BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno VIII • Numero 32 • Dicembre 2019
Siamo noi, esseri umani, indubbiamente al corrente delle nostre azioni e di ciò che ne consegue?
Nel suo voluminoso almanacco pubblicato nel 1864 sotto il titolo “The Book of Days”, Robert Chambers1 dà notizia di un curioso caso legale che sarebbe accaduto nel 1457 nel comune di Lavegny, nel Canton Vaud, nella Svizzera sud-occidentale: una scrofa e i suoi maialini sarebbero stati accusati e processati per l’omicidio di un bambino che avrebbero parzialmente mangiato. Dopo intense deliberazioni, la corte avrebbe condannato a morte la scrofa per la sua parte nell’atto ma avrebbe assolto gli ingenui maialini, ritenuti troppo giovani per giudicare la gravità dei loro crimini.
Agli occhi moderni, sottoporre un maiale a un processo penale può sembrare assurdo, dal momento che in molti crediamo che noi umani possediamo una consapevolezza delle nostre azioni e dei loro risultati che ci separerebbe dagli altri animali. Al riguardo si potrebbe dire che, mentre un maiale al pascolo non è cosciente di stare masticando, noi esseri umani siamo, sicuramente, al corrente delle nostre azioni e in allerta per gli effetti che ne conseguono. Infatti, le nostre identità e le nostre società sono basate su questo presupposto dell’intuizione. La psicologia e la neuroscienza, però, stanno iniziando a rivelare quanto sia difficile per il nostro cervello monitorare, con precisione, anche le nostre interazioni più semplici con il mondo fisico e sociale. Di fronte a queste difficoltà, i nostri cervelli si affiderebbero a meccanismi predittivi che allineano la nostra esperienza alle nostre aspettative. Mentre tali allineamenti sono spesso utili, possono, tuttavia, in certi casi, far sì che le nostre esperienze si discostino da quella che potremmo convenire, come collettività sociale, sia la realtà meno “soggettiva”, riducendo, in modo infelice, l’intuizione netta che, presumibilmente, ci separerebbe dai maiali di Lavegny, ai nostri occhi d’oggi, decisamente, ignari di sé.
Le ambiguità del cervello nel monitorare le nostre interazioni col mondo fisico e sociale
Stando alla ricerca in materia, una sfida che i nostri cervelli affrontano nel monitorare le nostre azioni sono le informazioni intrinsecamente ambigue che ricevono. Infatti, noi sperimentiamo il mondo fuori dalla nostra “testa” attraverso il “velo” dei nostri sistemi sensoriali: gli organi periferici e i tessuti nervosi che raccolgono e processano diversi segnali fisici, come la luce che colpisce gli occhi o la pressione sulla pelle. Sebbene questi circuiti siano straordinariamente complessi, il tessuto sensoriale del nostro cervello possiede punti deboli comuni a molti sistemi biologici. Infatti, si può sostenere, metaforicamente, che il “cablaggio” non sia perfetto, che la “trasmissione” perda e che il sistema sia afflitto da “rumore” – proprio come il crepitio di una radio mal sintonizzata maschera la vera trasmissione.
Ma il “rumore” o, per abbandonare la metafora, l’ambiguità intrinseca delle informazioni del mondo esterno, non è l’unico ostacolo. Anche se questi circuiti, cioè gli organi periferici e i tessuti nervosi che raccolgono e processano i diversi segnali fisici, trasmettessero con perfetta fedeltà, la nostra esperienza percettiva sarebbe, comunque, incompleta. Questo perché il velo o filtro del nostro apparato sensoriale raccoglie e proietta solo le “ombre” degli oggetti nel mondo esterno. Per illustrare questo fenomeno, pensiamo a come funziona il nostro sistema visivo. Quando guardiamo il mondo intorno a noi, campioniamo modelli spaziali di luce che rimbalzano su oggetti diversi e “atterrano” sulla superficie piatta dell’occhio. Questa mappa bidimensionale del mondo è preservata nelle prime parti del cervello visivo e costituisce la base di ciò che vediamo. Ma, sebbene questo processo possa essere considerato rimarchevole, esso lascia agli osservatori, cioè a noi umani, la sfida di ricostruire il vero mondo tridimensionale a partire dalla sua ombra bidimensionale che è stata proiettata sulla superficie sensoriale dei loro occhi.
