BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XI • Numero 43 • Settembre 2022
I cloud contribuirebbero al cambiamento climatico antropocene
Nel nome di una consapevolezza per affrontare il surriscaldamento globale e la crisi climatica che ne consegue, siamo, insistentemente, sollecitati a digitalizzarci, a trasferire ai cosiddetti CLOUD ogni informazione e ricordo riguardo la nostra vita, futili o importanti che siano queste notizie e reminiscenze. Non farlo ci metterebbe a rischio di fare parte di schiere sociali che non mostrerebbero alcuna sensibilità nei confronti degli alberi né della cura del pianeta. In persona, mi ritrovo in questo disagio, imbarazzo che mi ha spinto ad informarmi sulla questione dei cloud salva-pianeta. Con grande sorpresa, però, ho trovato che perfino il prestigioso centro della cultura tecnologica evoluta dell’establishment, il Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha pubblicato studi1 che espongono considerazioni preoccupanti sugli impatti ambientali dei servizi cloud.2
Queste considerazioni di accademici, apparentemente controverse, però, non dovrebbero indurci a pensare che vi sia obbligatoriamente un nascondimento intenzionale della questione. Gli stessi studiosi della questione presso MIT ci assicurano che “i costi ambientali dell’onnipresente elaborazione e archiviazione dati nella vita moderna siano oscurati, semplicemente, dalla pura complessità delle infrastrutture e delle catene di approvvigionamento coinvolte perfino nelle transazioni digitali più semplici.”3
Gli studiosi si stanno chiedendo non solo in che modo la computazione e la digitalizzazione contribuiscono al riscaldamento del pianeta. Si domandano, coerentemente, quali sarebbero alcuni degli ostacoli o dei limiti ecologici che dovrebbero essere superati per accogliere un Cloud in continua espansione e affamato di carbonio nell’era della capacità di archiviazione, apparentemente infinita, consentita, diligentemente, dal Cloud o, se si preferisce, dalla NUVOLA INFORMATICA.4 Infatti, qualche ricerca accademica si sta svolgendo, indagando, precisamente, come si manifestano questi impatti materiali nella vita di tutti i giorni, dietro le quinte, dove server, cavi in fibra ottica e tecnici facilitano i servizi cloud.
In proposito, quest’esposizione non è molto più di una recensione del caso di studio The Cloud Is Material: On the Environmental Impacts of Computation and Data Storage dell’antropologo Steven Gonzalez Monserrate, dottorando al MIT,5 per cui i miei interventi, in quanto curatore, cercano di riportare sempre la voce di questo ricercatore. Di fatto, questo caso di studio si basa sulla ricerca etnografica di prima mano nei data center – vaste librerie6 di server di elaborazione e gestione del traffico di informazioni che facilitano qualsiasi cosa, dall’e-mail al e-commerce – per identificare alcuni degli impatti ambientali, di vasta portata e intricati, delle infrastrutture di elaborazione e archiviazione di dati, vale a dire dei cloud.
Seguendo la tecnica etnografica, la ricerca di Gonzalez Monserrate esamina una serie di racconti delle esperienze dei tecnici nei server, cioè della gente che lavora effettivamente nei cloud, per illustrare esempi sul campo di fattori materiali ed ecologici che permeano la vita quotidiana nel cloud. Questi esempi di fattori materiali includono il condizionamento dell’aria e la gestione termica, il ciclo dell’acqua e lo smaltimento dei rifiuti elettronici. Facendo attenzione alla cultura della pratica sul posto di lavoro e ai comportamenti e alla formazione dei tecnici nei data center, questo case study rivela che il cloud non è completamente automatizzato, né è iper-razionale. L’emozione, l’istinto e il giudizio umani sono arruolati per mantenere in funzione i server. Questo caso di studio si chiude con racconto speculativo che passa da vari impatti locali a una struttura planetaria, delineando alcuni dei modi particolari in cui i cloud computing contribuiscono al cambiamento climatico antropocene.
Materializzando l’immateriale: descrizione di un cloud
Nell’introduzione della pubblicazione dell’avanzamento della sua ricerca etnografica7 su ciò che denominerei “la gente del cloud”, Gonzalez Monserrate ci offre una descrizione emblematica di cosa si esperisce entrando in un cloud: Gli schermi si illuminano con il flusso delle parole. Forse sono e-mail, scarabocchiate frettolosamente su dispositivi intelligenti o messaggi carichi di emoji scambiati tra amici o famiglie. Su questo stesso fiume del digitale, milioni di persone si accalcano per abbuffarsi dei loro programmi televisivi preferiti, per guardare pornografia in streaming o per entrare nei mondi tentacolari dei giochi di ruolo multigiocatore online (MMORPG)8 o, semplicemente, per cercare il significato di una parola oscura o la posizione del più vicino centro di test COVID-19. Qualunque sia la nostra domanda, desiderio o scopo, qualunque sia ciò che Internet fornisca, dai video di un-boxing9 ai blog fai-da-te, tutto ciò è contenuto in stringhe di bit infinitamente complesse. Mentre viaggiano attraverso il tempo e lo spazio alla velocità della luce, sotto i nostri oceani, in cavi in fibra ottica, più sottili dei capelli umani, questi densi pacchetti di informazioni, istruzioni per pixel o caratteri o fotogrammi codificati in uno e zero, si dipanano per creare l’impiallacciatura [o interfaccia digitale] davanti a noi ora. Infatti, le parole che ora stai leggendo in quest’istante sono un punto di ingresso in un regno etereo che molti chiamano la Nuvola o più semplicemente il Cloud.10
Mentre in gergo tecnico il “cloud” potrebbe riferirsi al raggruppamento di risorse informatiche su una rete, nella cultura popolare “cloud” è arrivato a significare e comprendere l’intera gamma di infrastrutture che rendono possibile l’attività online, da Instagram a Hulu a Google Drive, come segnala Tung-Hui Hu nel suo studio circa la preistoria del cloud.11 Come un cumulo gonfio che fluttua attraverso un cielo azzurro, rifiutandosi di mantenere una forma o una forma solida, la nuvola del digitale è sfuggente, i suoi meccanismi interni in gran parte misteriosi per il grande pubblico, un esempio di ciò che il cibernetico del MIT Norbert Weiner una volta chiamò “scatola nera.”12 Ma proprio come le nuvole sopra di noi, per quanto informi o eteree possano sembrare, sono in realtà fatte di materia – molecole d’acqua in vari stati di condensazione e cristallizzazione – anche la Nuvola del digitale è inesorabilmente materiale.
Per arrivare alla questione della materialità del cloud e delle condizioni dei lavoratori al suo interno dobbiamo svelare le spire di cavi coassiali, tubi in fibra ottica, antenne, condizionatori d’aria, unità di distribuzione di energia, trasformatori, tubi dell’acqua, server di computer e altro ancora, come segnala Louise Amoore nel suo studio circa le geografie del cloud.13 Dobbiamo occuparci dei suoi flussi materiali di elettricità, acqua, aria, calore, metalli, minerali ed elementi di terre rare che stanno alla base delle nostre vite digitali. In questo modo, la Nuvola non è solo materiale, ma è anche una forza ecologica. Man mano che continua ad espandersi, il suo impatto ambientale aumenta, anche se gli ingegneri, i tecnici e i dirigenti dietro le sue infrastrutture si sforzano di bilanciare redditività e sostenibilità. Stando all’esperienza accumulata nel caso di studio riferito,14 in nessun luogo questo dilemma sarebbe più visibile che nei muri delle infrastrutture in cui risiede il contenuto del Cloud: le fabbriche di librerie [in senso informatico] in cui vengono archiviati i dati e la potenza di calcolo viene raggruppata per mantenere a galla le nostre applicazioni cloud, come riferisce lo storico Nathan Ensmenger.15
Questo caso di studio16 ci porta nel cuore pulsante del digitale, nei corridoi intermittenti dei data center (o delle server farm) che rendono possibile l’industria digitale. Come antropologo, Gonzalez Monserrate si avvicina allo studio del Cloud in modo complessivo, prendendo sul serio gli aspetti tecnologici e materiali del calcolo e dell’archiviazione dei dati, mentre si occupa anche dei modi in cui il Cloud è una costruzione sociale e culturale. In quanto segue, lui attinge a cinque anni di ricerca qualitativa e lavoro etnografico17 sul campo, cioè nei data center nordamericani per illustrare alcuni dei diversi impatti ecologici dell’archiviazione dei dati e alcuni dei fattori socioculturali che influenzano la sostenibilità delle infrastrutture digitali. Fornisce anche un’ampia panoramica introduttiva di parte della letteratura in rapido movimento e in evoluzione sugli impatti materiali del calcolo e dei data center, panoramica offerta dalla prospettiva di una vasta gamma di discipline tra cui informatica, ingegneria, studi sui media, sociologia e antropologia.
