come avrebbe avuto origine, assumono l’esistenza di un potere o divinità assoluta che trascenderebbe i confini dello spazio e del tempo. Con poche eccezioni, Dio o gli dèi creerebbero dall’”esterno” per dare origine a ciò che risulterebbe “dentro”.

A differenza del mito, tuttavia, la scienza è vincolata dalla sua struttura concettuale a funzionare lungo una catena causale di eventi. Di conseguenza, la prima causa costituirebbe una chiara rottura di tale causalità, come i filosofi buddisti hanno sottolineato molto tempo fa nei loro argomenti contro la posizione teistica indù che sostiene che deve esserci una prima causa divina. Ma, come potrebbe esserci una causa che non sia stata essa stessa un effetto di un’altra causa? L’idea di una prima causa, come l’idea di una realtà perfettamente oggettiva, risulta, da un punto di vista logico, sostanzialmente, teologica.

La necessità di riformulare il modo in cui pensiamo la scienza

Questi esempi suggeriscono che il “tempo” avrà sempre una dimensione umana. Il meglio a cui possiamo mirare è costruire un resoconto cosmologico scientifico coerente con ciò che possiamo misurare e conoscere dall’Universo dall’interno. Questo resoconto non potrebbe mai essere una descrizione finale o completa della storia cosmica. Alquanto, deve essere una narrazione continua che si autocorregge. Il “tempo” è la spina dorsale di questa narrativa; la nostra esperienza vissuta del tempo è necessaria per rendere significativa la narrazione. Con questa intuizione, sembra che sia il tempo stesso, preso in considerazione dal fisico, ad essere secondario e non il fisico, in quanto colui che cerca di interpretare la realtà fisica e la plausibilità del tempo. In questa prospettiva il tempo appare semplicemente come uno strumento per descrivere i cambiamenti che siamo in grado, in termini di prima persona, di osservare e misurare nel mondo naturale.

Ora possiamo apprezzare il significato più profondo dei tre rebus scientifici: la natura della materia, la coscienza e il tempo. Rimandano tutti al ​​punto cieco e alla necessità di riformulare il modo in cui pensiamo alla scienza. Quando proviamo a capire la realtà concentrandoci solo su cose fisiche al di fuori di noi, perdiamo di vista le esperienze a cui rimandano. I puzzle più profondi non possono essere risolti in termini puramente fisici, poiché tutti implicano l’inevitabile presenza dell’esperienza nell’equazione. Non c’è modo di rendere la “realtà” diversa dall’esperienza, perché i due risultano sempre intrecciati.

In conclusione, “vedere” il Punto Cieco della scienza consiste nello svegliarsi da un delirio di conoscenza assoluta. Consiste, altresì, abbracciare la speranza di poter creare una nuova cultura scientifica, in cui ci vediamo sia come espressione della natura sia come fonte di auto-comprensione della natura. Non abbiamo bisogno che niente di meno di una scienza nutrita da questa sensibilità, affinché, le diverse popolazioni della specie, che ci piace chiamare “umanità”, abbiano la possibilità di ridimensionare una buona parte delle loro controllate allucinazioni adattive, quali le narrative circa una creazione divina e una scienza assoluta capace di scoprire le verità del creatore, che una volta erano le uniche possibili strategie percettive adattive di sopravvivenza, vita in comune e riproduzione. Altrimenti, perfino dinanzi a situazioni come la pandemia del Covid19, il bio-potere e le sue istituzioni, con i loro proclami di modelli di certezze, conseguono cancellare che la scienza sia un costrutto sociale esperienziale, rifondando, con questo loro agire, un ordinamento di ubbidienza delle popolazioni in termini sovraumani. In tale modo, impongono ai cittadini, ugualmente, una povertà di presenza e un’assenza di senso di vita attivo, sotto uno status di scienza che, certamente, occulta il suo soggetto corporativo e i conflitti di interesse che ne derivano.

