Un blog ideato da CeMON

6 Marzo, 2025

Alberto Moravia e la malattia: la catarsi della narrazione

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER

Ogni lunedì riceverai una ricca newsletter che propone gli articoli più interessanti della settimana e molto altro.
Tempo di lettura: 10 minuti

L’interrelazione tra sorgente creativa e malattia è un aspetto rilevante in molti artisti. Scrittori, pittori, cineasti o drammaturghi hanno sondato la complessità dell’animo umano, offrendoci una diversa visione del mondo e una interpretazione del dolore e della malattia non molto lontana da quella Hahnemanniana e dalla filosofia del dottor Edward Bach.

Tra questi, Alberto Moravia – nome d’arte di Alberto Pincherle –, è tra gli autori che ha avuto un percorso umano-artistico evidentemente segnato dalla malattia. È lo stesso scrittore a confessarlo durante un’intervista ad Alain Elkann:

« […] ad un certo punto mi sono ammalato. Fisicamente e moralmente. Da allora una buona metà della mia vita l’ho passata a ristabilire la salute, anch’essa non soltanto fisica ma morale. Bisogna dire che recuperare è molto diverso dall’aver sempre avuto, non aver mai perduto. […] Sono stato malato psicologicamente per molti anni dopo la guarigione. Ho recuperato la salute mentale che avevo avuto prima della malattia soltanto molto tardi e naturalmente non è stata la stessa salute, ingenua e disarmata, ma qualche cosa di meno unidimensionale e di più complicato»1.

Il filosofo Isaiah Berlin nel suo saggio Il riccio e la volpe – che ruota intorno al famoso verso di Archiloco: «La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande» -, distingue due grandi famiglie: da una parte le volpi, coloro che perseguono molti fini «spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto, per qualche ragione psicologica o fisiologica, non unificati da un principio morale o estetico»; dall’altra i ricci, coloro che riferiscono tutto a una visione centrale «a un sistema coerente più o meno articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono»2. Se supponiamo, applicando il parametro di Berlin, che l’artista sia un “riccio”, possiamo delineare anche il suo principio ispiratore unico e universale: il mistero dell’esistenza umana. Di questo mistero fa parte anche la malattia: rifiutata o accolta, accettata o negata, c’è, perché esiste la salute che è il suo contrapposto, e perché c’è la vita. Ma l’artista la plasma restituendola, ai suoi e ai nostri sensi percettivi, come sana bellezza.

L’esperienza della malattia in Alberto Moravia porta con sé i rivoli disturbanti della solitudine, della vergogna e della malinconia, con scoppi di aggressività che lo spingono all’auto-diagnosi di schizofrenia che, indipendentemente dalla sua eventuale esattezza, definisce una particolare coscienza dei suoi ‘affetti difficili’. Questa coscienza è fulcro e al contempo frutto della sua capacità narrativa: la letteratura diviene per Moravia il metabolismo del dolore, trasformando un peso invalidante in un’inquietudine feconda, di cui la letteratura si nutre a sua volta.

Le risorse interiori di Moravia sono descritte con minuziosa lucidità e offrono al lettore le ricette dell’Autore. L’indifferenza, per esempio, non è solo quella incapacità di rapportarsi alla realtà comune a molti suoi personaggi (quella che Moravia chiama «alienazione» o «apatica e astratta indifferenza» e alla quale Siciliano dedicò l’efficace locuzione «l’immobile indifferenza di cinque destini»)3, ma anche la sua personale scialuppa di salvataggio durante varie tempeste: «In realtà sono stato protetto nella mia vita dall’indifferenza»4

I personaggi di Moravia sembrano fallire in quel tentativo di astrazione dal dolore cui invece Moravia stesso si affida a tal punto da paventare una scissione continua e quasi indecifrabile.

Una scissione che sarebbe spesso risultata nell’apparente contraddizione tra adesione e insofferenza.