La Nuvola carbonivora
Tra i racconti raccolti nello studio etnografico di Steven Gonzalez Monserrate circa le esperienze dei tecnici nei cloud c’è il seguente episodio18 relativo ad un incidente di surriscaldamento o fuga termica in un cloud:
Sono le quattro del mattino quando si verifica l’incidente. In quel momento, Gonzalez Monserrate è accovacciato sul pavimento di uno dei corridoi di contenimento del data center, ai suoi lati ci sono computer allineati come pile di libri in una biblioteca. Il clamore dei ventilatori del server gli rende quasi impossibile sentire Tom, il tecnico senior che sta seguendo, spiegargli come aprire una piastrella del pavimento difettosa: con un dispositivo specializzato, rimuovo la piastrella quadrata bianca dai cardini, mettendo attenzione alle minuscole perforazioni incise sulla sua superficie, punti di ingresso progettati per aiutare l’aria fresca a salire da una vasta cavità pressurizzata sotto di noi chiamata “plenum”. Metto da parte la piastrella, sentendo una scarica di freddo solleticarmi il naso mentre una raffica di freddo si alza dal plenum esposto sotto il pavimento. Vado a sostituire la piastrella, usandone una con più tacche per migliorare il flusso d’aria a questo particolare gruppo di apparecchiature informatiche ad alta densità. È allora che sento gli allarmi. In mezzo a un mare di luci lampeggianti verdi e blu, un intero rack di computer brilla improvvisamente di giallo e poi, dopo pochi secondi, di un rosso presagio. In quell’istante, il panico si diffonde sul viso di Tom, arrossendo mentre si arrampica per contenere la calamità che si sta svolgendo intorno a loro.
“Si stanno surriscaldando“, dice Tom, dopo aver ispezionato i sensori termici, con il sudore che gli gocciolava dalla fronte. Gonzalez Monserrate sente il calore brulicare nell’aria. Il flusso di calore penetra nei server più velocemente di quanto i dissipatori di calore stampati sui loro circuiti stampati19 possano diminuire, più velocemente di quanto le ventole possano espellere l’aria calda riciclata in un circuito di riscaldamento incontrollato. Inizia la sequenza di spegnimento automatico e Tom impreca, ricordandomi che ogni minuto di fermo macchina, di interruzione del servizio, può costare all’azienda molte migliaia di dollari. Nel giro di due minuti, tuttavia, le tre enormi unità di condizionamento dell’aria che erano state inattive in uno stato di standby si attivano alla massima potenza, inondando la stanza di un gelo artico e riportando l’ordine nella scena caotica.
L’evento raccontato sopra descrive un episodio che i tecnici dei data center chiamano “evento di fuga termica”, un guasto a cascata dei sistemi di raffreddamento che interrompe il funzionamento dei server che elaborano, archiviano e facilitano tutto online. Gli attriti molecolari dell’industria digitale, come mostra questo esempio, proliferano sotto forma di calore indisciplinato. I relitti e le cianfrusaglie delle nostre query20 e transazioni digitali, la raffica di elettroni che svolazzano, riscaldano l’aria, come sostiene Nicole Starosielski nel suo studio sulle culture termiche dei media.21 Il calore e il gas serra, derivato dalla combustione di carbonio, cioè l’elemento principale delle strutture molecolare tipiche della vita,22 sono il prodotto di scarto della computazione e, se lasciati incontrollato, diventa un ostacolo al funzionamento della civiltà digitale, come riportano Velkova, Wahlroos, Junaid Shuja e i loro gruppi di ricerca circa la sostenibilità dei servizi cloud.23 Il calore deve quindi essere incessantemente abbattuto per mantenere il motore del ronzio digitale in uno stato costante, ventiquattro ore al giorno, tutti i giorni.
Per controllare questa minaccia termodinamica, i data center si affidano in modo schiacciante all’aria condizionata, un processo meccanico che refrigera il mezzo gassoso dell’aria, in modo che possa spostare o sollevare il calore pericoloso dai computer, come segnala Hu.24 Oggi, i condizionatori d’aria per sale computer (CRAC) o i dispositivi di trattamento dell’aria per sale computer (CRAH) assetati di energia sono elementi fondamentali anche dei data center più avanzati. In Nord America, la maggior parte dei data center trae energia da reti elettriche “sporche”, in particolare il Ashburn’s Data Center Alley in Loudoun, Virginia, sito del 70% del traffico Internet mondiale nel 2019, come documentano Donaghy, Henderson, Jardin ed Özden-Schilling.25 Per raffreddare, il cloud brucia carbonio,26 vale a dire distrugge l’elemento principale delle strutture molecolare tipiche della vita, generando e rilasciando gas serra, ciò che Jeffrey Moro chiama una “ironia elementare”.27 Nella maggior parte dei data center oggi, il raffreddamento rappresenta oltre il 40% del consumo di elettricità, come puntualizzano Gary Cook e il suo gruppo di ricerca. 28
Stando alla narrativa di Steven Gonzalez Monserrate,29 alcuni dei data center “iper-scalabili“30 più avanzati, come quelli gestiti da Google, Facebook e Amazon, si sarebbero impegnati a trasferire i loro siti a emissioni di carbonio neutrali tramite la compensazione del carbonio e investimenti in infrastrutture di energia rinnovabile come l’eolico e il solare, mentre molti data center su scala ridotta non hanno le risorse e il capitale per perseguire iniziative di sostenibilità simili, come segnala la ricerca di Mél Hogan.31 I data center tradizionali su scala ridotta sarebbero stati spesso allestiti all’interno di edifici più vecchi che non sarebbero ottimizzati per esigenze in continua evoluzione di alimentazione, raffreddamento e capacità di archiviazione dei dati. Dall’emergere delle strutture hyperscale,32 molte aziende, università e altri soggetti che gestiscono i propri data center su piccola scala avrebbero iniziato a trasferire i propri dati a hyperscaler o strutture di colocation cloud,33 citando come motivazione la riduzione dei costi energetici. Secondo un rapporto del Lawrence Berkeley National Laboratory, se l’intero Cloud si spostasse su strutture iper-scalabili, il consumo di energia potrebbe diminuire fino al 25%.34 Senza alcun ente di regolamentazione o agenzia per incentivare o imporre un tale cambiamento nella configurazione infrastrutturale del capitalismo IT, ci sarebbero altre soluzioni che sarebbero state proposte per arginare il problema del consumo di carbonio del Cloud. Alcuni avrebbero proposto di trasferire i data center in paesi nordici come l’Islanda o la Svezia, nel tentativo di utilizzare l’aria fresca dell’ambiente per ridurre al minimo l’impronta di carbonio, per usufruire del “free cooling“, come segnala la ricerca di Alix Johnson.35 Tuttavia, i problemi di latenza del segnale di rete renderebbero questo sogno di un paradiso per i data center ecologici in gran parte insostenibile per soddisfare le esigenze di elaborazione e archiviazione dei dati del resto del mondo.
Di conseguenza, il cloud ora ostenterebbe un’impronta di carbonio maggiore rispetto al settore aereo, come segnalano Donaghy, Henderson e Jardin.36 Un singolo data center può consumare l’elettricità equivalente a cinquantamila case, come riporta la ricerca di Hu.37 A 200 terawattora (TWh) all’anno, i data center consumano collettivamente più energia di alcuni stati-nazione, come riportato da Burrington, Holt, Vonderau ed altri.38 Oggi, l’elettricità utilizzata dai data center rappresenta lo 0,3% delle emissioni complessive di carbonio e se estendiamo la nostra contabilità per includere dispositivi collegati in rete come laptop, smartphone e tablet, il totale si sposta al 2% delle emissioni globali di carbonio, come la stessa Ingrid Burrington documenta.39 Si tenga presente, però, che queste cifre sono tutt’altro che complete. Dato che i dati richiesti per calcolare le emissioni di carbonio sono spesso proprietari, studiosi e attivisti possono solo attingere a documenti e dati disponibili pubblicamente forniti da aziende come Amazon e Google, come segnalano Jonathan Koomey e Eric Masanet.40
Perché tanta energia? Oltre al raffreddamento, il fabbisogno energetico dei data center è enorme. Per rispettare la promessa fatta ai clienti che i loro dati e servizi cloud saranno disponibili sempre e ovunque, i data center sono progettati per essere iper-ridondanti: se un sistema si guasta, un altro è pronto a prenderne il posto in qualsiasi momento, per prevenire un’interruzione nelle esperienze degli utenti. Come i condizionatori d’aria di Tom inattivi in uno stato di basso consumo, pronti a salire di giri quando le cose si fanno troppo calde, il data center è una matrioska di ridondanze: sistemi di alimentazione ridondanti come generatori diesel, server ridondanti pronti a prendere il controllo dei processi di calcolo se altri diventassero inaspettatamente non disponibile e così via. In alcuni casi, solo il 6-12% dell’energia consumata viene dedicata a processi computazionali attivi, come stima lo studio di James Glanz.41 Il resto è destinato al raffreddamento e alla manutenzione di catene su catene di fail-safe42 ridondanti per prevenire costosi tempi di fermo.
