Le analogie storiche raccontano il futuro?

Preoccupazioni e dilemmi si ripetono nel tempo ma non la storia

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14 Settembre, 2024
Tempo di lettura: 13 minuti

BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 35 • Settembre 2020

Le analogie ci fanno correre il rischio di ricordarci di questioni morali e politiche imbarazzanti

Davanti al dilagare del CoronaVirus19 molti commentatori sui social e sui mass media hanno cercato di proporre un’analogia con l’Influenza Spagnola. Ugualmente succede con il nazionalismo oggi in vista in tutti i continenti. Infatti, molti opinionisti vedono in esso un ritorno del fascismo. In un ambiente mediatico orientato al mercato, oggi reggente delle popolazioni sparse nel pianeta, le analogie storiche abbondano ed è difficile sapere cosa pensarne, innanzitutto quando si avverte che esse possono essere il packaging di un certo proselitismo politico. Dalla prospettiva degli studiosi della storia, le analogie storiche potrebbero risultare utili, ad esempio, per dare il via al dibattito politico e sociale circa certe questioni ma le analogie con il passato, e questo è il punto che si vuole rimarcare, sono spesso insinuate come ripetizioni storiche. Al riguardo lo storico Moshik Temkin1 in How to interpret historical analogies ci avverte che questi paragoni, così popolari, potrebbero invece essere storicamente sbagliati.

Le analogie storiche, vale a dire, fondamentalmente quelle affermazioni che sostengono che due eventi o fenomeni, separati dal tempo e, talvolta, anche dallo spazio, siano simili in modo essenziale, pervadono la nostra cultura mediatica e politica quotidiana. È un’idea molto diffusa che la storia si ripeta. Dato, però, che le analogie non sono né una caratteristica centrale del racconto storico e manco qualcosa che gli storici siano normalmente addestrati a proporre, sarebbe opportuno, quando ci propongono certe “analogie storiche”, chiederci, almeno, chi fa tali analogie e per quale motivo. Possiamo altresì chiederci come funzionano tali analogie storiche, quando prendono piede e anche perché siano così popolari. Forse in questo modo potremmo farci un’idea circa a che scopo servano e, finalmente, se ci aiutano veramente a capire meglio il mondo.

Probabilmente nessuno ama usare queste cosiddette analogie storiche più degli attori politici in malafede. Quando, ad esempio, l’amministrazione di George W. Bush preparò il popolo americano per una guerra in Iraq basata su falsità e inganni, inondò l’opinione pubblica con confronti o analogie tra Saddam Hussein e Adolf Hitler. L’idea era quella di insinuare che non potevamo permetterci ancora di “placare i dittatori” nel modo in cui la Gran Bretagna e la Francia avevano “placato” Hitler a Monaco2 il 29-30 di settembre del 1938, un anno prima che lui invadesse la Polonia e iniziasse la peggiore guerra della storia moderna. L’analogia rese “andare in guerra con l’Iraq” un requisito morale, dal momento che non andare in guerra con l’Iraq sarebbe stato come permettere la ripetizione della Germania nazista, cioè concedere all’Iraq di essere in preda a furia violenta e omicida. Anche se storicamente assurda, l’analogia dell’Iraq di Saddam con la Germania di Hitler era verosimilmente efficace politicamente, dato che i recenti attacchi dell’11 settembre 2001 (che nel 2002 la maggior parte degli americani credevano fossero collegati a Saddam) erano già stati resi analoghi all’attacco giapponese a Pearl Harbor del dicembre 1941.

Le analogie storiche possono essere tuttavia inestimabilmente illuminanti purché rimaniamo piuttosto diffidenti nei confronti di coloro che le utilizzano e delle loro ragioni. Un tale atteggiamento di cautela emerge spontaneamente se siamo coscienziosi circa il passato, vogliamo imparare da esso, rendere omaggio ai nostri predecessori e trarre le giuste lezioni da come avrebbero dovuto essere affrontati i loro tempi difficili e le loro sfide. Uno dei modi intuitivi in cui reagiamo a un presente confuso e spaventoso è, infatti, quello di rientrare nella storia che conosciamo per trovare modi che ci aiutino a rendere leggibile il momento attuale. Tutto questo è normale e naturale.

