BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XII • Numero 48 • Dicembre 2023
Considero l’intelligenza solo uno dei tanti adattamenti dei tetrapodi per la sopravvivenza. Correre veloce in una mandria, pur essendo stupido come una merda, penso, sia un ottimo adattamento per la sopravvivenza.
Joseph John Sepkoski
L’idea dello scopo nel pensiero occidentale
Nella nostra contemporaneità è prassi che i ricercatori si interroghino, ad esempio, sulle proprietà degli atomi, delle molecole e degli ioni ma nessuno di loro si aspetterebbe oggi che atomi e molecole abbiano uno scopo trascendente o metafisico. Paradossalmente, tuttavia, ancora nella nostra civiltà, ufficialmente secolarizzata, noi pensiamo agli esseri viventi in questo modo. In effetti, se qualcuno ci chiedesse se la vita, fatta da atomi e molecole, come definita e intensa all’interno dell’establishment aconfessionale, abbia uno scopo, è quasi certo che saremmo predisposti a rispondere affermativamente – senza alcun dubbio! Probabilmente, nemmeno ci verrebbe in mente che l’idea dello scopo trascendente abbia una storia, tutta sua, nel pensiero occidentale.
L’idea dello scopo, particolarmente declinato in un perché metafisico, in effetti, ci pervade in un modo, talmente capillare, che, verosimilmente, sentiamo che non potremmo manco vivere senza l’idea di uno scopo della vita. Ma, se per caso, qualcuno di noi avesse già pensato a questa domanda e avesse fatto qualche indagine al riguardo, forse avrebbe letto che, stando al settecentesco romantico Kant, rigettato dalla fisica contemporanea, dovremmo, almeno per un istante, provare a vivere senza l’idea che la nostra vita abbia uno scopo prestabilito. Effettivamente, come ci ricorda il professore e direttore del dipartimento di Storia e Filosofia della Scienza presso la Florida State University, Michael Ruse, nella sua opera On Purpose,1 Kant pensava che, in quanto abitanti della nostra civiltà, siamo bloccati nella certezza che la vita abbia uno scopo. Al riguardo, precisa Ruse,2 neppure la teoria della selezione naturale di Darwin, che scosse profondamente l’idea di un fine predeterminato da compiere, riuscì ad ucciderla.
In effetti, come chiarisce lo stesso Ruse,3 la spiegazione teleologica, ciò che Aristotele chiamava comprensione in termini di cause finali, sembra tornare oggi, poiché sia i sostenitori religiosi del disegno intelligente sia alcuni eminenti filosofi laici della scienza sostengono che qualsiasi spiegazione della vita, senza l’idea del suo scopo, manca di qualcosa di essenziale. Nella sua analisi Ruse4 esplora la storia dell’idea dello scopo nel pensiero filosofico, religioso, scientifico e storico, dall’antica Grecia ai giorni nostri, concentrandosi sul pensiero dello scopo circa il mondo naturale e umano. Nella sua accurata indagine, Ruse mostra come tre idee sullo scopo siano state al centro del pensiero occidentale per più di duemila anni. Nella visione platonica, lo scopo risulterebbe dalla pianificazione di un essere divino o Demiurgo; nell’aristotelica, lo scopo deriverebbe da una tendenza o principio di ordine nel mondo naturale; e in Kant, lo scopo sarebbe, essenzialmente, euristico, o qualcosa da scoprire, un’idea a cui viene data sostanza dalla teoria dell’evoluzione di Darwin attraverso la selezione naturale.5
Decisamente, la Rivoluzione Darwiniana, cioè quel cambiamento nel modo di pensare innescato da L’origine delle specie ad opera della selezione naturale (1859) di Charles Darwin, in cui si sosteneva che tutti gli organismi, compresi noi, umani, siamo il prodotto finale di un lungo, lento e naturale processo di evoluzione anziché che la creazione miracolosa di un Dio onnipotente, costituisce uno degli eventi culturali davvero importanti nella civiltà occidentale. In effetti, si trattò di un approccio innovativo ed entusiasmante, come documenta lo stesso Michael Ruse nella sua opera Darwinism as religion,6 a tal punto che la teoria dell’evoluzione, espressa da Darwin, avrebbe funzionato, fin dall’inizio, come una religione secolare.
Basandosi su una profonda comprensione sia della scienza che della storia, Michael Ruse esamina il pensiero naturalistico sulle origini degli organismi, comprese le origini del genere umano, come rappresentato nei romanzi e nella poesia, prendendo la storia della teoria evoluzionistica dai suoi inizi nell’Età dell’Illuminismo, nel XVIII secolo, fino ai giorni nostri, dimostrando che, contrariamente all’opinione di molti storici dell’epoca, si sarebbe verificata, davvero, una rivoluzione nel pensiero e che il naturalista Charles Darwin ne sarebbe al centro.7 Tuttavia, diversamente da quanto molti pensano, questa rivoluzione non sarebbe stata principalmente scientifica in quanto tale, ma piuttosto religiosa o metafisica, poiché le popolazioni sarebbero state portate dal mondo sicuro della fede cristiana al mondo più oscuro e ostile dell’evoluzionismo.