Moravia appare alla perenne ricerca di un distacco cui i suoi stessi personaggi aspirano ma fallendo. Il motivo si può ricercare nello strumento di cui i suoi personaggi, proprio perché personaggi, mancano: la letteratura. Essi sono le marionette del dramma e perciò destinati a scontrarsi contro le pareti della realtà, come pesci in una vasca di vetro. La letteratura, al contrario, permette a Moravia di essere testimone del dramma altrui e quindi del proprio:

«L’artista è un testimone; e testimoniare vuol dire nominare le cose, cioè riconoscerne e affermarne l’esistenza obiettiva al di fuori di noi»5.

La narrazione del dramma è distacco dal dramma stesso, da quello vissuto e interiorizzato fino, talvolta, alla paralisi affettiva. Questa paralisi è d’altronde l’unico esito possibile per i personaggi, come lo è per Moravia stesso quando non è narratore, e perciò condannato a quel «distacco amaro e risentito» in cui i suoi personaggi annegano.

Il distacco del ‘testimone’ aiuta Moravia ad affrontare la scomoda e dolorosa esperienza della malattia, con tutto ciò che ne consegue:

«Ma la malattia non finiva mai. Ogni tanto mi alzavo e poi ricascavo per terra. Soffrivo moltissimo, quello sì, soffrivo di dolori, soffrivo di desiderio di vita, soffrivo di mancanza di compagnia. Era veramente un’esistenza difficile da sopportare, la ricordo come un lungo tunnel in fondo al quale doveva pur esserci la guarigione […]. In quel tempo della mia vita mi vergognavo di tante cose. Mi vergognavo quando mio padre sbuffava perché la carrozzella era in ritardo. Mi sono vergognato quando un bidello mi ha preso sulle braccia per portarmi nell’aula dell’esame. Ma soprattutto mi vergognavo di farmi vedere malato in mezzo a tanta gente sana. […] Io mi vergognavo che mi guardassero»6.

Guardare, guardare i personaggi vivere e soffrire e quindi guardare se stessi vivere e soffrire. Il distacco, che si servirà sempre più dello strumento della penna, è la valvola d’aria contro la pressione della realtà. Perciò lo stile narrativo di Moravia risulta particolarmente pulito dall’ingombro delle interpretazioni: nessuna cataratta deve adombrare l’occhio lucido del testimone, pena la stessa funzione catartica del testimone. Il dolore, una volta rappresentato nella composizione scenica del dramma, perde il suo potere o almeno una buona parte di esso. Proprio a questo fine la narrazione necessita di una particolare asciuttezza, di quella «perfetta oggettività» auspicata dall’Autore, perché l’interpretazione inquina, mentre la percezione diretta, addirittura fisica, è per Moravia chiave di lettura del dramma e mezzo della sua composizione.

In Moravia la ricerca del distacco in letteratura mostra analogie con quell’inquietudine che lo spinse a intraprendere numerosi viaggi per il mondo. Sarebbe forse errato, tuttavia, ridurre la ricerca di un’asciutta oggettività semiotica a un bisogno di fuga dalla realtà. Si trattava di bisogno, ma non di un bisogno di fuga. Moravia stesso lo definisce una «fame di spazio»7. Sembrerebbe che in qualche modo Moravia avesse intuito che il suo conflitto con il dolore non si sarebbe potuto risolvere con una spasmodica fuga, ma attingendo a uno spazio, interiore ed esteriore, che relativizzasse il dolore e se ne prendesse cura. Moravia non sceglie di rimanere avviluppato nella realtà, ma di avviluppare la realtà stessa all’interno di una prospettiva più ampia, che il viaggio e ancor più la letteratura sembrerebbero capaci di promuovere.

Il viaggio rappresenta l’esatto contrario dell’infermità sperimentata nella malattia e delle paure legate ad essa:

«A letto, con la trazione alla gamba. Al piede avevo otto chili, e due al ginocchio. Da questa trazione non potevo liberarmi, neanche per un attimo, perciò una delle mie paure era di morire in un incendio, bruciato vivo»8.