Detto questo, ci sono due processi computazionali eseguiti dai server che sono particolarmente ad alta intensità energetica e sono di crescente interesse per studiosi, attivisti e professionisti del settore dei data center: 1) machine learning e 2) mining di criptovalute. In uno studio condotto presso l’Università del Massachusetts, ad Amherst, la dottoranda Emma Strubbel avrebbe stabilito che l‘addestramento di una manciata di modelli di intelligenza artificiale può emettere oltre 626.000 libbre di anidride carbonica, tanto quanto cinque automobili americane nel corso della loro vita.43 In questo modo, la computazione è metabolica: per massimizzare i ritorni sui processi computazionali, gli input energetici devono corrispondere all’intensità nello stesso modo in cui le tonnellate di raffreddamento (BTU) devono essere abbinate alle curve elettriche (Kwh) per prevenire l’instabilità termica. Ironia della sorte, sostiene Monserrate,44 i progressi nell’apprendimento automatico avrebbero portato a innovazioni di sostenibilità in numerosi settori e avrebbero fatto avanzare la ricerca di supporto per i programmi ambientalisti., come documenterebbero gli studi di Peter Dauvergne.45 La domanda, quindi, diventa: come può l’IA ridurre la propria impronta ecologica? Gli algoritmi di apprendimento automatico possono essere progettati per funzionare con una maggiore efficienza energetica? Alcuni studiosi e professionisti stanno lavorando per una migliore comprensione di come l’apprendimento automatico contribuisca alle emissioni di gas serra, in modo che i metodi possano essere sviluppati da un punto di vista progettuale e politico per mitigare tali effetti, come argomenta Payal Dhar e Lynn Kaack e il suo gruppo di ricerca.46
Come l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico, l’estrazione di criptovaluta è un processo ad alta intensità di calcolo con un impatto ecologico in aumento, stando alle previsioni di Elizabeth Kolbert.47 Data la crescente complessità computazionale delle operazioni blockchain, il minatore di Bitcoin medio non è più uno studente del MIT che sperimenta le GPU in un dormitorio del campus universitario, ma una persona con risorse sufficienti per permettersi computer specializzati e ad alte prestazioni e il costoso capitale necessario per raffreddare e ospitarli, come segnala Kim Martineau nel suo studio delle impronte di carbonio delle attività dei cloud.48 I requisiti energetici per la produzione di criptovaluta sono così elevati che i minatori possono trarre profitto dai rendimenti solo se il costo dell’energia in cui si trovano i loro computer è sufficientemente basso, come riporta Alix Johnson.49 Per luoghi come l’Islanda, con il free cooling e una rete di energia geotermica ampiamente sostenibile, il calcolo ad alte prestazioni è una scelta “naturale”, come segnala Johnson nel suo studio della gestione dei dati nella storia degli imperi.50 Tuttavia, l’energia a basso costo è disponibile anche in luoghi come la Cina, dove oltre il 73% dell’elettricità consumata dai data center proviene dal carbone, come puntualizza Lauren Aratani.51 Le autorità su questo argomento discutono dell’esatta impronta di carbonio della produzione di criptovaluta, ma le stime variano da 20 a 115 TWh all’anno, circa lo 0,33% dell’utilizzo globale di elettricità, come previsto negli studi di Nicola Jones su come impedire ai data center di divorare l’elettricità della nostra civiltà.52 Inquadrato in modo diverso: l’equivalente di un dollaro USA in Bitcoin richiede oltre diciassette mega joule di energia per essere prodotto, che è il doppio della quantità di energia necessaria per estrarre rame, oro o platino, nelle parole di Aratani.53
La Nuvola assettata
Un altro racconto, in prima persona, circa le esperienze dei tecnici nei cloud incluso nello studio etnografico di Gonzalez Monserrate pubblicato dal MIT54 è il seguente episodio relativo al consumo di acqua dei cloud.
È fine luglio in Arizona. Il sole è bianco e caldo in questa giornata senza nuvole. Sento bruciarmi la nuca mentre seguo Jeremy, un giovane tecnico, nel magazzino adiacente dietro un data center, dove decine di container sono disposti in file. In mezzo a questa ondata di calore di 47 gradi, il nostro compito è riparare un sistema di raffreddamento evaporativo che si sta guastando. Allentiamo le viti su uno dei pannelli esterni prima di entrare nel container di spedizione, che sono sorpreso di apprendere che in realtà è un cluster di server modulare. I tubi serpeggiano da minuscoli canali nel lotto, dove l’acqua potabile viene pompata dal terreno, per essere filtrata in un mezzo filtrante spugnoso. Ai miei occhi, questo materiale schiumoso ricorda un nido d’ape o un nido di vespe. Le acque ricche di sedimenti del fiume Colorado si sono congelate per formare una fuliggine melmosa sulla superficie porosa che non è dissimile dal miele. Il vassoio umido di materiale evapora rapidamente nell’aria arida del deserto, la nuvola ribollente di umidità raffredda delicatamente i server rumorosi intorno a noi, spiega Jeremy.
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Il cloud può essere un carbonivoro ma sarebbe altresì piuttosto assetato. Come un pascolo, le server farm sono irrigate. In molti data center oggi, l’acqua refrigerata viene convogliata attraverso il reticolo dei rack dei server per raffreddare in modo più efficiente la struttura, essendo il liquido un agente convettivo superiore all’aria. Questo passaggio dall’aria di raffreddamento all’acqua di raffreddamento sarebbe un tentativo di ridurre l’impronta di carbonio, ma ha un costo. A causa degli agenti atmosferici storici della siccità e delle cupole termiche, le comunità negli Stati Uniti occidentali sono sempre più a corto di risorse idriche. A Mesa, in Arizona, dove Gonzalez Monserrate avrebbe trascorso sei mesi a ricercare l’emergere di un hub di data center nel deserto, alcuni politici ora si oppongono apertamente alla costruzione di data center, definendo l’utilizzo dell’acqua da parte dei centri come non essenziale e irresponsabile dati i vincoli di risorse. A Bluffdale, nello Utah, i residenti soffrono per mancanza d’acqua e interruzioni di corrente, a causa del vicino Utah Data Center, una struttura della National Security Agency (NSA) degli Stati Uniti che consuma sette milioni di galloni d’acqua al giorno per funzionare.
In risposta alla crescente consapevolezza dell’impatto dei data center sulle comunità soggette a stress idrico come Mesa e Bluffdale, aziende come Google si sarebbero impegnate a diventare “water positive” entro il 2030, impegnandosi a “rifornire” il 120% dell’acqua che consumano nelle loro strutture e uffici, come riportato dallo studio di Kate Brandt.55 Implementando costosi sistemi di raffreddamento ad acqua “a circuito chiuso”, aziende come Google e Cyrus One sarebbero in grado di riciclare parte delle acque reflue utilizzate nel raffreddamento evaporativo, sebbene gran parte dell’acqua fuoriesca nell’atmosfera durante il processo di evaporazione, come segnala Ensmenger nella sua storia dell’impatto ambientale della computazione.56 Oltre a ottimizzare l’utilizzo dell’acqua e ridurre al minimo gli “sprechi”, Google e altri si impegnano a investire in infrastrutture idriche e risorse comunitarie per migliorare la “gestione dell’acqua” e la “sicurezza idrica”, stando alle parole riportate da K. Brandt.57
Impegni aziendali come questi, sebbene lodevoli, non sarebbero applicabili, né sembrano fattibili data la crescita esplosiva prevista nelle infrastrutture di archiviazione dei dati nel prossimo decennio, una triplicazione secondo alcune stime, come segnalano Renee Obringer e il suo gruppo di ricerca.58 La studiosa dei media Mél Hogan mette in guardia dall’affidare alla “Big Tech” una propria regolamentazione, dati i legami finanziari delle società con l’industria dei combustibili fossili e il mancato rispetto delle scadenze dei precedenti impegni per ridurre le emissioni di gas serra derivata dalla combustione di carbonio o altri tipi di rifiuti, come aggiunge Mél Hogan nel suo studio sulle ecologie della Big Data.59 Secondo il 2021 Emissions Gap Report, redatto dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, si prevede che le temperature globali aumenteranno di 2,7°C entro la fine del secolo. Il riscaldamento planetario scioglierà i ghiacciai e innalzerà il livello del mare. Il risultato sarà la salinizzazione delle riserve di acqua dolce, la proliferazione della crescita di agenti patogeni nei bacini idrici stagnanti e l’intensificazione dei processi di desertificazione in corso, creando condizioni quasi onnipresenti di scarsità d’acqua entro il 2040 se i governi e le aziende non intensificheranno i loro sforzi per ridurre le emissioni.60 Sebbene le promesse aziendali non offrano alcuna garanzia sulla regolamentazione dei data center, meccanismi più ampi di responsabilità come il recente Climate Neutral Data Center Pact, un consorzio di società europee di data center e fornitori di infrastrutture che promettono di diventare “neutrali dal punto di vista climatico” entro il 2050, forniscono un modello per iniziative normative su vasta scala che potrebbero avere un impatto più sostanziale, come suggerisce Peter Judge.61
La Nuvola chiassosa
Un terzo racconto circa le esperienze dei tecnici nei cloud incluso nello studio etnografico di Gonzalez Monserrate pubblicato dal MIT62 è il seguente episodio relativo al rumore del cloud.
2019. Brenda Hayward fa una passeggiata nel suo soleggiato quartiere, oltre l’incantevole prato verde del parco Chuparosa a Chandler, in Arizona, quando lo sente: il rumore che la perseguita ogni notte mentre cerca di dormire. È lì ogni mattina quando si sveglia. È lì nel parco dove i suoi figli giocavano quando erano piccoli, frugando tra i rami degli alberi di palo verde, inseguendola mentre cerca di vivere la sua vita tranquillamente. È iniziato come un boom sordo, non dissimile dal frastuono di adolescenti frenetici per i bassi che festeggiano fino a tarda notte. Successivamente, si è evoluto in un continuo lamento meccanico. Cerca di non notarlo, cerca di non ascoltarlo, ma c’è, dietro ogni cosa, una traccia infernale di sottofondo della sua vita. Come infermiera, sa che il suono è più di un semplice fastidio. Vede i segni del suo tributo – ipertensione, cortisolo – ma non può fermarlo. Nessuno può, perché la nuvola non dorme.