Una riflessione di questa portata, relativa alla questione se si possa considerare che la vita abbia uno scopo, o meglio, un senso, comporta implicazioni inattese e importunanti relative alla modalità platonica, aristotelica e darwiniana di pensare la vita in termini di scopo, suscitando domande difficili, sia sulla questione dello scopo delle nostre esistenze che sulla questione se sia possibile un significato, almeno etico, senza che ci sia uno scopo.
Indubbiamente, se la domanda poi viene circoscritta nei termini se la vita umana abbia un significato, l’interrogativo, stando anche allo stesso Michael Ruse, come suggerito nella sua opera A meaning to Life,8 avrebbe senso, innanzitutto oggi. Per secoli, ci ricorda Ruse, non solo i teologi ma anche i cosiddetti studiosi secolarizzati avrebbero ritenuto che la questione del significato o dello scopo della vita umana avesse una risposta religiosa. Al riguardo, la dottrina giudeo-cristiana che ha forgiato la nostra rappresentazione di noi stessi e del nostro ambiente ci ha predisposto a considerare che la vita abbia significato perché noi stessi, esseri umani, saremmo stati creati ad immagine di un dio buono. Nel XIX secolo, tuttavia, la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin mise in discussione una tale rappresentazione ed emerse una visione nella quale l’organismo umano venne considerato più una macchina che una creazione spirituale.9 Da allora, con l’ascesa della scienza e il declino del credo religioso, ci sarebbe stato un crescente interesse – e un crescente dubbio – sul fatto che la vita umana abbia, davvero, un significato e se sì, dove potremmo trovarlo.10
Lo storico e filosofo della scienza, al quale quest’argomentazione fa riferimento, Michael Ruse, ad esempio, indaga questa domanda e si chiede se possiamo trovare un nuovo significato alla vita all’interno della visione darwiniana della natura umana. In effetti, Ruse si interroga al riguardo e cerca di descrivere e interpretare, in nuovi termini, la questione del significato della vita. Affrontando la questione della non esistenza di Dio oppure del suo disimpegno morale, invece di promuovere ciò che potrebbe essere percepito come un tetro nichilismo, molti darwiniani pensano che si possa convertire Darwin in una forma di umanesimo secolare. Nella sua opera,11 Ruse spiega che, in una tradizione che risale ai tempi dello stesso Darwin, e rappresentata oggi dall’evoluzionista E. O. Wilson, l’evoluzione viene vista come progresso (dalla monade o sostanza metafisica all’uomo) e che il significato positivo della vita si troverebbe nel continuare a sostenere questo processo della vita verso l’alto. Nel suo pensiero libero da preconcetti, Michael Ruse sostiene che questa svolta in un umanesimo darwiniano sia sbagliata e che non vi sarebbe alcun reale progresso nel processo evolutivo. Nella sua opinione, il significato nell’era darwiniana può essere trovato se ci rivolgiamo piuttosto ad una sorta di esistenzialismo darwiniano, vedendo la nostra natura umana evoluta come la fonte di ogni significato, sia nel mondo intellettuale che in quello sociale.12 Ruse sostiene che solo accettando la nostra vera natura, evolutasi nel corso di millenni, l’umanità potrebbe veramente trovare ciò che sarebbe secolarmente un significato per rendere la vita umanamente significativa.
I dinosauri e l’euristica di uno scopo per la vita
Rivolgendoci ad una sorta di esistenzialismo darwiniano, per il quale la nostra stessa natura umana, evolutasi socialmente aggiungendo una metafisica interpretativa di sé stessa, è l’unica fonte di ogni significato, facciamo rifermento allo stesso Ruse, nello specifico al suo saggio Does life have a purpose?13 nel quale questo storico e filosofo della scienza cerca di mostrarci che il linguaggio teleologico della modernità scientifica sia anche esso un nuovo tentativo di ripristinare l’idea dello scopo inerente al pensiero teologico, platonico e aristotelico.