Il viaggio è sinonimo di sconfinatezza, o perlomeno aiuta a stabilire un rapporto meno asfissiante con i propri confini. La limitatezza si attenua, si ammorbidisce nel viaggio. L’esperienza può fluire più liberamente. Lo stesso approccio si ritrova nelle scelte stilistiche, spesso caratterizzate da un rapporto ambiguo con la ritmicità della composizione letteraria:

«[…] fu notato che la punteggiatura lascia molto a desiderare. Ciò dipende dal fatto che mentre lo scrivevo non usavo alcuna punteggiatura, limitandomi a separare l’un periodo dall’altro con una lineetta o uno spazio bianco. E questo perché sebbene scrivessi in prosa, ogni frase mi veniva fuori con la proprietà ritmica e solitaria di un verso. Poi, a composizione finita, distribuii un po’ a caso la punteggiatura. Ma in molti luoghi il periodo era così fatto che nessuna punteggiatura ragionevole mi fu possibile. Ora mi accorgo troppo tardi che forse non avrei dovuto mettere alcuna punteggiatura e presentare il libro così come mi era venuto fatto di scriverlo»9.

La punteggiatura è nemica ed amica, perché definisce (ed è indispensabile definire), ma proprio definendo limita. Moravia la sceglie, non può fare altro, ma se ne rammarica.

Allegoria efficace nei suoi romanzi e racconti di questo rapporto ambivalente con la realtà è la porta, elemento cruciale nel definire la difficoltà dei personaggi a muoversi nella realtà.

«Lentamente, chiudendo la porta con una spinta del dorso e guardando fisso all’amante, il giovane entrò nella stanza»10.

Il personaggio moraviano è fermo sull’uscio, incerto se oltrepassare o meno la soglia, il confine, il limite.

«Egli uscì dalla stanza, poi dall’appartamento, discese la scala, aprì il portone della casa. Sulla soglia si fermò irresoluto e ascoltò la campana di una chiesa vicina battere i colpi nel silenzio di quel quartiere deserto “Le dieci e mezzo,” pensò, “ho ancora il tempo di andare a ficcarmi in un cinematografo”»11.

Forse il cinema (che in greco significa appunto movimento) può offrire una disperata lysis dell’inestricabile, confusa realtà del dramma moraviano.

Moravia racconta anche delle sue ore passate a ballare dopo la guarigione dalla malattia. Naturale che il movimento (danza, viaggio o letteratura), gli si presentasse come essenza stessa della liberazione dal dolore, e manifestazione di quella vitalità e di quel desiderio di azione che in fondo lo possedeva. Senza la testimonianza contemplativa della letteratura, tuttavia, il movimento non giunge alla catarsi. Da un certo punto di vista, l’equilibrio cercato da Moravia sembrerebbe essere tra azione e contemplazione, una fusione dell’agente con il testimone. A tal fine, il movimento non deve essere centrifugo, come una certa enfasi sul viaggio potrebbe erroneamente suggerire, ma centripeto, volto al testimone stesso:

«Al diavolo Maria Teresa, pensò a mo’ di conclusione; e sforzandosi di dominare il profondo malessere che l’opprimeva, richiuse dietro di sé il portone e s’incamminò verso il centro della città»12.

Viene in mente un curioso paragone con Hitchcock, che in La finestra sul cortile (The Rear Window) costringe il testimone all’immobilità, impedito sulla sedia a rotelle da una gamba rotta, intento a osservare il ‘criminale’. Moravia lo fa muovere, gli suggerisce l’abbandono dell’edificio (che in molte tradizioni è la costruzione dell’ego illusorio) e una direzione (il centro), che altro non può essere se non la fusione con il testimone stesso.

Forse l’immobilità di James Stewart in The Rear Window è un’accortezza necessaria nel tentativo di fusione tra agente e testimone: il testimone, pur partecipando del dramma, deve esserne separato (appunto grazie alla finestra, ma anche all’obiettivo-occhio della macchina fotografica). Al contrario, forse per un’insita insofferenza verso l’immobilità, il personaggio di Moravia si muove, va verso il centro (dal portone al centro della città, ovvero dall’aham all’ātman, come suggerirebbe la filosofia vedantica). In un certo senso, il personaggio di Moravia non è ancora testimone, si sforza di divenirlo, e perciò si serve del movimento. Ma è altrettanto vero che in The Rear Window James Stewart alla fine deve fisicamente lottare con l’assassino, l’ego illusorio. Il paragone, dunque, sembrerebbe suggerire che la fusione cui tende Hitchcock va dalla contemplazione all’azione, quella di Moravia dall’azione alla contemplazione.