2020. Il lockdown ha costretto i residenti urbani a rimanere nelle loro case per ridurre al minimo la trasmissione di COVID-19. Per David Gray, la trasmissione della malattia è l’ultima delle sue preoccupazioni. Invece, lui e i suoi vicini di Printer’s Row nel centro di Chicago devono resistere a un flagello di tipo sonoro. Mentre gira per la sua casa, mentre lavora, mangia e fa il bagno, c’è un ronzio monotono, un rumore incessante, un compagno costante e indesiderato della sua vita. Si incancrenisce nella sua mente, graffia i suoi pensieri, sonda la sua sanità mentale, avvelenandolo con un costante incantesimo di terrore e ansia. Non può andarsene; non gli è permesso. Non può scappare. Lui è lì, con esso, prigioniero della sua ammaliante monotonia.
2021. Anche al Chuparosa Park lo sento. Sopra le grida dei bambini che giocano, i cani che abbaiano, le macchine che corrono, il rumore del cloud vola. Le mie orecchie si drizzano per il chiasso del Cloud, una discordante sinfonia di messaggi di testo, e-mail, video di gatti e notizie false, che pulsa, ronza nelle mie orecchie. Appena oltre i campi da basket, i tavoli da picnic e i fichi d’India, la fonte è visibile a tutti: un data center: CyrusOne.
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Su vaste distanze, risuona lo scarico sonoro delle nostre vite digitali: le vibrazioni minute degli hard disk, il brontolio dei refrigeratori d’aria, l’avviamento dei generatori diesel, la rotazione meccanica delle ventole. I data center [o l’eufemistico cloud, emettono rifiuti acustici], ciò che gli ambientalisti chiamano “inquinamento acustico”. Per comunità come quella di Brenda e David, il ronzio computazionale dei data center non è solo un fastidio, ma una fonte di danni fisici e mentali. Brenda, un’infermiera di formazione, avrebbe riportato un aumento della pressione sanguigna e dei livelli di cortisolo con l’inizio del rumore. A David, un ingegnere di software, ancora ventenne, sarebbe stata diagnosticata l’ipertensione e si incontra spesso con un terapista clinico per gestire l’ansia causata dal ronzio del data center, come sostiene Peter Judge.63
Le loro storie, suggerisce Gonzalez Monserrate,64 sono racconti di ammonimento e non sarebbero né rari né eccezionali. Riguardo il rumore generato dai cloud, lui segnala che sarebbe ben documentato che gli effetti fisiologici acuti e longitudinali dell’inquinamento acustico industriale includano perdita dell’udito, ormoni dello stress elevati come il cortisolo, ipertensione e insonnia, come descritto da Bronzaft, McCarthy ed altri.65 Brenda e David si sarebbero incontrati con altri residenti nelle rispettive comunità per organizzarsi e lottare per un cambiamento. Brenda si sarebbe unita alla Dobson Noise Coalition, aiutando a organizzare un incontro comunitario con i suoi vicini, funzionari della città, rappresentanti statali e federali e dipendenti di CyrusOne, il data center incriminato. David avrebbe preso posizione con altri nel suo edificio, mobilitando con successo il Dipartimento della salute pubblica di Chicago per presentare un reclamo a causa del rumore ottenendo un’udienza del loro caso per violazione dell’inquinamento acustico da parte del cloud denunciato, come riportato da Tara Molina.66 Gli sforzi di queste comunità per ridurre al minimo l’inquinamento acustico che le danneggia, sarebbero rassegnati a obiettivi modesti per migliorare piuttosto che a risolvere il problema. Di fatto, a differenza di altri settori, i data center sono in gran parte autoregolati: non esiste un’agenzia federale che governi l’ubicazione e il funzionamento di queste strutture, nuove o esistenti che siano.
Poiché il rumore del data center non è regolamentato dalle autorità politiche, è possibile costruire strutture in prossimità delle comunità residenziali. Data la natura soggettiva dell’udito, la storia della regolazione del rumore potrebbe essere meglio caratterizzata da una serie di contese sulla competenza e sul “diritto” alla quiete, come codificato nei regimi legali liberali. Nel corso del lavoro di Gonzalez Monserrate sul campo con le comunità di Chandler e Printer’s Row, avrebbe appreso che il “rumore” del cloud elude in modo univoco gli schemi normativi, come documentato da Bianca Bosker.67 In molti casi il volume dei data center, misurato in decibel (dB), scende al di sotto della soglia di intolleranza prevista dalle ordinanze locali, come in Taiwan stando allo studio di Jennifer Hsieh.68 Per questo motivo, quando i residenti contattano le autorità per intervenire, per attenuare o smorzare il rumore, non è intrapresa alcuna azione, perché i data center tecnicamente non violerebbero la legge e le loro proprietà sarebbero zonizzate a fini industriali, come riportato da Olivia Solon.69 Tuttavia, dopo un più attento interrogatorio del suono, alcuni residenti avrebbero riferito che il ronzio monotono, una frequenza che si aggira nella gamma del linguaggio umano, risulterebbe particolarmente inquietante, data la sensibilità sintonizzata delle orecchie umane nel discernere tali frequenze rispetto alle altre. Anche così, segnala Gonzalez Monserrate,70 c’erano giorni in cui i data center, che facevano funzionare generatori diesel, superavano di gran lunga le soglie di decibel ammissibili per il rumore. Come per l’acqua e il carbonio, aziende locali, come CyrusOne, si sarebbero impegnate nelle riunioni con le comunità adiacenti ad adottare misure per attenuare il loro suono, sebbene si trattasse di promesse inapplicabili che, fino ad oggi, non sarebbero riuscite a mantenere.
Rifiuti immortali
Il penultimo racconto circa le esperienze dei tecnici nei cloud incluso nello studio etnografico di Gonzalez Monserrate pubblicato dal MIT71 e riferito in questa rassegna è il seguente episodio relativo ai rifiuti materiali dei cloud.
Con entrambe le mani, racconta Gonzalez Monserrate, trascino un carretto attraverso il pavimento della sala server, giù per sei piani su ascensori di servizio prima di depositarne il contenuto – server e apparecchiature obsoleti e dismessi – in una pila casuale etichettata “risorse dismesse”. Sotto la supervisione del tecnico senior Ricardo, ho tagliato i tag delle elastiche da ogni pezzo di equipaggiamento scartato, quindi li ho scansionati in un terminale per finalizzare il rendering di questi preziosi componenti informatici come nulli.
- “Cosa succede a loro, adesso?” avrebbe chiesto ingenuamente.
- “Ricicliamo ciò che possiamo, ma la maggior parte viene scaricata chissà dove”. Il tecnico brontola, aiutandomi a sollevare l’ultimo dei pesanti server nella montagna di macerie davanti ai miei piedi.
Dall’anno 2007, quando il primo smartphone ha debuttato sul mercato, da allora sarebbero stati prodotti oltre 7 miliardi di dispositivi del genere, come documenta Elizabeth Jardin in “From Smart to Senseless”.72 La loro vita media sarebbe inferiore ai due anni, una conseguenza dell’obsolescenza progettata e della sete di trarre profitto da “nuove” funzionalità e capacità appariscenti. Nel frattempo, le condizioni materiali e politiche della loro fabbricazione e le risorse necessarie per la loro produzione rimangono oscure. In condizioni estenuanti, i minatori esplorano instancabilmente la terra alla ricerca dei metalli rari necessari per realizzare dispositivi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione (TIC). Poi, in vaste fabbriche come la Foxconn situate nel Sud del mondo, dove la manodopera può essere procurata a buon mercato e le tutele legali per i lavoratori sono scarse, gli smartphone vengono assemblati e spediti ai consumatori, solo per essere scartati nel giro di pochi mesi, per finire in cimiteri di rifiuti elettronici come quelli di Agbogbloshie, Ghana, come riportano Ensmenger e Slayton nella storia ambientale dietro il mondo digitale e i lavori di Boy Lüthje e Florian Butollo sul mondo del lavoro nell’industria dell’IT.73 Questi metalli, molti dei quali sarebbero tossici e conterrebbero elementi radioattivi, impiegherebbero millenni a decadere, come documenta lo studio di Paul Dourish pubblicato dalla John Hopkins University Press.74 Eufemisticamente, i rifiuti del digitale sono ecologicamente trasformativi.
***
Lo storico Nathan Ensmenger scrive che un singolo computer fisso di ufficio richiede 240 chilogrammi di combustibili fossili, 22 chilogrammi di sostanze chimiche e 1.500 chilogrammi di acqua per essere prodotto.75 I server che riempiono le sale dei data center sono risorse dense e specializzate, con alcune unità valutate nell’ordine di decine di migliaia di dollari USA. Anche cavi, batterie, gruppi di continuità (UPS), condizionatori d’aria (CRAC e CRAH), unità di distribuzione dell’energia (PDU) e trasformatori vengono periodicamente dismessi e smaltiti quando le garanzie scadono e le unità non soddisfano gli elevati standard di affidabilità né la ridondanza impostata da entità come l’Uptime Institute.76 Alcuni di questi componenti contengono policlorobifenili (PCB) tossici e devono essere smaltiti anziché riutilizzati. Sono in corso sforzi in Europa e altrove per aumentare la progettazione di strutture e apparecchiature per prolungare la durata delle unità, facilitare le riparazioni e formalizzare un sistema di scambio per riciclare le vecchie apparecchiature utilizzando “passaporti dei materiali” che documenterebbero con precisione le storie delle unità.77 Anche con queste iniziative di sostenibilità in atto, organizzazioni ambientaliste come Greenpeace stimano che meno del 16% delle tonnellate di rifiuti elettronici generati annualmente venga riciclato.78
La Nuvola è culturale
L’ultimo racconto circa le esperienze dei tecnici nei cloud incluso nello studio etnografico di Gonzalez Monserrate pubblicato dal MIT79 e riferito in questa rassegna è il seguente episodio relativo alla cultura dei cloud.