L’espediente di Ruse per immergerci nell’ossessione del nostro pensiero con lo scopo è quello dello Stegosauro,14 dinosauro del tardo Giurassico (150 milioni di anni fa circa), degno di nota per le piastre, simili a diamanti, lungo tutta la schiena. Da quando resti fossili di questo animale furono scoperti alla fine del 1870 nel Wyoming, enormi quantità di inchiostro sono state versate nel tentativo di scoprire lo scopo delle piastre. La spiegazione, ovvia, sarebbe che fossero usate per combattere o difendersi. Tuttavia, quest’interpretazione semplicemente non può essere valida, perché come argomenta Ruse,15 la connessione tra le piastre e il corpo principale risulterebbe troppo fragile per funzionare, efficacemente, in una battaglia all’ultimo sangue. Un’altra spiegazione plausibile potrebbe essere che, come si ipotizza per le corna del cervo o la coda del pavone, svolgessero una sorta di ruolo nel gioco dell’accoppiamento. In tal caso, un vincente Stegosauro con le piastre migliori otteneva l’harem e gli altri maschi rimanevano fuori dalla competizione riproduttiva. Sfortunatamente per quest’ipotesi, anche le femmine avevano le placche. Quindi, manco questa può essere la spiegazione. L’ipotesi preferita di Ruse sarebbe che le piastre fossero come le alette che si trovano nelle torri di raffreddamento per la produzione di energia elettrica. In tal caso sarebbero servite per il trasferimento di calore e nel fresco del mattino, al sorgere del sole, avrebbero aiutato l’animale a scaldarsi velocemente. A metà giornata, possiamo immaginare che, seguendo quest’idea, soprattutto quando la vegetazione consumata dallo stegosauro fermentava nel suo ventre, le piastre avrebbero aiutato a catturare il vento e ad eliminare il calore in eccesso. Interpretate così, le piastre sul dorso dello Stegosauro avrebbero costituito un adattamento superbo. Purtroppo, stando a Ruse, anche questa non sarebbe una spiegazione da favorire, dal momento che le ultime indagini suggerirebbero che le piastre potrebbero essere state un modo per gli individui di riconoscersi a vicenda come membri della stessa specie.
Il linguaggio teleologico nella scienza: il caso della biologia
Questa argomentazione, che fa riferimento all’evoluzione, alla storia della scienza e alla metafisica non si occupa, però, dei dinosauri ma del tipo di pensiero che i biologi, ad esempio, utilizzano quando si si interrogano sul funzionamento dei corpi dei dinosauri. In effetti, convenzionalmente e utilizzando un paradigma tradizionale, i biologi si chiedono quale fosse lo scopo delle piastre? A cosa servissero? Servivano per combattere? Servivano per attirare i compagni nell’accoppiamento? Servivano per il controllo del calore? Questo tipo di linguaggio, come sottolinea Ruse,16 è teleologico, dal greco telos per indicare finalità. Si tratta di un linguaggio riguardante lo scopo o l’obiettivo delle cose, ciò che Aristotele chiamava le loro cause finali ed è qualcosa che le scienze fisiche hanno, decisamente, rifiutato.17 Per la maggior parte degli studiosi cosi chiamati scienziati, ci fa notare opportunamente Ruse, non avrebbe alcun senso pensare che una stella serva a qualcosa o che una molecola abbia uno scopo. Eppure, quando si parla di esseri viventi, sembra molto difficile scrollarsi di dosso l’idea che essi abbiano scopi e obiettivi che vengono raggiunti dal modo in cui si sono evoluti.18
Al riguardo, come ha suggerito di recente Steven Poole,19 il chimico James Lovelock si trovò in serie difficoltà con i suoi colleghi accademici quando volle parlare della Terra come organismo, vale a dire la cosiddetta ipotesi Gaia. Nella visione di Lovelock, le parti della Terra avrebbero degli scopi. Ad esempio, le lagune marine servirebbero per far evaporare sale non necessario dall’oceano. Stando ancora a Poole,20 anche il filosofo contemporaneo Thomas Nagel si sarebbe trovato in difficoltà suggerendo nel suo libro Mind and Cosmos (2012) che dobbiamo usare la comprensione teleologica per spiegare la natura della vita e la sua evoluzione. Certamente con un po’ di ironia bisogna anche ammettere che la scienza sembra non poter smettere di parlare in termini di scopi, ma se l’universo si preoccupasse, davvero, per noi, allora si potrebbe concludere che avrebbe un modo peculiarmente eccentrico di dimostrarcelo.
Come riferisce Ruse,21 alcuni pensano che questo persistente linguaggio teleologico sia un segno che la biologia non sia affatto una vera scienza ma solo una raccolta di osservazioni e fatti. Altri sostengono che l’apparente finalità o risolutezza della natura lasci spazio a Dio. Immanuel Kant, ad esempio, dichiarò che non si può fare biologia senza pensare in termini di funzioni, di cause finali. Nella sua Critica del giudizio (1790), Kant afferma che non ci sarà mai un Newton del filo d’erba, intendendo che gli esseri viventi semplicemente non sono determinati dalle leggi della natura nel modo in cui lo sono invece le cose non viventi e per questo noi umani per spiegare il mondo organico avremmo bisogno del linguaggio dello scopo.
Risulta realmente curioso che, sebbene non si parli di scopi degli atomi né delle molecole, si parli ancora degli organismi e delle loro caratteristiche in questo modo. Oppure, possiamo chiederci se la biologia sia, alla base, diversa dalle altre scienze perché gli esseri viventi avrebbero scopi e fini? O invece la biologia, nella sua versione convenzionale, semplicemente non sia riuscita a sbarazzarsi di un pensiero antiscientifico e antiquato, un pensiero che lascia la porta socchiusa perfino a coloro che vogliono riportare Dio nella scienza?