Pensando alla nostra esperienza, sembra che questa sfida non sia troppo difficile da risolvere. Molti di noi umani vediamo il mondo in 3D. Ad esempio, quando guardiamo la nostra mano, una particolare ombra sensoriale in 2D viene proiettata sui nostri occhi e il nostro cervello riesce a costruire effettivamente un’immagine in 3D di un blocco a forma di mano che ci rende l’idea di pelle, carne e ossa. Tuttavia, ricostruire un oggetto 3D da un’ombra 2D è ciò che gli ingegneri chiamano un “problema mal posto”, cioè un problema sostanzialmente impossibile da risolvere solo dai dati campionati. Questo perché, infinitamente, i molti oggetti diversi proiettano tutti solo ombre, come nel caso della mano reale2. Come fa, allora, il nostro cervello a scegliere la giusta interpretazione da tutte le possibili contendenti?
La percezione è difficile perché due oggetti diversi possono proiettare la stessa “ombra” sul nostro sistema sensoriale. Stando alla ricerca, il nostro cervello risolve questo problema facendo affidamento su ciò che già conosce delle dimensioni e della forma di cose simili, come nella nostra immagine, di cose analoghe alle mani.
Se, come segnalato precedentemente, la prima sfida che i nostri cervelli affrontano nel monitorare le nostre azioni sono le informazioni intrinsecamente ambigue che ricevono, la seconda sfida che dobbiamo affrontare per monitorare efficacemente le nostre azioni è il problema del ritmo. I nostri sistemi sensoriali devono gestire e rappresentare un flusso rapido e continuo di informazioni in arrivo. Percepire rapidamente questi cambiamenti dinamici è importante anche per i movimenti più semplici. Infatti, probabilmente finiremmo per rovesciarci addosso il caffè del mattino se non riuscissimo ad anticipare, con precisione, quando la tazza raggiungerà le nostre labbra. Ma, ancora una volta, l’imperfetto macchinario biologico che utilizziamo per rilevare e trasmettere segnali sensoriali rende molto difficile per il nostro cervello generare rapidamente un quadro accurato di ciò che stiamo facendo. E il tempo non è di poco conto: mentre basta solo una frazione di secondo affinché i segnali passino dall’occhio al cervello e frazioni in più per utilizzare queste informazioni per guidare un’azione in corso, queste frazioni possono fare la differenza tra una camicia asciutta e una bagnata da caffè.
Come fa il cervello a generare percezioni affidabili da segni sensoriali ambigui?
Psicologi e ricercatori delle neuroscienze si sono chiesti da tempo quali strategie il nostro cervello utilizza per superare i problemi di ambiguità e ritmo. Al riguardo, vi è una crescente rivalutazione dell’ipotesi che entrambe le sfide possano essere superate utilizzando la previsione. L’idea chiave qui è che gli osservatori non si basano semplicemente sull’input corrente proveniente dai loro sistemi sensoriali, ma lo combinano con aspettative “top-down”, cioè generaliste3, su ciò che il mondo contiene.
Quest’idea non è completamente nuova. Nel diciannovesimo secolo, l’eclettico Hermann von Helmholtz propose che il problema di generare percezioni affidabili da segnali ambigui poteva essere risolto da un processo di “inferenza inconscia”, in cui gli osservatori usano tacita conoscenza di come il mondo è strutturato per costruire immagini visive accurate. Nel corso dei decenni, questa idea è stata filtrata nella psicologia cognitiva, in particolare attraverso il concetto di “percezione come ipotesi” presentato dallo psicologo britannico Richard Gregory negli anni ’70. Gregory paragonò i processi della percezione sensoriale al metodo scientifico: allo stesso modo in cui i ricercatori interpreteranno le prove attraverso la lente della loro teoria, i nostri sistemi percettivi possono contestualizzare le prove ambigue che ricevono dai sensi sulla base dei propri modelli dell’ambiente.