È passata una settimana dall’incidente di surriscaldamento. Tom mi conduce lungo un corridoio di rack80 di server fino al sito dell’anomalia termica, il rack C9. Noto che alcuni dei rack non contengono server. Invece, le prese vuote sono disattivate con pannelli di chiusura che impediscono all’aria fredda di fuoriuscire dai corridoi pressurizzati. Senza consultare i suoi strumenti o il suo tablet, Tom inizia a strappare i pannelli di chiusura, consegnandoli a me per impilarli ordinatamente.
“Cosa stai facendo?” Chiede Gonzalez Monserrate.
“Ho la sensazione che questo corridoio sia affamato d’aria”, dice Tom. “Non lo senti, il modo in cui i ventilatori gemono?”
Non sento niente di insolito nel ronzio meccanico delle ventole. “Non proprio.”
“Guarda, il modello di fluidodinamica dice che questi rack vanno bene”, dice Tom, indicando le luci verdi e gialle lampeggianti, “ma hai visto cosa è successo la scorsa settimana. Questi modelli non catturano tutto. A volte, devi solo fidarti del tuo istinto”.
Ho messo le mani nelle prese vuote del rack, sentendo l’aria fredda solleticarmi la punta delle dita. “Come fai a sapere quanti ne devi togliere? Devi misurare il flusso d’aria o fare calcoli?”
Tom mi lancia un’occhiataccia, le sopracciglia aggrottate. “Quando lo fai da tanto tempo come me, hai un’idea delle cose. Un po’ difficile da spiegare. Non sono tutti numeri, curve e rapporti qui. Siamo custodi, non robot”.
Ho posato i pannelli di chiusura. “Custodi?”
“I server hanno bisogno di respirare, hanno bisogno di carburante proprio come noi e il nostro compito è mantenerli in funzione a qualunque costo perché alla fine la responsabilità ricade su di noi se si chiudono. Vedi, i nostri culi sono in gioco. Se loro scendono, noi scendiamo”.
“Sembra stressante.”
“La paura è una parte costante del lavoro. Tanto può andare storto qui. Guasto meccanico. Mancanza di corrente. Errore umano. Il nostro obiettivo è prevenire tempi di inattività ma ciò non è umanamente possibile, quindi, facciamo del nostro meglio. Cerchiamo di essere il più affidabili possibile. Tempo di attività del 99,9% o qualunque cosa possiamo gestire, ma dopotutto siamo solo esseri umani“.
***
Quando Gonzalez Monserrate iniziò a lavorare nei data center come osservatore etnografico, si aspettava che l’esperienza potesse insegnargli a pensare come un ingegnere, a vedere il mondo attraverso logiche quantitative e principi termodinamici. Come antropologo, era stato addestrato a essere sensibile ai propri pregiudizi, a fare del suo meglio per lasciare gli stereotipi alla porta quando ricercava in una nuova comunità. Anche così, si aspettava che persone come Tom fossero più simili a “robot” che a “custodi”. Aveva erroneamente pensato che la cultura del cloud rispecchiasse le tecnologie e gli artefatti che lo compongono. Si aspettava di essere immerso nella fredda razionalità meccanica, senza passare le giornate con “custodi” timorosi a prendere decisioni basate su “istinti” piuttosto che su equazioni.
Negli ultimi cinque anni di ricerca etnografica e lavoro sul campo, Gonzalez Monserrate avrebbe imparato i vari modi in cui la storia del data center riguarda tanto gli umani che ci lavorano quanto i condizionatori d’aria, i server e i cavi disordinati che avrebbe lui stesso passato ore a districare come parte della sua iniziazione in questo mondo di nicchia. Gli steward del cloud avrebbero una propria cultura. Come dice Tom, lui non è un automa che può essere facilmente sostituito, è piuttosto un “custode”. Dato l’enorme costo finanziario per ogni minuto di inattività nei data center, gli incidenti attribuibili a errori umani spesso “mettono fine alla carriera” per le persone coinvolte. In quanto tale, il sostentamento di Tom dipende dal fatto che i suoi server siano operativi o meno. In questo modo, Tom e i suoi server sono collegati: la mancata operatività del server predice la scomparsa del suo incarico lavorativo. È qui che entra in gioco la paura.
In un incontro di settore a Boston, riferisce Gonzalez Monserrate,81 un manager di un data center gli avrebbe condiviso che la responsabilità schiacciante e la paura costante dei tempi di inattività nel suo data center avrebbero portato il suo medico a diagnosticargli l’ipertensione. Un altro, un tecnico senior in un data center dell’Arizona, gli avrebbe riferito di aver incontrato un terapeuta settimanalmente per gestire il suo “stress da server”. Distrutti dalla paura, i gestori dei data center che Monserrate avrebbe seguito nel suo studio etnografico82 tendevano a fare affidamento sui propri sensi e istinti piuttosto che cedere troppo terreno a modelli o strumenti computazionali. Avrebbero segnalato di preferire il “provato e vero” rispetto alle letture astratte e ai modelli provvisori offerti da strumenti e dashboard labirintici che mostrerebbero tutto, dalla latenza di rete al consumo energetico a livello di rack.
All’inizio degli anni 2000, questa stessa paura avrebbe portato molti tecnici a ricorrere alla pratica dispendiosa del “raffreddamento ad inondazione” per eliminare gli hotspot e impedire che gli eventi di instabilità termica causassero tempi di fermo. Il raffreddamento a inondazione consisteva nel “raffreddare la stanza a qualsiasi costo”, come documenta il lavoro di Yevgeniy Sverdlik.83 Questi racconti di quella che Tom chiama “l’era del selvaggio West” nella gestione dei data center dimostrano il ruolo della cultura e del comportamento mentre ci sforziamo di comprendere gli impatti materiali dell’archiviazione dei dati in modo più articolato. Il “raffreddamento a flusso” sarebbe un esempio di una pratica o norma, non una limitazione di progettazione, che avrebbe portato a grandi quantità di inutili sprechi energetici nei primi giorni del settore dei data center.
Sebbene tecnologie più affidabili e una maggiore consapevolezza dei cambiamenti climatici abbiano reso le pratiche di “raffreddamento per inondazioni” in gran parte defunte oggi, Monserrate avrebbe ancora osservato comportamenti nel data center che erano similmente motivati da paura o “intuizioni”, come quello che Tom aveva sul corridoio C9. I comportamenti e le pratiche dei tecnici che lui avrebbe osservato nei data center suggeriscono che gli impatti ecologici del cloud devono estendersi oltre il regno della progettazione per considerare la pratica. Un approccio olistico alle riforme ambientali nel settore dei data center richiede la considerazione della cultura e delle norme del luogo di lavoro all’interno dei data center. Un tale approccio dovrebbe rispondere alla questione di in che modo la cultura influisca sui risultati dell’efficienza energetica e in che modo l’attenzione alla formazione e alle operazioni sul posto di lavoro potrebbe spostare il focus degli sforzi di sostenibilità.84
Il futuro della Nuvola
A modo di conclusione della relazione del suo studio etnografico circa la materialità e l’impatto ambientale del cloud pubblicata da MIT Press nello scorzo gennaio (2022),85 Steven Gonzalez Monserrate racconta il seguente episodio, frutto della sua fantasia, riguardo al futuro della nuvola. Nella sua narrazione speculativa i personaggi sono immersi in cuffie di simulazioni di realtà virtuale e ciascuno vede sé stesso nel suo avatar:
Fuochi d’artificio irrompono il cielo con pennacchi luminosi e azzurri. Le nuvole al neon si condensano per formare i contorni delle parole “Benvenuto nel 2030!” Esmeralda urla di gioia, inaugurando un nuovo decennio insieme ai suoi migliori amici, Tony e Ines. Guardano la folla raccolta e tutte le scritte sui loro manifesti. L’avatar di Tony è un coccodrillo con un cappello a cilindro con sopra la scritta “Capodanno”, mentre l’avatar di Ines la ritrae nelle sembianze di una versione più giovane di sé stessa. Esmeralda si accontenta con un avatar di sé stessa che indossa la sua solita pelle da panda, ma con nuovi occhiali da sole firmati dal bazar digitale dal quale avrebbe ottenuto uno sconto post-vacanza.
“Non posso credere che oggi stiano permettendo a gruppi così grandi di riunirsi”, dice Tony, le sue guance da rettile perfettamente sincronizzate con il suo discorso.
“Forse alcuni di loro sono solo dei robot”, sospira Ines, “anche se sembrano abbastanza reali”.
“Mi è mancato vedervi ragazzi”, dice Esmeralda, usando emoticon dei migliori boccioli per avvolgere le braccia attorno ai suoi amici. “La prossima volta, voglio andare a fare bodysurf sulle rive del Titan.”
“Mi sembra fantastico!” esclama Ines e il suo avatar salta per incarnare la sua gioia.
“Oppure puoi semplicemente toglierti le cuffie ed uscire fuori”, Tony si acciglia, “c’è un sacco di possibilità in più in questi giorni”.