Nell’analisi di Ruse, questo coinvolgimento della biologia con la teleologia risale al mondo greco antico. Per chiarire la sua considerazione Ruse fa riferimento al Fedone, dialogo di Platone, nel quale, alla fine del discorso, Socrate descrive sé stesso mentre siede in attesa del suo destino, cioè la sua morte per aver ingerito un phàrmakon (secondo una discussa tradizione, la cicuta). Morente, Socrate si chiede se il suo fato possa essere affatto spiegato meccanicamente perché, stando alla sua interpretazione, il suo corpo era fatto di ossa e muscoli e le sue ossa erano ancora dure e avevano le articolazioni che le dividono prima dell’ingestione del farmaco. Per di più, i suoi muscoli erano ancora elastici e gli ricoprivano le ossa. Dunque, se tutta la sua meccanica corporea era funzionante, prima del farmaco, dice Socrate, il fallimento della sua meccanica corporea non era la vera causa per cui siede dove è seduto né di come lo fa, vale a dire morente. Nel suo ragionamento, la vera causa del suo fato, o meglio della sua morte, era che gli Ateniesi avevano ritenuto opportuno condannarlo e lui riteneva meglio e più giusto restare lì e subire la sua condanna. Socrate descrive questa situazione come una confusione di cause e condizioni. Nel Timeo Platone sviluppò ulteriormente la questione relativa a questa confusione tra cause e condizioni, descrivendo un universo portato in essere da un progettista (quello che Platone chiamava il Demiurgo). Da questa prospettiva un’indagine sullo scopo delle ossa e dei muscoli non era solo un’indagine sui modi degli uomini, ma in definitiva un’indagine sui piani del Demiurgo.
Stando ad alcuni studiosi in materia, come lo stesso Ruse,22 l’idea del Demiurgo mise in imbarazzo Aristotele, allievo di Platone. In effetti, da un certo punto di vista, per Aristotele era difficile collocare Dio (o il Demiurgo) in affari di biologia perché sebbene anche lui fosse stato uno che credeva in un’idea di un Dio, il suo, certamente, non era uno che si preoccupava dell’universo e dei suoi abitanti. Nel pensiero di Aristotele quel Dio, come in qualunque famiglia normale, trascorreva il suo tempo pensando soprattutto alla propria importanza.23 Tuttavia, come è noto, Aristotele era molto interessato alle cause finali e sosteneva che tutti gli esseri viventi contenevano forze che li dirigevano verso i loro obiettivi. Queste forze vitali operavano qui e ora, ma in un certo senso avevano in mente il futuro.24 Ad esempio, animavano la ghianda affinché potesse trasformarsi in una quercia, e così anche per gli altri esseri viventi. Come Platone, Aristotele usava la metafora del design ma, a differenza di Platone, voleva tenere fuori dal gioco qualsiasi intelligenza cosciente e vigilante.
Dalle cause finali alle cause prossime
Con l’avvento della cosiddetta Rivoluzione Scientifica del XVI e XVII secolo le idee circa lo scopo che avevano forgiato la visione del mondo occidentale, cioè le idee platoniche della pianificazione di un Demiurgo e le idee aristoteliche di un principio d’ordine nel mondo naturale, come documenta Ruse,25 subiranno dei mutamenti. Sia per Platone che per Aristotele, la questione delle cause finali si applicava ai fenomeni fisici, ad esempio stelle, tanto quanto ai fenomeni biologici. Entrambi pensavano che i così chiamati oggetti fossero piuttosto simili agli organismi. Nel loro pensiero demiurgico, teleologico e metafisico, ad esempio, una pietra cadrebbe perché essendo costituita dall’elemento terra vorrebbe trovare il suo posto, cioè il più vicino possibile al centro della Terra. Dunque, una pietra cadrebbe per raggiungere il suo giusto fine e, semplicemente, vorrebbe cadere.
All’epoca della tale Rivoluzione Scientifica, però, le metafore dominanti della natura cambiarono. Gli studiosi non pensavano più in termini di organismi: pensavano in termini di macchine. Il mondo, l’universo, viene rappresentato come un gigantesco orologio.26 Come sosteneva il filosofo del XVII secolo René Descartes, il corpo umano non era altro che una macchina complessa. Il cuore assomigliava ad una pompa, e le braccia e le gambe erano un sistema di leve, carrucole e così via. Il chimico del XVII secolo Robert Boyle si rese conto che, non appena si inizia a pensare in termini di meccanica, parlare di fini e scopi, in realtà, non risultava molto utile. In un tale paradigma, se uno studioso vuole chiedersi perché un pianeta gira intorno al Sole, basta che si soffermi sui meccanismi attraverso i quali avviene questo spostamento e non c’è bisogno di immaginare che questo moto abbia uno scopo più elevato. Allo stesso modo, quando si guarda un orologio e si vuole sapere cosa faccia girare le lancette sul quadrante, è necessario soffermarsi alle cause prossime.