Variazioni più recenti delle idee di Gregory, riguardanti l’inferenza conscia, tendono a considerare che il cervello sia “bayesiano”, basando le sue percezioni sull’aspettativa. Nel 1763, lo statistico Thomas Bayes pubblicò un teorema che descriveva come si possano fare inferenze razionali combinando l’osservazione con la conoscenza precedente. Ad esempio, se sentiamo uno scalpiccio di goccioline d’acqua in una giornata torrida d’estate, è più probabile che abbiamo lasciato l’irrigatore acceso piuttosto che sia iniziato a piovere. I sostenitori dell’ipotesi del “cervello bayesiano” suggeriscono4 che questo tipo di inferenza probabilistica si verifica quando i segnali sensoriali “dal basso verso l’alto” (cioè dei dettagli) vengono valutati e connessi tra loro alla luce della conoscenza “dall’alto verso il basso” (cioè da una visione generale sistemica) su ciò che è e non è probabile.
A quanto pare, i modelli di connettività visti nella corteccia del cervello – con un numero enorme di connessioni all’indietro da aree “superiori” a “inferiori” – supporterebbero queste idee riguardanti l’inferenza probabilistica o funzionalità bayesiana del cervello. Il concetto è servito come intuizione per sviluppare un influente modello di funzione cerebrale noto come “codifica predittiva gerarchica”, ideato dal neuro-ricercatore Karl Friston e dai suoi colleghi al London University College. La teoria della codifica predittiva gerarchica suggerisce che in ogni data regione del cervello – ad esempio la corteccia visiva precoce – una popolazione di neuroni codifica l’evidenza sensoriale proveniente dal mondo esterno e un’altra serie neuronale rappresenta le attuali “credenze” su ciò che il mondo contiene. In base a questa teoria, la percezione si sviluppa mentre l’evidenza in arrivo regola le nostre “credenze”, con le “credenze” stesse che determinano ciò che sperimentiamo. Fondamentalmente, tuttavia, ciò che succede è che la connettività su larga scala tra le regioni rende possibile utilizzare le conoscenze precedenti per privilegiare alcune “credenze” rispetto ad altre. Ciò consente agli osservatori di utilizzare le conoscenze top-down (generali) per aumentare il volume dei segnali che si aspettano, dando loro più peso man mano che la percezione si sviluppa.
Permettere alle previsioni top-down, cioè alle nostre credenze, di riversarsi nella percezione ci aiuta a superare il problema del ritmo. Pre-attivando parti del nostro cervello sensoriale, diamo effettivamente ai nostri sistemi percettivi un “vantaggio”. In effetti, un recente studio condotto dai neuro-ricercatori Peter Kok, Pim Mostert e Floris de Lange ha scoperto che, quando prevediamo che si verifichi un evento, i modelli di esso emergono nell’attività visiva del cervello prima che venga mostrata la realtà. Questo vantaggio può fornire un percorso veloce verso comportamenti rapidi ed efficaci.
Modellare la percezione verso ciò che ci aspettiamo ci consente anche di superare il problema dell’ambiguità. Come supponeva Helmholtz, possiamo generare percezioni affidabili da dati ambigui se siamo orientati verso le interpretazioni più probabili. Ad esempio, quando guardiamo le nostre mani, il nostro cervello può arrivare ad adottare l'”ipotesi corretta” – che questi sono effettivamente oggetti a forma di mano piuttosto che una delle infinite altre possibilità – perché ha aspettative molto forti sui tipi di oggetti che incontrerà.
Quando si tratta delle nostre azioni, queste aspettative provengono dall’esperienza. Durante la nostra vita, acquisiamo una grande quantità di esperienza eseguendo azioni diverse e sperimentando risultati diversi. Questo probabilmente inizia presto nella vita con il cosiddetto “borbottio motorio” osservato nei bambini. I calci delle gambe apparentemente casuali, le onde del braccio e le svolte della testa eseguite dai bambini piccoli danno loro l’opportunità di inviare diversi comandi di movimento e di osservare le diverse conseguenze. Quest’esperienza del bambino di “fare e vedere” crea legami preventivi tra rappresentazioni motorie e sensoriali, tra recitazione e percezione.