“Non è divertente!” dice Esmeralda, ma in quell’istante suona un allarme e gli assembramenti simulati e i fuochi d’artificio resi dai pixel si bloccano.
Esmeralda si toglie e getta le cuffie in grembo con un forte sospiro. “Siamo spiacenti di interrompere la tua esperienza. Come sapete, è in vigore il razionamento della larghezza di banda. Ci auguriamo di vederti di nuovo quando la tua quota dati sarà di nuovo disponibile. Grazie per aver scelto SimphonyTM.”
Esmeralda mette da parte il dispositivo e si avvicina furtivamente alla finestra, dove guarda la sopraelevata di Manhattan, un nuovo sistema di strade intelligenti costruito per sostituire le numerose sezioni sommerse e permanentemente allagate a sud della 51a strada. Voleva tornare nei lussureggianti mondi di SimphonyTM, per sfuggire alla rovina che stava diventando il suo mondo, ma il cloud era limitato. Le attività di rete dovevano essere razionate, in base alle normative governative, per ridurre al minimo gli impatti ambientali.
La sociologa Ruha Benjamin, la cui ricerca si concentra su come la scienza e la tecnologia possono sia radicare che aiutare ad affrontare problemi di vecchia data come il razzismo sistemico, avrebbe utilizzato la narrativa speculativa come metodo per aiutare a immaginare un futuro più giusto. Come lei spiega:
Le finzioni … non sono falsità, ma rimodellamenti attraverso i quali gli analisti sperimentano diversi scenari, traiettorie e capovolgimenti, elaborando nuovi valori e testando diverse possibilità per creare società più giuste ed eque. Tali finzioni non hanno lo scopo di convincere gli altri di ciò che è, ma di espandere le nostre visioni di ciò che è possibile.86
Altri studiosi si sono recentemente rivolti alla narrativa speculativa per aiutare a identificare i potenziali danni che potrebbero derivare dalle pratiche di ricerca informatica, come la raccolta di enormi set di dati compilati da siti di social media pubblicamente accessibili, come riferisce Casey Fiesler.87
Nel racconto speculativo modellato sopra, i costrutti di realtà virtuale alimentati dall’apprendimento automatico con larghezza di banda ultraelevata (definizione 8k) avrebbero accelerato il cambiamento climatico antropogenico. Le richieste di servizi cloud avrebbero superato la crescita sostenibile, portando a fallimenti sistemici a cascata, razionamento dei dati e altro ancora. Sebbene sia improbabile che questo cupo futuro si sviluppi, come fantasticato e descritto da Gonzalez Monserrate, è, in ogni caso, utile precisare i pericoli che ci attenderebbero se il cloud venisse autorizzato a espandersi perennemente, senza controllo da parte di governi o cittadini.
Alcuni potrebbero leggere questo mondo di scarsità di larghezza di banda come il risultato di un desiderio incontrollato, una cultura dell’eccesso e degli impulsi sfrenati. Tale lettura potrebbe convenientemente scagionare le grandi forze dietro la nuvola sporca, spostando la colpa sui singoli utenti e sui loro comportamenti avidi. In effetti, i lettori potrebbero iniziare a mettere in discussione l’impatto ambientale delle loro abbuffate Netflix o ossessioni di social, rivolgendosi ad applicazioni come Website Carbon o Neutral per quantificare le loro impronte di carbonio individuali e modificare di conseguenza i loro comportamenti. Eppure tali risposte individualizzate non sarebbero sufficienti per mitigare la crisi. L’astinenza digitale degli individui non eserciterebbe probabilmente un’influenza sul mercato sufficiente per fermare o rallentare l’espansione del cloud, con i suoi server e le catene ridondanti di apparecchiature inattive progettate per rendere il digitale disponibile sempre e ovunque. Invece, lo scenario della storiella sopra dipinge un mondo in cui le aziende tecnologiche continuano ad espandersi, cercando profitti e rimanendo in gran parte non regolamentate, fino a quando gli effetti cumulativi del loro settore sconvolgono così fortemente un mondo in riscaldamento che i governi e i cittadini non hanno altra scelta che intervenire, anche se troppo tardi.
In questa epoca del cosiddetto surriscaldamento ambientale che certi studiosi della Terra hanno chiamato “Antropocene”, in cui i modelli climatici anticipano un futuro del clima catastrofico, la speculazione non sarebbe più ambito esclusivo degli scrittori di fiction, come sostiene Paul Crutzen.88 Per questo motivo, diversi studiosi hanno criticato il termine “Antropocene”, che può essere preso per suggerire che tutte le persone sono ugualmente responsabili dell’accelerazione del cambiamento climatico e che l’Antropocene era inevitabile. I critici dell’Antropocene individuano le sue origini nel capitalismo, nel sistema di piantagioni coloniali e nel potere concentrato e nelle influenze politiche dell’industria dei combustibili fossili e dei suoi complici. In questo modo, questi studiosi ci invitano a immaginare un passato in cui questi eccessi e regimi estrattivi non hanno mai messo radici senza i nostri ordini sociali e politici.89
Per Gonzalez Monserrate, Jason Moore, Donna Haraway e Kathryn Yussoff, la sopravvivenza della civiltà ora dipende dalle nostre capacità collettive di immaginare e realizzare un futuro sostenibile.90 La speculazione richiede l’immaginazione di mondi diversi, mondi che potrebbero essere o potrebbero essere stati.91
In questo caso di studio, si introducono alcuni degli impatti materiali del cloud, dalle emissioni di carbonio all’utilizzo dell’acqua, dal rumore ai rifiuti elettronici tossici. Il caso di studio illustrerebbe che le dinamiche ecologiche in cui ci troviamo non sarebbero interamente una conseguenza dei limiti progettuali, ma delle pratiche e delle scelte umane – tra individui, comunità, società e governi – combinate con un deficit di volontà e immaginazione per realizzare una nuvola sostenibile. A tale proposito, Gonzalez Monserrate sostiene che il cloud sia culturale che tecnologico. Come ogni aspetto della cultura, segnala lo studioso, la traiettoria della nuvola e i suoi impatti ecologici non sarebbero predeterminati o immutabili, concludendo, pragmaticamente, che come ogni aspetto della cultura, sarebbero mutevoli.
______________Note ________________
1 Program in History, Anthropology, and Science, Technology, and Society, MIT (MIT HASTS). MIT’s Doctoral Program in History, Anthropology, and Science, Technology, and Society (HASTS) forma studiosi di scienza e tecnologia come attività situate in contesti sociali e culturali. La facoltà di HASTS si occupa dell’impegno di esperti con i processi e prodotti del lavoro tecnologico e scientifico e conduce ricerche in uno spettro di aree geografiche e periodi storici. https://web.mit.edu/hasts/about/index.html
2 Monserrate, Steven Gonzalez. “The Cloud Is Material: On the Environmental Impacts of Computation and Data Storage.” MIT Case Studies in Social and Ethical Responsibilities of Computing, Winter 2022 (January).
3 Ibidem
4 Ibidem
5 MIT Case Studies in Social and Ethical Responsibilities of Computing, Winter 2022 (January).
6 Insieme di funzioni o strutture dati predefinite e predisposte per essere collegate ad un programma software attraverso un opportuno collegamento.
7 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
8 Un MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Game), letteralmente “gioco di ruolo multigiocatore in rete di massa” è un videogioco di ruolo (per computer o console) che viene svolto contemporaneamente da più persone reali tramite Internet (perciò chiamati “giochi online“). Negli MMORPG, migliaia di giocatori possono giocare insieme ed interagire tra di loro, interpretando personaggi personalizzabili che si evolvono (acquisendo abilità, guadagnando valuta in-game, ottenendo oggetti ed equipaggiamenti, ecc.) insieme al mondo persistente che li circonda e in cui si trovano.
9 L’un-boxing è il disimballaggio di prodotti, in particolare prodotti di consumo ad alta tecnologia, in cui il processo viene catturato su video e caricato su Internet. L’oggetto viene quindi anche spiegato in dettaglio e talvolta può anche essere dimostrato.
10 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
11 Tung-Hui Hu, A Prehistory of the Cloud (Cambridge, MA: MIT Press, 2015).
12 Norbert Wiener, Cybernetics: Or Control and Communication in the Animal and the Machine (Cambridge, MA: MIT Press, 1948), xi.
13 Louise Amoore, “Cloud Geographies: Computing, Data, Sovereignty,” Progress in Human Geography 42, no. 1 (2018): 4–24, https://doi.org/10.1177/0309132516662147; John Durham Peters, The Marvelous Clouds: Toward a Philosophy of Elemental Media (Chicago: University of Chicago Press, 2015).
14 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
15 Nathan Ensmenger and Rebecca Slayton, “Computing and the Environment,” Information & Culture 52, no. 3 (2017): 295–303, https://doi.org/10.1353/lac.2017.0011.
16 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
17 L’etnografia è un metodo di ricerca per conoscere una comunità attraverso l’immersione e il coinvolgimento prolungati con i membri della comunità. I partecipanti non sono considerati soggetti di ricerca di per sé, ma piuttosto collaboratori. L’apprendimento è spesso favorito svolgendo attività insieme ai membri della comunità: un metodo noto come “osservazione partecipante”. Nel caso in questione, l’osservazione partecipante significava lavorare nei data center insieme ai tecnici, proprio come potrebbe fare uno stagista o un nuovo dipendente.