Senz’altro, nella nostra visione del mondo è talmente radicata l’idea dello scopo che pensiamo che perfino le macchine, sicuramente, abbiano degli scopi tanto quanto gli organismi. In effetti, nel nostro pensiero comune, l’orologio esistere per leggere l’ora così come l’occhio esiste per vedere. E questo è pure vero, ma, come avrebbe argomentato anche Boyle,27 una cosa è parlare di intenzioni e scopi in modo generale, magari teologici oppure semplicemente teleologici, un’altra cosa è farlo come parte della conoscenza cosiddetta scienza. Si può prendere la strada platonica e parlare delle intenzioni creative del Demiurgo per l’universo, va bene. Ma, in realtà, questo non fa più parte della conoscenza scientifica (se mai lo fosse stato) e avrebbe poco potere esplicativo,28 come puntualizza Ruse. Nelle parole di Edward Jan Dijksterhuis,29 uno dei grandi storici della rivoluzione scientifica, Dio è ora diventato un ingegnere in pensione.
D’altro canto, se si vuole adottare l’approccio aristotelico e spiegare la crescita e lo sviluppo dei singoli organismi mediante speciali forze vitali, stando a Ruse,30 ciò è ancora teoricamente possibile. Ma, poiché, come fece notare Boyle già nel XVII secolo, nessuno sembrava avere la minima idea di queste forze vitali o di cosa facessero in modo sperimentale, lui e i suoi colleghi meccanicisti volevano semplicemente abbandonare del tutto l’idea e andare avanti con il lavoro di ricerca delle cause prossime di tutti fenomeni naturali anziché delle cause ultime. La metafora organica delle forze vitali non portò a nuove previsioni né ad altri tipi di cose che ci si aspettava dalla scienza, in particolare in ambito delle promesse tecnologiche. La metafora della macchina, invece, stando a Ruse,31 lo avrebbe fatto.
Eppure, anche Boyle si rese conto che era molto difficile liberarsi del pensiero della causa finale quando si tratta di studiare organismi reali e non solo di usarli come metafore nel resto del mondo fisico. Era particolarmente interessato ai pipistrelli e trascorse molto tempo a discutere sui loro adattamenti, come ad esempio, come le loro ali fossero così ben organizzate per il volo. Infatti, quasi paradossalmente, nel XVIII secolo lo studio degli organismi viventi si interessò maggiormente alla teleologia, anche se le scienze fisiche se ne stavano allontanando.
L’idea dello scopo della vita e l’ideologia del progresso che porta all’idea della predestinazione del genere umano
L’espansione del pensiero storico, nello specifico, lo sviluppo di un’ideologia secolare di progresso aveva, certamente, giocato un ruolo chiave nella Rivoluzione Scientifica del XVII e XVIII secolo, come argomenta Ruse.32 Quest’ideale secolare circa il progresso riteneva che noi umani possiamo migliorare la storia attraverso i propri sforzi e senza la determinazione statica di un Demiurgo o Dio. Di conseguenza, quest’ideale rinnovò i discorsi circa gli alti scopi della vita e il cambiamento di direzione nella storia.33 In effetti, il pensiero era che se le popolazioni venissero indirizzate a che si poteva puntare a determinati fini, ad esempio, ad un miglioramento del tenore di vita o dell’istruzione, allora sarebbe potuto accadere che perfino la storia stessa potesse avere dei fini, scopi che non sarebbero stati più dettati tanto dalla religione cristiana, con il suo giudizio attorno salvezza o condanna, ma che sarebbero arrivati come parte di una forza o di un movimento generale diretto a un traguardo. Per cui, la domanda del momento era, ribadendo i termini teologici, se potessero la vita e la storia umana essere dirette verso l’alto e in avanti dall’interno.34
Accanto a filosofi e storici come Hegel, nel XIX secolo gli storici naturali iniziarono a speculare sugli organismi in modi proto-evolutivi e a parlare di obiettivi – di solito, obiettivi che implicavano l’arrivo del migliore di tutti gli organismi possibili, vale a dire l’Homo sapiens.35 Negli scritti di alcuni dei primi evoluzionisti, in particolare del biologo Jean-Baptiste Lamarck, si palesano riferimenti alle forze vitali aristoteliche che spingerebbero la vita su per la scala verso la destinazione preordinata del genere umano. Il linguaggio teleologico non era più limitato allo scopo dei singoli organismi e organi, come la mano o una ghiandola, ma ora sembrava spiegare una direzione generale per lo sviluppo della vita stessa.36
Fu, in effetti, in questa atmosfera di fascino per la storia della vita che Charles Darwin sviluppò la sua teoria della selezione naturale. L’origine delle specie / On the Origin of Species di Darwin (1859) può essere considerato lo spartiacque del pensiero sulla storia della vita e dello scopo. Aveva centrato la questione delle cause finali individuali, spiegando perché gli organismi fossero così ben adattati ai loro ambienti. Al riguardo, il linguaggio teleologico risultava appropriato perché caratteristiche come gli occhi e le mani, benché non fossero progettate, potevano essere interpretate come simili ad un progetto. L’occhio sarebbe come un telescopio, le piastre dello Stegosauro sarebbero come le alette che si trovano nelle torri di raffreddamento. Di conseguenza, interpretando i fenomeni del biota, così come essi si manifestano alla nostra coscienza soggettiva in termini teleologici, risulta completamente comprensibile che siamo inclini ad interrogarci su quali siano gli scopi degli organismi viventi.