È naturale, e talvolta importante e nobile, invocare analogie o somiglianze storiche per contribuire a prendere posizione morali e normative sul mondo in cui viviamo. Se, per esempio, un leader nazionale è ovviamente venale, autocratico e rapace, cercheremo precedenti per questo, sia nella nostra storia nazionale che nella storia di altre nazioni. Se delle autorità armate attaccano ancora comunità di minoranza e i loro alleati che protestano contro la violenza e la brutalità della polizia, potremmo voler invocare eventi storici che hanno coinvolto anche la brutalità della polizia o dello Stato contro minoranze. In queste situazioni, le analogie o similitudini possono aiutare a smuovere l’opinione pubblica, a trasmettere rabbia e sgomento e a suggerire che potremmo ritrovarci ad affrontare sfide morali e politiche che altri hanno già affrontato in passato. In ogni modo, tali analogie non saranno mai completamente accurate poiché, dopo tutto, ogni evento storico è unico, ma avranno un valore richiamando alla nostra mente eventi del passato che convogliano un significato preoccupante per le persone nel presente.

Differenza tra analogia storica e raffronto storico

Le analogie storiche non sono le stesse cose dei raffronti né dei paragoni storici. Un parallelo o confronto storico potrebbe essere diretto, oppure senza ambiguità, tra due eventi che sono intrinsecamente simili. Disastri naturali, come i terremoti o gli uragani, possono verificarsi in momenti diversi della storia e non dipendono necessariamente dall’attività umana. Ma interagiranno in modo diverso con la società date le mutevoli circostanze sociali, la leadership politica e lo sviluppo economico. In questo senso, un uragano che devasta una borgata medievale sarà diverso dall’uragano delle stesse dimensioni e della stessa velocità che colpisce una città moderna. Il raffronto lo facciamo tra gli effetti di e la risposta a una coppia di eventi altrimenti simili. Naturalmente, possiamo anche fare un confronto tra la frequenza e la forza degli uragani di oggi e quelle degli uragani in passato, fino a stabilire un legame tra disastri naturali e riscaldamento globale antropogenico. Allo stesso modo, mentre la pandemia di COVID-19 si diffondeva nei mesi scorsi in tutto il mondo, la pandemia influenzale del 1918, vale a dire La Spagnola, emerse come uno strumento per aiutarci a riflettere attraverso la sfida. Le malattie sono diverse ma il corpo o l’organismo umano è praticamente lo stesso e le pandemie, per loro natura, hanno caratteristiche ripetitive. Un confronto tra le due crisi sanitarie si concentrerà sui cambiamenti nel mondo che hanno avuto luogo nel secolo scorso, in particolare nella politica della sanità pubblica.

Le analogie storiche, al contrario, sono per natura un po’ metaforiche, non semplicemente un esempio ripetuto di un fenomeno. Quando facciamo un’analogia storica, al contrario di un confronto, prendiamo diversi tipi di eventi e suggeriamo che siano simili e che possano dirci qualcosa di essenziale l’un dall’altro. Per questo motivo, le analogie sono anche più controverse. Poiché la cultura politica mediatica odierna è cultrice di semplificazione, sensazionalismi, classismo, razzismo e di leadership scorretti e inefficaci, siamo, di conseguenza, costantemente sottoposti ad analogie offensive, stupide o ottuse che non vale la pena riferirne qui. Concentriamoci invece su quelle occasioni in cui le analogie storiche suonano vere, cioè quando sono più potenti e provocatorie.

Le occasioni in cui le analogie storiche suonano vere

Appena più di un anno fa, nel giugno 2019, quando la deputata democratica americana Alexandria Ocasio-Cortez fece riferimento ai campi di detenzione del Servizio di Immigrazione degli Stati Uniti in Texas e altrove, dove i bambini spaventati erano stati separati dai loro genitori, spesso deportati senza la prole, come ‘campi di concentramento, generò un’ondata di indignazione e proteste pubbliche. Ocasio-Cortez usò un termine che non solo era direttamente descrittivo, ma, a suo parere, invocò un’analogia con i campi di concentramento nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. L’analogia in sé era imperfetta e non ci insegnava nulla di nuovo sulla storia ma catturava qualcosa di essenziale sul male banale che rende il legame tra gli anni ’40 e la nostra epoca così plausibile e allarmante.