18 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
19 In elettronica, un circuito stampato (printed circuit board) è un supporto utilizzato per interconnettere tra di loro i vari componenti elettronici di un circuito tramite piste conduttive incise su di un materiale non conduttivo. Di solito il materiale usato come supporto è la vetronite ramata, ovvero, una piastra di fibra di vetro ricoperta da un sottile strato metallico. Tale strato viene successivamente intagliato con la tecnica di fotoincisione (tramite l’azione di luce e acidi) o con quella di fresatura meccanica (tramite fresa CNC). L’intaglio serve a creare le sopracitate piste che interconnetteranno tra loro i vari componenti del circuito progettato. In breve, il circuito stampato può essere definito come la scheda su cui verranno saldati tutti i componenti del circuito elettronico che si sta realizzando.
20 In informatica, interrogazione di un database per estrarre o aggiornare i dati che soddisfano un certo criterio di ricerca.
21 Nicole Starosielski, “Thermocultures of Geological Media,” Cultural Politics 12, no. 3 (2016): 293–309, https://doi.org/10.1215/17432197-3648858; Nicole Starosielski, Media Hot and Cold (Durham, NC: Duke University Press, 2021).
22 L’impronta di carbonio, o “carbon footprint”, stima le emissioni di gas serra generate da attività, eventi, prodotti o servizi, quindi in sostanza dall’uomo. È utile ricordare che con “gas serra” si fa riferimento a quei gas che intrappolano la radiazione solare all’interno dell’atmosfera, portando al surriscaldamento del pianeta e di conseguenza al cambiamento climatico. L’unità di misura dell’impronta di carbonio, che secondo il WWF incide sul 50% di quella ecologica, è il “chilo (o la tonnellata) di CO2 equivalente. Da quando è stato introdotto, cioè dalla fine degli anni ’90, il concetto di impronta ecologica ha avuto il merito di evidenziare come le scelte individuali influiscano sugli ecosistemi. Questo indicatore misura l’area di mare e di terra necessaria per rigenerare le risorse consumate dall’uomo e assorbirne i relativi rifiuti. Anche se spesso non ci facciamo caso, tutti i prodotti e i servizi che utilizziamo inquinano, in modo diretto e indiretto; l’impronta ecologica cerca di capire quanto tutto questo pesi sul nostro pianeta, determinando il numero di “Terre” che servirebbero per sostenere un determinato stile di vita, attraverso un’unità di misura che si chiama “ettaro globale”.
23 Junaid Shuja et al., “Sustainable Cloud Data Centers: A Survey of Enabling Techniques and Technologies,” Renewable and Sustainable Energy Reviews 62 (2016): 195–214, https://doi.org/10.1016/j.rser.2016.04.034; Julia Velkova, “Data That Warms: Waste Heat, Infrastructural Convergence, and the Computation Traffic Commodity,” Big Data & Society 3, no. 2 (2016), https://doi.org/10.1177/2053951716684144; Mikko Wahlroos et al., “Future Views on Waste Heat Utilization: Case of Data Centers in Northern Europe,” Renewable and Sustainable Energy Reviews 82 (2018): 1749–64, https://doi.org/10.1016/j.rser.2017.10.058.
24 Hu, A Prehistory of the Cloud; Jeffrey Moro, “Air Conditioning the Internet,” Jeffrey Moro (blog), October 10, 2019, https://jeffreymoro.com/research/2019/asap2019/.
25 Tim Donaghy, Caroline Henderson, and Elizabeth Jardim, “Oil in the Cloud,” Greenpeace, May 19, 2020, https://www.greenpeace.org/usa/reports/oil-in-the-cloud/, and Canay Özden-Schilling, The Current Economy: Electricity Markets and Technoeconomics (Stanford, CA: Stanford University Press, 2021).
26 Quando si parla di vita terrestre, infatti, si parla di chimica del carbonio, vale a dire di una chimica dove il carbonio funge il ruolo di attore principale perché, grazie alle sue caratteristiche, crea lo scheletro delle strutture molecolari tipiche della vita.
27 Moro, “Air Conditioning the Internet.”
28 Gary Cook et al., “#ClickClean,” Greenpeace (2017), http://www.clickclean.org/international/en/about/; Donaghy, Henderson, and Jardim, “Oil in the Cloud.”
29 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
30 Nell’informatica, l’iper-scalabilità è la capacità di un’architettura di scalare in modo appropriato man mano che viene aggiunta una maggiore domanda al sistema.
31 Mél Hogan, “Big Data Ecologies,” Ephemera 18, no. 3 (2018): 631–57, http://ephemerajournal.org/sites/default/files/pdfs/contribution/18-3hogan.pdf.
32 Si tratta di una struttura che ospita un’infrastruttura IT su larga scala per supportare lo storage di cloud e big data. Il termine hyperscale riguarda la capacità di un’architettura tecnologica di migliorare e scalare in modo appropriato man mano che si aggiunge una maggiore domanda al sistema.
33 Una struttura di colocation è una struttura di data center in cui un’azienda può affittare spazio per server e altro hardware di elaborazione.
34 Nicola Jones, “How to Stop Data Centres from Gobbling Up the World’s Electricity,” Nature 561, no. 7722 (2018): 163–66, https://doi.org/10.1038/d41586-018-06610-y.
35 Alix Johnson, “Data Centers as Infrastructural In-Betweens: Expanding Connections and Enduring Marginalities in Iceland,” American Ethnologist 46, no. 1 (2019): 75–88, https://doi.org/10.1111/amet.12735; Alix Johnson, “Emplacing Data within Imperial Histories: Imagining Iceland as Data Centers’ ‘Natural Home,’” Culture Machine 18, no. 5 (2019), https://culturemachine.net/vol-18-the-nature-of-data-centers/emplacing-data/; Asta Vonderau, “Storing Data, Infrastructuring the Air: Thermocultures of the Cloud,” Culture Machine 18, no. 5 (2019), https://culturemachine.net/vol-18-the-nature-of-data-centers/storing-data/.
36 Cook et al., “#ClickClean”; Donaghy, Henderson, and Jardim, “Oil in the Cloud.”
37 Hu, A Prehistory of the Cloud.
38 Ingrid Burrington, “The Environmental Toll of a Netflix Binge,” The Atlantic, December 16, 2015, https://www.theatlantic.com/technology/archive/2015/12/there-are-no-clean-clouds/420744/; Jennifer Holt and Patrick Vonderau, “‘Where the Internet Lives’: Data Centers as Cloud Infrastructure,” in Signal Traffic: Critical Studies of Media Infrastructures, ed. Lisa Parks and Nicole Starosielski (Champaign: University of Illinois Press), 71–93.
39 Burrington, “The Environmental Toll of a Netflix Binge”; Cook et al., “#ClickClean”; Jones, “How to Stop Data Centres from Gobbling Up the World’s Electricity.”.
40 Jonathan Koomey and Eric Masanet, “Does Not Compute: Avoiding Pitfalls Assessing the Internet’s Energy and Carbon Impacts,” Joule 5, no. 7 (2021): 1625–28, https://doi.org/10.1016/j.joule.2021.05.007.
41 James Glanz, “The Cloud Factories: Power, Pollution, and the Internet,” New York Times, September 22, 2012, https://www.nytimes.com/2012/09/23/technology/data-centers-waste-vast-amounts-of-energy-belying-industry-image.html.
42 In ingegneria, un fail-safe è una caratteristica o pratica di progettazione che, in caso di un tipo specifico di guasto, risponde intrinsecamente in modo tale da causare danni minimi o nulli ad altre apparecchiature, all’ambiente o alle persone.
43 Emma Strubell, Ananya Ganesh, and Andrew McCallum, “Energy and Policy Considerations for Deep Learning in NLP,” preprint, submitted June 5, 2019, arXiv:1906.02243. Consultare anche Karen Hao, “Training a Single AI Model Can Emit as Much Carbon as Five Cars in Their Lifetimes,” MIT Technology Review, June 6, 2019, https://www.technologyreview.com/2019/06/06/239031/training-a-single-ai-model-can-emit-as-much-carbon-as-five-cars-in-their-lifetimes/.
44 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
45 Peter Dauvergne, “Is Artificial Intelligence Greening Global Supply Chains? Exposing the Political Economy of Environmental Costs,” Review of International Political Economy (2020), https://doi.org/10.1080/09692290.2020.1814381; Peter Dauvergne, “The Globalization of Artificial Intelligence: Consequences for the Politics of Environmentalism,” Globalizations 18, no. 2 (2021): 285–99, https://doi.org/10.1080/14747731.2020.1785670.
46 Lynn H. Kaack et al., “Aligning Artificial Intelligence with Climate Change Mitigation,” preprint, submitted October 6, 2021, hal-03368037, https://hal.archives-ouvertes.fr/hal-03368037. Consultare anche Payal Dhar, “The Carbon Impact of Artificial Intelligence,” Nature Machine Intelligence 2 (2020): 423–25, https://doi.org/10.1038/s42256-020-0219-9.
47 Elizabeth Kolbert, “Why Bitcoin Is Bad for the Environment,” The New Yorker, April 22, 2021, https://www.newyorker.com/news/daily-comment/why-bitcoin-is-bad-for-the-environment.
48 Kim Martineau, “Shrinking Deep Learning’s Carbon Footprint,” MIT News, August 7, 2020, https://news.mit.edu/2020/shrinking-deep-learning-carbon-footprint-0807.