Sotto ogni aspetto, segnala Ruse,37 il concetto della selezione naturale aveva spiegato come possano sorgere caratteristiche simili all’idea del design o progetto, senza che ci fosse stato effettivamente un progettista e manco uno scopo. A questo punto della raffigurazione della questione dei fenomeni espressi dagli organismi viventi non si rendeva più necessario che ci fosse una causa finale, puntualizza Ruse nella sua storia dell’idea dello scopo nel pensiero occidentale.38 Ci sarebbe stata, semplicemente, una lotta per l’esistenza tra gli organismi o, più precisamente, una lotta per la riproduzione. Stando alle idee di Darwin, in questa lotta alcuni sarebbero sopravvissuti e si sarebbero riprodotti, altri no. Seguendo il suo modo di ragionare, poiché ci sarebbero state variazioni nelle popolazioni in interazione con l’ambiente e giacché nuove variazioni sarebbero arrivate sempre, in media coloro che sarebbero sopravvissuti, sarebbero, in qualche modo, relativamente diversi da quelli che non sarebbero sopravvissuti, in modi che avrebbero contribuito al loro maggiore successo di fitness. Nel tempo, ciò si sarebbe tradotto in un cambiamento nella direzione dell’adattamento, vale a dire delle caratteristiche simili ad un design o progetto, pur se metaforicamente. A tal punto della descrizione del funzionamento degli organismi viventi, l’idea di un Dio impegnato nel disegno della natura viene, effettivamente, meno, pure se maggiormente si credeva che esso esistesse e lavorasse ad una certa distanza di sicurezza. Altresì viene meno l’idea relativa alle forze vitali e si avvia una visione che semplicemente ritiene che gli organismi viventi funzionino secondo principi meccanici. La metafora teleologica rimarrà ancora radicata nel paradigma interpretativo occidentale ma solo come una metafora sotto la quale si nascondono spiegazioni meccaniche piuttosto semplici.
Da una prospettiva teoretica si potrebbe congetturare che il nascente meccanicismo poteva risolvere un aspetto del problema teleologico, cioè quello del motivo per cui i singoli organismi siano stati ben adattati ai loro ambienti. Ma se, come ragiona Ruse,39 questo era concepibile in termini di organismi considerati individualmente, cosa dire allora sulla questione se la vita stessa abbia una direzione generale, un senso generale di progresso? Ed ancora una domanda più audace: cosa spiegherebbe il processo che avrebbe portato allo sviluppo dell’uomo? Stando a Ruse,40 Darwin credeva, davvero, in una sorta di progresso di questa natura, quello che i vittoriani chiamavano monade o unicità della sostanza metafisica dell’uomo, ma non voleva avere assolutamente nulla a che fare con gli spiriti dei mondi germanici e hegeliani che avrebbero portato la vita verso l’alto. Ciò sapeva troppo di una sorta di fede cristiana, che non condivideva.
Da quanto viene riferito dagli studiosi,41 tipicamente, Darwin si dibatteva sulla questione se l’evoluzione avesse una direzione. C’era tormento sui suoi taccuini e non avrebbe mai trovato una risposta definitiva. La cosa più vicina a lui fu, stando all’interpretazione convenzionale, quella di aver suggerito che il miglioramento (in termini adattivi) avvenisse in modo naturale perché ogni generazione, in media, sarebbe stata migliore (in tali termini) di quella precedente. Gli adattamenti, nella visione di Darwin, migliorarono e alla fine apparve il cervello, che diventava sempre più grande. In questo modo, si arrivò a noi, umani.42 Intriso ancora di teologia, Darwin scrisse che se consideriamo o riteniamo la differenziazione e la specializzazione dei vari organi di ciascun adulto, e ciò include lo sviluppo del cervello per scopi intellettuali, come il miglior standard di altezza di organizzazione, allora la selezione naturale porta chiaramente verso l’alto (teologico). Ciò che Darwin non considerò mai realmente al riguardo fu il fatto che il cervello sia qualcosa di molto costoso da mantenere e che un cervello grande non sarebbe, di conseguenza, necessariamente un biglietto di sola andata per il successo evolutivo. Come opportunamente segnala Ruse, nelle parole del paleontologo Joseph John Sepkoski: “Considero l’intelligenza solo uno dei tanti adattamenti dei tetrapodi per la sopravvivenza. Correre veloce in una mandria pur essendo stupido come una merda, penso, sia un ottimo adattamento per la sopravvivenza.”43
Dietro le montagne, i fiumi e gli interi pianeti non ci sarebbe alcuna selezione naturale
In ogni modo, nonostante le inevitabili lacune nell’elaborazione di ogni conoscenza, si potrebbe postulare che Darwin abbia risolto praticamente il problema teleologico della biologia, ma la sua soluzione, stando a Ruse,44 non ebbe un successo immediato. In effetti, sebbene la maggior parte delle persone non riusciva, davvero, a capire il concetto della selezione naturale, tutti i tipi di neoplatonici erano felici di credere a un’interpretazione cristiana della visione della vita di Darwin: Dio avrebbe avviato l’evoluzione per ascendere fino all’Uomo! Potevano avere Gesù e perfino l’evoluzione!