Un altro paragone possibile è quello con uno dei più grandi scrittori cui Moravia si ispira e confronta, e talvolta scontra: Dostoevskij. La porta chiusa alle spalle sembrerebbe una salutare uscita dal sottosuolo: la memoria non basta, occorre un movimento. Moravia sembra voler accontentare l’aspirazione finale che Dostoevskij mette in bocca al suo io-narratore: «Ma basta. Non voglio più scrivere dal sottosuolo»13. Il sottosuolo come tappa obbligata per non ristagnare in superficie, dove la società non si pone domande ma recita, si reprime, soffoca nell’inconsapevolezza dei suoi stessi limiti. Tappa, però, non meta, e Moravia vuole suggerire il passo successivo, forse perché prima o poi deve liberarsi di un padre così importante come Dostoevskij, ma anche perché forse intuisce la necessità di quel centro che è nella città ma non ne è intaccato, perché il centro non è mai travolto dal vortice. A questo punto verrebbe da dire che anche il movimento di Moravia è una tappa, la meta è in qualche modo indicata ma non raggiunta, e forse lo stesso vincolo con Dostoevskij non è affatto reciso.

L’esperienza della malattia, dunque, si radica in Moravia e lo orienta nelle relazioni, sempre all’ombra dello spettro della solitudine. Il dolore sembra isolarlo e proprio per questo, forse, corazzarlo dalle minacce della realtà, nel senso delle possibili ferite che l’umanità può infliggere: «[…] il letto dopo il sanatorio, era diventato per me come il guscio per la lumaca»14. Quando Moravia parla della malattia come della sua “seconda natura”, sembra quasi compiacersene, forse alludendo a quella distanza dalle umane cose che la malattia a volte può donare:

«[…] Non mi sentivo molto forte davanti alla vita, facevo tutto come in sogno. E allora avevo quasi nostalgia della malattia. […] Può sembrare una stranezza ma quando uno è stato malato per dieci anni della sua vita, la malattia diventa una seconda natura»15.

È estremamente interessante questo aspetto, la malattia è vista da Moravia stesso come conseguenza inevitabile della sua spiccata sensibilità: «[…] non poteva non andare a finire come è andata a finire, mi dovevo per forza ammalare. La malattia è stata nella logica della mia fisiologia, della mia vita»16.

Il disturbo fisico diviene strumento di accesso alle specifiche diversità dell’individuo, è ciò che ci differenzia; esso delinea i tratti più importanti della nostra vicenda umana, materica, spirituale e archetipa. La malattia viene interpretata al di là del disagio propriamente fisico, essa è nella logica della nostra fisiologia, della nostra vita e ha un valore e un significato che travalica il piano funzionale, coinvolgendo l’intero individuo nella sua meravigliosa complessità e integrità.

Queste affermazioni di Alberto Moravia ci riconducono inevitabilmente a quelle del dott. Bach, ai suoi suggerimenti di non rivolgere la nostra attenzione alla malattia in sé, ma alla prospettiva e al punto di vista che la persona sofferente ha della propria vita.

Inoltre, la stretta relazione che Moravia afferma esserci tra la malattia e la propria ipersensibilità, sottolineata al punto che quest’ultima sarebbe la causa della tubercolosi ossea, fa della malattia stessa una sorta di stigmate, lo stigma dell’artista.

«Sono nato sano e la mia famiglia era normale. Semmai l’anormale ero io. Anormale perché ero troppo sensibile. Io non credo che tutti siano sensibili allo stesso modo. Ci sono bambini tonti, ottusi, insensibili. Ci sono quelli che sono molto sensibili, ipersensibili. Quelli ipersensibili possono diventare dei disadattati; ma possono anche diventare degli artisti»17.