Ocasio-Cortez, come i molti storici che hanno attestato i meriti della sua dichiarazione, sa perfettamente che non viviamo nella Germania nazista e che i migranti in Texas non vengono mandati nelle camere a gas. Ma la sua analogia, che fece implicitamente, dal momento che non ha mai menzionato i nazisti, ci ha riportato chiaramente alla memoria che i campi di concentramento hanno una lunga storia, che include e precede il genocidio nazista, che gli Stati Uniti non sono estranei alla storia dei campi di concentramento e che i suoi Immigration and Custom Enforcement (ICE) detention camps [campi di detenzione responsabili del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione] sono in realtà l’ultima iterazione di quella storia globale. Ci ha messo pericolosamente a rischio di ricordare altresì che i crimini storici del fascismo avevano avuto luogo mentre la maggior parte del pubblico aveva continuato a vivere la propria vita in modi normali e mondani, forse in maniera assai simile a noi oggi. La sua analogia fu anche una sorta di invito all’azione. Infatti, interpretare i campi di detenzione dell’Immigration and Custon Enforcement come campi di concentramento significa rifiutarsi di minimizzarli e vederli, dunque, come moralmente inaccettabili, con tutto ciò che questo comporta.

Così le analogie storiche, fatte in buona fede, possono contribuire a fare luce su punti cruciali del presente e aiutarci a chiarire la nostra posizione su questioni morali e politiche. Il problema incomincia quando iniziamo a sostituire le analogie storiche con l’analisi storica o, ancora più problematicamente, quando si arriva a credere che la storia “si ripeta”. Questo tipo di cliché è diventato una rovina del nostro discorso pubblico.

Possiamo dire che i campi di detenzione dell’Immigration and Custon Enforcement fanno parte della storia più lunga dei campi di concentramento3 e che evocano la storia dei regimi fascisti. Non possiamo dire, però, che il fascismo europeo degli anni tra le due guerre sia la ragione per cui gli Stati Uniti d’America abbiano campi di detenzione [concentramento] nel 2020, né che il fascismo europeo costituisca la ragione per la quale l’ICE si comporti come fa oggi. Neppure si potrebbe dire che l’ICE trovi una spiegazione storica in una qualche “tradizione” degli Stati Uniti. La xenofobia e il nazionalismo, che costituiscono lo sfondo ideologico di questi campi di internamento dei migranti, non sono cose fisiche che viaggiano nel tempo. Essi non derivano da una facoltà di scelta degli scopi del proprio agire. Per spiegare i campi di detenzione dell’ICE, ci si deve ricorrere alla storia recente, considerando i suoi costumi e il suo potere come prodotti di un processo storico. Di conseguenza, ci si dovrebbe chiedere, in primo luogo, che cosa causa questa migrazione? Ci si dovrebbe chiedere altresì quale responsabilità si assumono gli Stati Uniti d’America, da parte loro, per l’arrivo di disperati migranti o richiedenti asilo alle sue frontiere? Altre domande da rispondere sarebbero tra le altre, chi ha creato, finanziato e potenziato ICE, e per quali motivi? Il razzismo americano del passato non è una spiegazione. Per parafrasare la storica Barbara Fields, il razzismo è qualcosa che creiamo di nuovo, ogni giorno. Stando a questa considerazione, si impone anche un’altra domanda: chi, o cosa, crea razzismo ai nostri giorni? In quali condizioni prosperano il razzismo e la xenofobia? Quest’è una domanda importante a cui dare risposta.