Mentre i cristiani potevano interpretare l’evoluzione in una cornice platonica, come la realizzazione dello scopo di un creatore divino, alcuni biologi fecero rivivere l’idea di Aristotele delle forze vitali che spingevano gli esseri viventi verso i loro fini supremi. Come riferisce Ruse,45 all’inizio del XX secolo, l’embriologo Hans Driesch descrisse e chiamò tali forze entelechie, considerandole come simili alla mente. Il filosofo Henri Bergson supponeva l’élan vital, uno spirito vitale che creerebbe adattamenti e che avrebbe dato all’evoluzione il suo corso ascendente. Il biologo Julian Huxley fu sempre attratto dal vitalismo, vedendo nell’evoluzionismo una sorta di sostituto del cristianesimo che forniva alle persone un senso di significato e direzione: quella che chiamava religione senza rivelazione.46 Ma anche lo stesso Huxley poteva cogliere che, scientificamente, il vitalismo costituiva un fallimento. Il problema non era che nessuno potesse vedere queste forze perché nessuno poteva vedere nemmeno gli elettroni. Piuttosto questi ritorni di Aristotele alla filosofia della scienza non hanno fornito nuove spiegazioni o previsioni. Le idee sul vitalismo sembravano non svolgere un vero lavoro nel mondo fisico e la biologia tradizionale le rifiutava come postumi di una sbornia di un’età filosofica precedente.
Certamente, a questo punto della riflessione si rende inevitabile chiederci cosa succede adesso. Stando a quanto riferisce Ruse,47 gli studiosi d’oggi sono abbastanza certi che il problema della teleologia, a livello del singolo organismo, sia stato risolto. Nella sua opinione, Darwin aveva davvero ragione. La selezione naturale spiegherebbe la natura [apparentemente] progettuale degli organismi e le loro caratteristiche, senza bisogno di parlare delle cause finali. D’altra parte, però, dietro le montagne, i fiumi e gli interi pianeti non ci sarebbe alcuna selezione naturale. E non sarebbero nemmeno simili al design o al progetto che sviluppa un qualcosa di predeterminato. Ecco perché l’euristica del discorso teleologico rimane inappropriata e perché l’ipotesi Gaia sia così criticata. E tuttavia, nel complesso, la biologia è ritenuta una scienza altrettanto valida quanto la fisica e la chimica. Si tratta di diversi tipi di fenomeni e quindi sono appropriati diversi tipi di spiegazione.
Ma la teleologia storica, la questione se l’evoluzione stessa prenda una direzione, in particolare progressiva, costituisce un problema più complicato e, stando a Ruse,48 non si può dire che esista ancora nemmeno la prospettiva che ci sia mai una risposta soddisfacente. Un modo popolare per spiegare l’apparente progresso nell’evoluzione sarebbe quello di una corsa agli armamenti biologici (una metafora coniata da Julian Huxley, per inciso). Attraverso la selezione naturale, le prede diventano più veloci e così anche i predatori. Forse, come nella corsa agli armamenti militari, alla fine l’elettronica e i computer diventeranno sempre più importanti, e i vincitori saranno coloro che sapranno fare meglio in questo senso. Il biologo evoluzionista Richard Dawkins ha sostenuto che gli umani hanno i computer di bordo più grandi e questo è ciò che ci aspettiamo che la selezione naturale produca. Ma non sarebbe ovvio che la corsa agli armamenti abbia come risultato gli esseri umani, quei primati onnivori fisicamente deboli e mentalmente abili. Né che le linee di preda e predatore si evolvano più in generale in tandem.