49 Alix Johnson, “Emplacing Data within Imperial Histories.”
50 Ibidem
51 Lauren Aratani, “Electricity Needed to Mine Bitcoin Is More Than Used by ‘Entire Countries,’” The Guardian, February 27, 2021, https://www.theguardian.com/technology/2021/feb/27/bitcoin-mining-electricity-use-environmental-impact; Donaghy, Henderson, and Jardim, “Oil in the Cloud.” In 2021, Chinese authorities cracked down on cryptocurrency mining in the country, shifting a great deal of crypto activity worldwide to Kazakhstan, which is currently in a state of civil unrest: Ephrat Livni, “Kazakhstan’s Huge Bitcoin Mining Industry Is Upended by Unrest,” New York Times, January 6, 2022, https://www.nytimes.com/2022/01/06/business/kazakhstan-bitcoin-mining.html.
52 Nicola Jones, “How to Stop Data Centres from Gobbling Up the World’s Electricity.”
53 Aratani, “Electricity Needed to Mine Bitcoin Is More Than Used by ‘Entire Countries.’”
54 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
55 Kate Brandt, “Our Commitment to Water Stewardship,” Google (blog), September 9, 2021, https://blog.google/outreach-initiatives/sustainability/replenishing-water/; Florence Ion, “Google’s Plan to Replenish 120% of Its Water Use Doesn’t Quite Add Up,” Gizmodo, September 9, 2021, https://gizmodo.com/google-s-plan-to-use-120-less-water-doesn-t-quite-add-1847647300.
56 Nathan Ensmenger, “The Environmental History of Computing,” Technology and Culture 59, no. 4 (2018): S7–S33, https://doi.org/10.1353/tech.2018.0148.
57 Brandt, “Our Commitment to Water Stewardship.”
58 Renee Obringer et al., “The Overlooked Environmental Footprint of Increasing Internet Use,” Resources, Conservation and Recycling 167 (2021): 105389, https://doi.org/10.1016/j.resconrec.2020.105389.
59 Hogan, “Big Data Ecologies”; see also Donaghy, Henderson, and Jardim, “Oil in the Cloud”; and Elizabeth Jardim, “Microsoft, Google, Amazon: Who’s the Biggest Climate Hypocrite?,” Greenpeace, January 27, 2020, https://www.greenpeace.org/usa/microsoft-google-amazon-energy-oil-ai-climate-hypocrite/.
60 United Nations Environment Programme, “Emissions Gap Report 20210,” October 26, 2021, https://www.unep.org/resources/emissions-gap-report-2021.
61 Peter Judge, “European Cloud Providers Pledge to Go Climate Neutral by 2030,” Data Center Dynamics, January 22, 2021, https://www.datacenterdynamics.com/en/analysis/european-cloud-providers-pledge-go-climate-neutral-2030/.
62 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
63 Consultare anche Peter Judge, “Chicago Residents Complain of Noise from Digital Realty Data Center,” Data Center Dynamics, July 22, 2021, https://www.datacenterdynamics.com/en/news/chicago-residents-complain-of-noise-from-digital-realty-data-center/.
64 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
65 Arline L. Bronzaft and Dennis P. McCarthy, “The Effect of Elevated Train Noise on Reading Ability,” Environment and Behavior 7, no. 4 (1975): 517–28, https://doi.org/10.1177/001391657500700406; Arline L. Bronzaft, “Impact of Noise on Health: The Divide between Policy and Science,” Open Journal of Social Sciences 5, no. 5 (2017): 108–20, https://doi.org/10.4236/jss.2017.55008; Abotutu Ahi Abel, “Urban Noise Pollution in Nigerian Cities: Imperatives for Abatement,” Current Journal of Applied Science & Technology 10, no. 6 (2015): 1–9, https://doi.org/10.9734/BJAST/2015/18466; Malik Muhammad Anees, Muhammad Qasim, and Aroj Bashir, “Physiological and Physical Impact of Noise Pollution on Environment,” Earth Science Pakistan 1, no. 1 (2017): 8–11, https://doi.org/10.26480/esp.01.2017.08.10. Consultare anche Nathaniel Lee, David Anderson, and Jessica Orwig, “Noise Pollution Is a Bigger Threat to Your Health Than You May Think, and Americans Aren’t Taking It Seriously,” Business Insider, January 26, 2018, https://www.businessinsider.com/noise-pollution-effects-human-hearing-health-quality-of-life-2018-1.
66 Tara Molina, “Printer’s Row Residents Complain of Unbearable Cooling Fan Noise from Digital Company Getting Even Worse in Summer,” CBS Chicago, June 25, 2021, https://chicago.cbslocal.com/2021/06/25/printers-row-noise-complaint-cooling-fans/.
67 Bianca Bosker, “Why Everything Is Getting Louder,” Atlantic (November 2019): 1–18, https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2019/11/the-end-of-silence/598366/; Judge, “Chicago Residents Complain of Noise from Digital Realty Data Center”; Molina, “Printer’s Row Residents Complain of Unbearable Cooling Fan Noise from Digital Company Getting Even Worse in Summer.”
68 Jennifer C. Hsieh, “Making Noise in Urban Taiwan: Decibels, the State, and Sonosociality,” American Ethnologist 48, no. 1 (2021): 51–64, https://doi.org/10.1111/amet.13003.
69 Olivia Solon, “Drought-Stricken Communities Push Back against Data Centers.”
70 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
71 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
72 Elizabeth Jardim, “From Smart to Senseless: The Global Impact of 10 Years of Smartphones,” Greenpeace (February 2017), https://www.greenpeace.org/usa/wp-content/uploads/2017/03/FINAL-10YearsSmartphones-Report-Design-230217-Digital.pdf.
73 Ensmenger, Nathan. “The Environmental History of Computing.” Technology and Culture, vol. 59 no. 4, 2018, p. S7-S33. Project MUSE, John Hopkins University Press.
74 Paul Dourish, The Stuff of Bits: An Essay on the Materialities of Information (Cambridge, MA: MIT Press, 2017); Jennifer Gabrys, Digital Rubbish (Ann Arbor: University of Michigan Press, 2013); Ensmenger and Slayton, “Computing and the Environment”; Boy Lüthje and Florian Butollo, “Why the Foxconn model Does Not Die: Production Networks and Labour Relations in the IT Industry in South China,” Globalizations 14, no. 2 (2017): 216–31, https://doi.org/10.1080/14747731.2016.1203132.
75 Ensmenger, Nathan, op. cit. 2018
76 https://uptimeinstitute.com/
77Dan Swinhoe, “What Happens to Mechanical and Electrical Equipment during Data Center Decommissioning?,” Data Center Dynamics, March 8, 2021, https://www.datacenterdynamics.com/en/analysis/what-happens-mechanical-and-electrical-equipment-during-data-center-decommissioning/.
78 Jardim, “From Smart to Senseless.”
79 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
80 Un rack (rastrelliera) in informatica e telecomunicazioni è un sistema standard d’installazione fisica di componenti hardware (es. server, switch, router) a scaffale, costituito da una struttura modulare larga 19 pollici (482,6 mm), alta 1,75 pollici (44,45 mm) per ogni unità ospitata e lunghezza variabile, solitamente maggiore di 600mm. Il numero di unità di un rack è anch’esso variabile: le dimensioni comuni sono da 12, 25 e 42 unità. Ogni rack da 42 può essere suddiviso in 3 scafali (14 unità l’uno), con accesso separato.
81 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
82 Ibidem
83 On flood cooling, consultare anche Yevgeniy Sverdlik, “The Problem of Inefficient Cooling in Smaller Data Centers,” Data Center Knowledge, December 4, 2015, https://www.datacenterknowledge.com/archives/2015/12/04/the-problem-of-inefficient-cooling-in-smaller-data-centers.
84 Monserrate, Steven Gonzalez. Op. cit. Winter 2022 (January).
85 Ibidem
86 Ruha Benjamin, “Racial Fictions, Biological Facts: Expanding the Sociological Imagination through Speculative Methods,” Catalyst: Feminism, Theory, Technoscience 2, no. 2 (2016): 1–28, on 2, https://doi.org/10.28968/cftt.v2i2.28798.
87 Casey Fiesler, “Ethical Considerations for Research Involving (Speculative) Public Data,” Proceedings of the ACM on Human-Computer Interaction 3 (December 2019), 249, https://doi.org/10.1145/3370271; Casey Fiesler, “Innovating Like an Optimist, Preparing Like a Pessimist: Ethical Speculation and the Legal Imagination,” Colorado Technology Law Journal 19, no. 1 (2021): 1–18, https://ctlj.colorado.edu/?p=696.
88 Paul J. Crutzen, “The ‘Anthropocene,’” in Earth System Science in the Anthropocene, ed. Eckart Ehlers and Thomas Krafft (Berlin: Springer, 2006), 13–18.
89 Jason W. Moore, “The Capitalocene, Part I: On the Nature and Origins of Our Ecological Crisis,” Journal of Peasant Studies 44, no. 3 (2017): 594–630, http://dx.doi.org/10.1080/03066150.2016.1235036; Donna Haraway, Staying with the Trouble (Durham, NC: Duke University Press, 2016); McKenzie Wark, Molecular Red: Theory for the Anthropocene (New York: Verso, 2015); and Kathryn Yussoff, A Billion Black Anthropocenes or None (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2018).
90 Ibidem
91 Steven Gonzalez Monserrate, “Silicon Fox,” Anthropology and Humanism 45, no. 1 (2020): 130–38, https://doi.org/10.1111/anhu.12276.