Un altro esempio per illustrare in prospettiva storica l’utilizzo improprio di un’analogia storica è il caso della rivoluzione russa del 1917 e l’ascesa dei bolscevichi al potere. Ci sono studiosi che hanno sottolineato le somiglianze tra le rivoluzioni attraverso lo spazio e il tempo o avrebbero anche mostrato come una rivoluzione avrebbe potuto contribuire a crearne una successiva. Le persone alla ricerca di precedenti storici per l’evento rivoluzionario del 1917 in Russia potrebbero concentrarsi, per esempio, sulla Rivoluzione Francese iniziata nel 1789. Potrebbero plausibilmente indicare le dinamiche sociali, economiche, intellettuali e politiche che avrebbero portato alla caduta della monarchia francese e alla possibilità che simili dinamiche si svolgessero nella scomparsa dello zar russo. Potrebbero evidenziare i modi in cui i rivoluzionari russi si siano ispirati e si siano modellati seguendo i rivoluzionari francesi del XVIII secolo e come le idee della rivoluzione precedente permeavano quella successiva.

Certamente, sui due eventi si possono costruire risonanze storiche ma nessuno storico serio considererebbe la Rivoluzione Francese una spiegazione del perché la Rivoluzione Russa fosse avvenuta o per come si fosse svolta. Né avrebbe la pretesa che, poiché la Rivoluzione Francese abbia prodotto alcuni risultati, la Rivoluzione Russa avrebbe dovuto produrre esiti simili. Tranne, forse, ad un alto livello di astrazione, molto poco di quello che si è verificato alla fine del XVIII secolo in Francia ha avuto alcun impatto sulle azioni della maggior parte dei russi all’inizio del XX secolo. Per la stragrande maggioranza dei russi nel 1917, la Francia nel 1789 avrebbe potuto essere un altro pianeta.

Invece di guardare semplicemente ad un’altra grande rivoluzione, una comprensione del trionfo del bolscevismo richiederebbe un’analisi della storia russa stessa, quanto indietro si vuole risalire veramente dipendere dal singolo storico, ma probabilmente porrebbe la massima enfasi sugli sviluppi in Russia e intorno a qualche momento prima dello scoppio della rivoluzione: i vari fallimenti dell’irrigidito e anacronistico regime zarista, le perdite nella prima guerra mondiale e la precedente umiliante sconfitta nella guerra russo-giapponese del 1904-05, inoltre la povertà schiacciante dei contadini, l’agitazione tra la crescente classe operaia industriale urbana, un’intensificata domanda di partecipazione democratica e, per di più, la leadership e le capacità strategiche dei bolscevichi stessi.

Le analogie storiche non sono algoritmi che possano raccontare il futuro

Spesso vediamo nella sfera mediatica la diffusa invocazione di analogie storiche per analizzare il presente e, talvolta, con la speranza di prevedere il futuro. Questa modalità di analogia, di comunicazione della connessione tra passato e presente, stando, come precedentemente segnalato, allo storico Moshik Temkin, non appartiene all’indagine storica ma trova origine in motivazioni politiche. La differenza tra il modo in cui gli storici imparano e praticano il loro mestiere e come le analogie storiche caratterizzano il mondo pubblico e politico è abbastanza chiara. Gli storici raramente usano analogie nelle loro indagini e quando commentano affari di attualità è spesso per discutere di qualche analogia che ha guadagnato tensione tra gli opinionisti e la classe politica. Inoltre, le analogie storiche si dovrebbero intendere non solo come discorso politico (nel bene e nel male) ma anche, se non apertamente correlato, come un fenomeno guidato dal mercato.

Le analogie storiche tendono a dare il doppio falso conforto. Da una parte ci danno il falso conforto di pensare di sapere in anticipo cosa accadrà, poiché tutto quello che dovremmo fare nella prospettiva dell’analogia sarebbe guardare all’indietro per scoprire cosa accadrà. Da un’altra parte ci danno il falso conforto di pensare di sapere che il finale sarà quello che accoglieremo con favore dal momento che tendiamo a scegliere analogie per non condurre alcun vero studio ma al fine di confermare quello che già pensiamo stia succedendo. Tutto il pensiero storico e il racconto storico si basano sul presente poiché è lì che siamo sempre e sono radicati in una visione del mondo contemporanea. Ma le analogie storiche nella sfera pubblica sono spesso poco più che dichiarazioni politiche mascherate. Nascono da un’appassionata ambizione sui risultati e si concedono l’idea che possono, di fatto, anticipare il futuro.