Anche in questo caso non si può dimenticare che Moravia ha illustri compagni di strada, compagni che lui stesso non manca di fiutare e riconoscere come tali: Kafka e Bernhard. Accomunati da quella ambigua relazione che l’artista ha con la malattia e con la realtà intera, i tre scrittori sviluppano approcci all’esperienza simili ma diversi. A detta dello stesso Moravia, «Kafka riesce a tenersi ad anni-luce di distanza dalla rugosa realtà grazie ad una impalpabile ambiguità spirituale, altrettanto Bernhard si impegna in una sua rissa personale con il reale, dandogli persino una collocazione geografica: l’Austria e, dentro l’Austria, il Tirolo»18. Con il movimento cui si accennava poc’anzi, Moravia sembra voler pacificare la rissa di Bernhard e colmare la distanza operata da Kafka. Tuttavia, non può esimersi dal costruire quel castello che, in un modo o nell’altro, i due grandi scrittori edificano. I personaggi di Moravia cercano rifugio nel cinema, che è sì movimento ma anche stanza buia dove la luce proietta la realtà senza inserirvi lo spettatore. I personaggi di Moravia vivono e soffrono in stanze, oppure ricorrono a ogni stratagemma per edificare quell’indifferenza che non è altro che un altro castello interiorizzato. Tuttavia, talvolta essi attraversano un uscio, osano un passo all’esterno verso il centro della città, del vortice. Non sempre il passo oltre la soglia risulta convincente, ma resta orma del tentativo di Moravia di superare quella condizione così meravigliosamente descritta dagli scrittori da lui amati. Moravia come loro, sa la solitudine, forse proprio grazie alla malattia, e sembra voler servirsi delle mappe dei suoi illustri colleghi per giungere a scardinare la porta della prigione.

C’è un altro anello di congiunzione tra Moravia, Kafka e Bernhard: l’asciuttezza della parola. Una letteratura volutamente e inevitabilmente priva di interpretazioni, analisi psicologiche o indulgenze in sentimentalismi è, in modi diversi ma convergenti, sottilmente legata all’esperienza della malattia. Il dolore non lascia spazio ad alcun orpello, perché la più piccola goccia di sentimentalismo, la minima concessione all’interpretazione dei caratteri psicologici, farebbe trasbordare l’angoscia e travolgerebbe tutto senza possibilità di redenzione. I tre operano una chirurgia letteraria che asciuga il male dalle sue metastasi e ne rende possibile, forse solo grazie a quella rara alchimia tra contemplazione e azione, la definitiva asportazione.

  1. Alberto Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 2000, pp. 7-22.
  2. Isaiah Berlin, Il riccio e la volpe, Adelphi, Milano 1998, pp. 71-72.
  3. Enzo Siciliano, Prefazione a Romildo, Bompiani, Milano 2003, p. VIII.
  4. Alberto Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., p. 120.
  5. Alberto Moravia, Prefazione all’antologia del realismo, in L’uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1964, p. 347.
  6. Alberto Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., pp. 20-21.
  7. Ivi, p. 212.
  8. Dacia Maraini, Il bambino Alberto, Bompiani, Milano 1986, p. 89.
  9. Alberto Moravia, Ricordo de Gli indifferenti, cit., p. 67.
  10. Alberto Moravia, Cortigiana stanca, in Racconti 1927-1951, Bompiani, Milano 2001, p. 5.
  11. Ivi, p. 15.
  12. Ivi, p. 15.
  13. Fëdor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, BUR Rizzoli, Milano 1995, p. 142.
  14. Alberto Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., p. 31.
  15. Ivi, p. 62
  16. Ivi, p. 12.
  17. Ivi, p. 7
  18. Alberto Moravia, Diario europeo, cit., p. 268.

1 commento

  • ANNA MARIA FOLLI

    MI È PIACIUTA MOLTISSIMO LA DESCRIZIONE DELLA VITA DI MORAVIA CHE LA SCRITTRICE MARIA LAURA MI HA MANDATO COSÌ BENE DETTAGLIATA.
    GRAZIE FIGLIETTA MIA

Lascia il tuo commento