  1. Evan Thompson. Waking, Dreaming, Being. Self and Consciousness in Neuroscience, Meditation, and Philosophy. Columbia University Press. 2015
  2. Paul Humphreys. Out of nowhere. In “Aeon”, 9 August 2018 & Paul Humphreys. Emergence. A Philosophical Account. Oxford University Press, 2016.
  3. L’emergentismo in filosofia della mente è la corrente di chi ritiene che la mente sia un fenomeno emergente, ovvero che i fenomeni mentali siano proprietà emergenti del cervello. Le principali tesi sostenute dagli emergentisti sono: l’esistenza dell’emergenza come legittima categoria esplicativa del reale; l’applicabilità dell’emergenza a fenomeni come la vita, la mente, i fenomeni sociali; il rifiuto del dualismo ontologico in ogni sua forma; il rifiuto del riduzionismo, perlomeno in alcune sue accezioni. Inoltre, gli emergentisti (in genere) condividono: la teoria dell’evoluzione naturale e la teoria gerarchica del reale. Storicamente, l’emergentismo nasce dal tentativo di trovare una “via di mezzo” tra posizioni epistemologiche contrapposte: meccanicismo e vitalismo; monismo materialista e dualismo cartesiano; riduzionismo e olismo; oggettivismo scientista e soggettivismo umanistico. La convinzione che l’emergentismo possa risolvere tali annose “dispute” si basa sul fatto che il concetto di emergenza sembra in grado di precisare scientificamente l’antica idea secondo cui “una totalità è maggiore della somma delle sue parti”. Secondo gli emergentisti, quel qualcosa che fa sì che una totalità sia maggiore della somma delle parti è proprio ciò che «emerge» da essa. Dunque ci sono: le parti, la loro somma, il quid emergente. I riduzionisti di ogni luogo ed epoca, secondo gli emergentisti, vedono solo le parti o, al più, la loro somma; negano o misconoscono il quid emergente. Vitalisti, dualisti cartesiani e spiritualisti in genere, d’altra parte, confondono il quid emergente con una sostanza ontologicamente autonoma e, come tale, soprannaturale. Secondo l’emergentismo, la stagnante controversia tra queste epistemologie estremiste e fallaci si risolve riconoscendo l’esistenza e l’importanza del quid emergente ma negandone al contempo sia l’autonomia ontologica, sia la natura sostanziale. Tutti i fenomeni emergenti, compresa la mente, sono fenomeni spontanei, di natura processuale, naturalmente generati dall’insieme delle interazioni tra le parti della totalità da cui emergono.
  4. La filosofia del processo identifica la realtà metafisica nel cambiamento e nel dinamismo, tenendo quindi nella massima considerazione la realtà ineliminabile del tempo. Questo, contrariamente alle metafisiche di matrice platonica, che pongono una realtà atemporale degli enti, finendo per negare la processualità e quindi mettendo in campo un atteggiamento quasi ostruttivo nei confronti di tutto ciò che diviene. Nelle filosofie del processo il cambiamento non è più relegato all’ambito dell’illusione. Tra i maggiori filosofi del processo ci sono, nell’età antica, Eraclito e in età moderna, per esempio, Hegel, Emerson, Sanders Peirce, Nietzsche, Dewey, Whitehead (autore dell’opera forse più rappresentativa di questo orientamento filosofico: Processo e realtà), Hartshorne, e Gilles Deleuze. Alcuni considerano filosofo del processo anche Arthur Schopenhauer. Esiste inoltre una teologia del processo, di cui uno dei maggiori rappresentanti è David Ray Griffin.
  5. Fisica quantistica o teoria dei quanti oppure meccanica quantistica è la teoria della meccanica attualmente più completa, in grado di descrivere il comportamento della materia, della radiazione e le reciproche interazioni, con particolare riguardo ai fenomeni caratteristici della scala di lunghezza o di energia atomica e subatomica, dove le precedenti teorie classiche risultano inadeguate. Come caratteristica fondamentale, la meccanica quantistica descrive la radiazione e la materia sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove, per esempio, la luce è descritta solo come un’onda o l’elettrone solo come una particella. Questa inaspettata e controintuitiva proprietà della realtà fisica, chiamata dualismo onda-particella, sarebbe la principale ragione del fallimento delle teorie sviluppate fino al XIX secolo nella descrizione degli atomi e delle molecole. La relazione tra natura ondulatoria e corpuscolare è enunciata nel principio di complementarità e formalizzata nel principio di indeterminazione di Heisenberg.
  6. In meccanica quantistica, con problema della misura si intende il problema di come (o se) si verifica il collasso della funzione d’onda. L’incapacità di osservare direttamente tale collasso ha dato origine a diverse interpretazioni della meccanica quantistica e pone una serie di domande cruciali alle quali ciascuna interpretazione deve rispondere. La funzione d’onda in meccanica quantistica evolve in modo deterministico secondo l’equazione di Schrödinger come una sovrapposizione lineare di diversi stati. Tuttavia, l’effettiva misura trova sempre il sistema fisico in uno stato definito. Ogni evoluzione futura della funzione d’onda si basa sullo stato in cui il sistema viene trovato quando viene fatta la misura, il che significa che la misura ha “fatto qualcosa” al sistema che non è in modo ovvio una conseguenza dell’evoluzione secondo Schrödinger. Il problema della misura è il descrivere cosa sia quel “qualcosa”, come una sovrapposizione di molti valori possibili diventa un singolo valore misurato.
  7. Qualia – Plurale neutro latino di qualis, e cioè qualità, attributo, modo. Nella filosofia della mente sarebbero gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti. Ogni esperienza cosciente avrebbe una sensazione qualitativa diversa da un’altra. Ad esempio, l’esperienza che proviamo nell’assaporare un gelato è, effettivamente, qualitativamente diversa da quella che cogliamo quando contempliamo La Gioconda di Leonardo. I qualia sono estremamente specifici e caratterizzano essenzialmente le singole esperienze coscienti.
  8. Chris Kempes & Van Savage. When science hits a limit, learn to ask different questions. In “Aron”, 22 October 2018
  9. La scienza delle reti è un campo accademico che studia reti complesse come reti di telecomunicazione, reti di computer, reti biologiche, reti cognitive e semantiche e reti sociali, considerando elementi o attori distinti rappresentati da nodi (o vertici) e le connessioni tra gli elementi o gli attori come collegamenti (o bordi). Il campo si basa su teorie e metodi tra cui la teoria dei grafi della matematica, la meccanica statistica della fisica, il data mining e la visualizzazione delle informazioni dall’informatica, la modellazione inferenziale dalla statistica e la struttura sociale dalla sociologia. In breve, la scienza delle reti, può essere definita come lo studio delle rappresentazioni delle reti di fenomeni fisici, biologici e sociali che portano a modelli predittivi di questi fenomeni.