Guardare ai precedenti per cercare di prevedere ciò che potrebbe accadere in futuro è addirittura una forma di fuga che si allontana da un esame degli sviluppi storici che effettivamente ci hanno portato a dove siamo. Si possono annoverare casi da tutto il mondo per intravedere questa dinamica. In India, l’autoritarismo del primo ministro Narendra Modi non può essere spiegato guardando al periodo della cosiddetta “Emergenza” della metà degli anni ’70, quando l’allora leader Indira Gandhi sospese le libertà democratiche.4 Invece, a pensare storicamente, si dovrebbe guardare al più recente aumento dell’ultranazionalismo indù, alle tensioni con il Pakistan e agli effetti sociali delle disuguaglianze economiche in un’economia di libero mercato. Negli Stati Uniti, per rimanere nell’ambito degli esempi in voga nella scena politica mediatica, i precedenti presidenti hanno meno da dirci, storicamente, dell’ascesa di Trump rispetto ai significativi eventi storici e fenomeni del recente passato, come il crollo delle industrie, la xenofobia e il razzismo, l’aumento delle disuguaglianze e il culto del denaro e della celebrità.

Dunque, i casi elencati, in cui le analogie suonano popolarmente vere, consentono di riepilogare, segnalando che le analogie storiche possono essere utili strumenti per collegare il passato al presente, ma sono solo uno strumento che la storia ci fornisce. Le analogie storiche possono essere un ottimo punto di partenza per la discussione e il dibattito. Al loro meglio, illuminano la storia in modi nuovi e creano la voglia di saperne di più sul passato. Esse non sostituiscono l’analisi storica. Per di più, le analogie storiche non sono algoritmi e non possono raccontare il futuro; la storia non si ripete. Le analogie storiche possono chiarire a che punto siamo sulle questioni morali, usando esempi del passato per fare un punto sul presente, tenendo in considerazione che le analogie storiche dovrebbero essere intese principalmente come dichiarazioni politiche in un ambiente mediatico orientato al mercato.

Dobbiamo riconoscere la limitazione di tutte le analogie del passato. La storia non si ripete e questo significa che tutto ciò che accade è nuovo in qualche modo fondamentale. Le analogie sono buone in quanto sono utili per aiutarci a cominciare a pensare storicamente ma pensare storicamente non significa trovare eventi passati discreti che potrebbero assomigliare alle cose che accadono oggi, ma piuttosto cercare di capire come il mondo è venuto ad essere quello che è – e come potrebbe essere diverso.

L’unica comunanza tra tutti gli eventi storici (non c’è bisogno di analogie specifiche) sono le persone, noi. Se ci consideriamo attori storici, i prodotti del passato e i produttori del futuro, lo studio della storia allora ci insegna abbastanza sul mondo che abbiamo creato. Impariamo che tutti i nostri principali problemi sono fatti dall’uomo e, nella nostra ricerca di soluzioni, possiamo guardare al passato per trovare ispirazione e idee. Non c’è bisogno di temere il cosiddetto presentismo.5 Alcune delle migliori opere della storia riconoscono il presente, parlano dei nostri problemi contemporanei e cercano di capire come siamo arrivati alle situazioni presenti. Anche quando gli eventi sono troppo remoti, l’analisi storica getta luce sul perché ci comportiamo come facciamo e su come prendiamo decisioni. In questo senso, leggere la storia dell’impero romano o della rivoluzione industriale oppure della conquista spagnola dell’America, plasma il nostro pensiero sul nostro tempo e su noi stessi.

Infine, anche se la storia non si ripete, c’è qualcosa da dire su opere che mostrano come temi, preoccupazioni e dilemmi si ripetano nel tempo. Le preoccupazioni materiali, la concorrenza economica, le lotte di leadership, le tensioni geopolitiche, l’oppressione e la rivolta, sono tutte questioni vecchie quanto la specie umana.