Quest’argomentazione non intende offrire risposte definitive, ma vorrebbe porre ancora un’ultima domanda. Potrebbe riapparire una teleologia vera e propria, di tipo aristotelico più scientifico, completa di forze vitali? Non c’è alcuna ragione logica per dire che ciò sia impossibile ed è per questo che Ruse pensa che sia legittimo che Nagel sollevi questa possibilità. Duecento anni fa la gente avrebbe riso dell’idea della meccanica quantistica, con tutte le sue violazioni del buon senso. Tuttavia, c’è una grande differenza: la meccanica quantistica è stata inventata perché colma una grande lacuna esplicativa. Questo sarebbe il grande errore di Nagel. La sua argomentazione a favore del ritorno all’idea di scopi e obiettivi in biologia non si basa su un ampio impegno con la scienza, ma su una rapida occhiata filosofica alla superficie. La meccanica quantistica è strana, ma funziona. Non c’è nulla nell’idea delle cause finali che possa incoraggiare un simile desiderio.
Allora a cosa serve uno stegosauro? Gli studiosi, da bravi scienziati darwiniani, possono chiedersi quale funzione adattativa svolgevano le piastre sul suo dorso. Tuttavia, l’idea di uno scopo relativa alla bestia stessa sembra piuttosto bizzarra. Non serve a nulla, semplicemente esiste in tutta la sua gloria decorativa, indecifrabile e sgranocchiante. E quest’immagine ci riporta ad un esistenzialismo darwiniano nel quale non vi sarebbe alcun reale progresso nel processo evolutivo e nel quale la nostra natura umana fabulatrice di una metafisica interpretativa di sé stessa e che ci fornisce ragioni o scopi è l’unica fonte di ogni significato o attributo assiologico. Ruse sostiene che solo accettando la nostra vera natura, evolutasi nel corso dei millenni, che l’umanità potrebbe veramente trovare ciò che sarebbe secolarmente un senso per rendere la vita umanamente significativa. Nel frattempo, possiamo enunciare che atomi, molecole, montagne, fiumi e pianeti non hanno scopi metafisici. Allora perché la vita umana ne avrebbe uno oltre alla sua voluttuosità decorativa ed inspiegabile?
______________Note _________________
1 Michael Ruse. On purpose. Princeton University Press. 2017
2 Ibidem
3 Ibidem
4 Ibidem
5 Ibidem
6 Michael Ruse. Darwinism as religion. Oxford University Press. 2016
7 Ibidem
8 Michael Ruse. A meaning to Life. Oxford University Press. 2019
9 Ibidem
10 Ibidem
11 Ibidem
12 Ibidem
13 Michael Ruse. Does life have a purpose? AEON, 24 June 2013
14 Grazie alla sua combinazione distintiva di ampie piastre cornee verticali sul dorso e lunghe punte sulla fine della coda, lo Stegosauro è uno dei dinosauri più riconoscibili. Anche chi non si interessa di dinosauri, infatti, può facilmente riconoscere il profilo di questo dinosauro. Tuttavia, l’esatta funzione di questa serie di piastre e le punte sulla coda sono ancora oggi oggetto di numerosi studi e speculazioni tra gli studiosi sebbene l’idea predominante è che le spine presenti sulla coda fossero usate principalmente per difesa contro i predatori, mentre le piastre sul dorso erano perlopiù usate come display per i membri della stessa specie, come attrazione sessuale, per far apparire l’animale più grande, e secondariamente per la termoregolazione. Vissuto circa 150 milioni di anni fa nel Giurassico Superiore nei territori occidentali degli USA e in Portogallo.
15 Michael Ruse, op. cit. 2013
16 Ibidem
17 Ibidem
18 Ibidem
19 Steven Poole. Your point is? AEON, 11 February 2023
20 Ibidem
21 Michael Ruse, op. cit. 2013
22 Michael Ruse, op. cit. 2016
23 Ibidem
24 Michael Ruse, op. cit. 2013
25 Michael Ruse, op. cit. 2017
26 Ibidem
27 Oltre a essere un attivo filosofo naturale o alchimista, Boyle dedicò molto tempo alla teologia. Fu un uomo la cui fede era riposta in un Creatore e Progettista. Inoltre, sosteneva che la sola ragione non fosse l’unico modo per giungere a un certo tipo di conoscenza, credendo in una rivelazione divina che individuò, a suo avviso, nella Parola di Dio,
28 Michael Ruse, op. cit. 2017
29 Edward Jan Dijksterhuis. Il meccanismo e l’immagine del mondo: dai presocratici a Newton. Feltrinelli, 1971
30 Michael Ruse, op. cit. 2017
31 Ibidem
32 Michael Ruse, op. cit. 2017
33 Michael Ruse, op. cit. 2019
34 Michael Ruse, op. cit. 2013
35 Michael Ruse, op. cit. 2017
36 Ibidem
37 Ibidem
38 Ibidem
39 Ibidem
40 Ibidem
41 Michael Ruse, op. cit. 2016
42 Ibidem
43 Michael Ruse, op. cit. 2013
44 Ibidem
45 Michael Ruse, op. cit. 2017
46 Michael Ruse, op. cit. 2016
47 Michael Ruse, op. cit. 2013
48 Michael Ruse, op. cit. 2019
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