______________Note _________________

1 Moshik Temkin ha insegnato storia Internazionale e degli Stati Uniti d’America e anche storia delle politiche pubbliche presso l’Università Tsinghua di Pechino, l’Università di Harvard in Massachusetts, e l’Ecole des Hautes études en Sciencess a Parigi. È autore di The Sacco-Vanzetti Affair: America on Trial, 2011. Scrive per Public Affairs.

2 La conferenza e accordo di Monaco indica un incontro internazionale che si tenne dal 29 al 30 settembre 1938, fra i capi di governo di Regno Unito, Francia, Germania e Italia. L’oggetto della conferenza, avvenuta circa un anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, fu la discussione delle rivendicazioni tedesche sulla regione dei Monti Sudeti, posta in territorio cecoslovacco, ma abitata prevalentemente da popolazione di etnia tedesca (i Tedeschi dei Sudeti), e si concluse con un accordo che portò all’annessione di vasti territori della Cecoslovacchia da parte dello stato tedesco. Poiché i rappresentanti cecoslovacchi non vennero fatti partecipare alle trattative, il trattato venne da essi etichettato come “diktat di Monaco”.

3 Il campo di concentramento (o internamento) è una struttura carceraria all’aperto adatta alla detenzione di civili e/o militari. Si tratta solitamente di una struttura provvisoria, adatta a detenere grandi quantità di persone, in genere prigionieri di guerra, destinati a essere scambiati o rilasciati alla fine del conflitto. Comunemente è formato dalle baracche o container disposti ordinatamente, contenenti dormitori, refettori, uffici e analoghe costruzioni necessarie alla reclusione dei prigionieri, e circondate da reticolati di filo spinato o altri tipi di barriere. Il perimetro del campo era sorvegliato da ronde di guardie armate. I metodi e le finalità di sistematica eliminazione dei prigionieri, attuati in queste strutture nel XIX secolo nella guerra di secessione americana da ambedue le parti in conflitto, e nel XX secolo, soprattutto da parte degli inglesi durante la seconda guerra boera, nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica negli anni intorno alla seconda guerra mondiale, hanno fatto sì che nel linguaggio comune campo di concentramento sia spesso assimilato a campo di sterminio, che ne è invece un sottotipo anomalo. Il trattamento di prigionieri civili e militari nei campi di internamento in tempo di guerra è regolato dalla III e IV Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949. I campi d’internamento sono tuttora usati da unità politiche in guerra, regimi illiberali o come soluzione estrema nella regolazione dei flussi migratori verso alcuni paesi (campo per rifugiati).

4 In India, ” l’emergenza ” si riferisce ad un periodo di 21 mesi 1975-1977 quando il primo ministro Indira Gandhi aveva uno stato di emergenza dichiarato in tutto il paese. Ufficialmente rilasciata dal Presidente Fakhruddin Ahmed Ali ai sensi dell’articolo 352 della Costituzione a causa del prevalente “disturbo interno”. L’ordine consentiva al Primo Ministro il potere di governare per decreto, e di sospendere elezioni e libertà civili. Per gran parte della emergenza, la maggior parte degli avversari politici di Gandhi furono imprigionati e la stampa censurata. L’emergenza è uno dei periodi più controversi della storia dell’India indipendente. La decisione finale di imporre una situazione di emergenza era stata proposta da Indira Gandhi, concordata col presidente dell’India, e successivamente ratificato dal Consiglio dei Ministri e dal Parlamento (da luglio ad agosto 1975), in base alla logica che c’erano minacce interne ed esterne imminenti allo stato indiano.

5 Nella filosofia del tempo, il cosiddetto presentismo è la convinzione che esista solo il presente, mentre il futuro e il passato sono irreali. Le entità “passato” e “futuro” devono, quindi, essere considerate come costrutti logici o finzioni. La “semplificazione presentista del tempo” si riscontrerebbe anche nella post-verità, che si vale di “temporalità atrofizzate in una sorta di permafrost astorico e gaudente (…) dentro un sistema irriflesso istintivo e istantaneo come quello dei flussi monetari, mercantili, consumistici ed emozionali”.

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