Un motivo per sospettare che questi collegamenti siano forgiati dall’apprendimento deriva dalle prove che dimostrano la loro notevole flessibilità, anche in età adulta. Studi condotti dalla psicologa sperimentale Celia Heyes e dal suo team presso il London University College hanno dimostrato che anche brevi periodi di apprendimento possono ricollegare i legami tra azione e percezione, a volte in modo che risultino in conflitto con l’anatomia naturale del corpo umano.
Stando alla ricerca, gli esperimenti di scansione del cervello lo dimostrano bene. Se vediamo qualcun altro muovere la mano o il piede, le parti del cervello che controllano quella parte del nostro corpo diventano attive. Tuttavia, un intrigante esperimento condotto dalla psicologa Caroline Catmur presso lo stesso London University College ha documentato che fornendo ai soggetti che partecipano all’esperimento delle esperienze sperimentali invertite – far vedere loro toccare i piedi quando essi si toccavano le mani e viceversa – può invertire queste mappature. Dopo questo tipo di esperienze invertite, quando i soggetti hanno visto battere i piedi, le aree motorie associate alle loro mani sono diventate attive. Tali ritrovamenti, e altri simili, forniscono prove convincenti che questi collegamenti vengono appresi mediante il monitoraggio delle probabilità. Questo tipo di conoscenza probabilistica puòe modellare la percezione, permettendoci di attivare modelli di risultati d’azione previsti nelle aree sensoriali del cervello, aiutandoci a superare le ambiguità sensoriali e fornire rapidamente l’interpretazione percettiva “giusta”.
E se fossimo più propensi a percepire le parti sorprendenti e imprevedibili dei fenomeni?
Negli ultimi anni, un gruppo di neuro-ricercatori ha proposto una visione alternativa per spiegare come fa il cervello a generare percezioni affidabili da segni sensoriali ambigui, suggerendo che, piuttosto che modellare la percezione mediante la conoscenza probabilistica, noi modifichiamo selettivamente i risultati attesi delle nostre azioni. I fautori di questa idea hanno sostenuto che è molto più importante per noi percepire le parti sorprendenti e imprevedibili del mondo, come quando la tazza di caffè scivola inaspettatamente tra le dita. Ignorare i segnali normalmente previsti significherà che i sistemi sensoriali considerano soltanto “errori”, cioè informazioni sorprendenti, consentendo alla larghezza di banda limitata dei nostri circuiti sensoriali di trasmettere solo le informazioni più rilevanti, cioè imprevedibili.
Una pietra miliare di quest’ipotesi di “cancellazione” sono stati gli studi che dimostrano che c’è meno attività nel cervello sensoriale quando sperimentiamo risultati d’azione prevedibili. Se inaspettatamente sentiamo un tocco sulla nostra pelle o vediamo una mano muoversi, diverse regioni del cervello somato-sensoriale o visivo diventano più attive. Studi più recenti hanno documentato che quando tocchiamo la nostra pelle – sfiorandoci le mani o toccandoci i palmi – l’attività in queste aree del cervello è relativamente ridotta, rispetto a quando queste sensazioni provengano da una fonte esterna. Una simile soppressione o riduzione dell’attività sensoriale si trova nel cervello visivo quando osserviamo le mani che eseguono movimenti che corrispondono ai nostri.
Tuttavia, sembra che non vi siano risultati conclusivi riguardo all’ipotesi che postula che siamo più propensi a percepire le parti sorprendenti e imprevedibili. Infatti, Daniel Yon e i suoi colleghi hanno studiato come funzionano questi meccanismi di previsione. In un recente studio condotto con Clare Press presso il Birkbeck College (University of London), insieme ai neuro-ricercatori cognitivi Sam Gilbert e Floris de Lange, hanno coinvolto dei volontari in uno scanner MRI e registrato la loro attività cerebrale mentre eseguivano un semplice compito. Ai volontari veniva chiesto di muovere le dita delle loro mani e osservare la mano di un avatar su uno schermo. Ogni volta che eseguivano un’azione, la mano sullo schermo faceva un movimento sincrono che ci si poteva aspettare (muovendo lo stesso dito) o inaspettato (spostando un dito diverso). Osservando i modelli di attività cerebrale in questi due scenari, i ricercatori sono riusciti a capire come le aspettative cambiano l’elaborazione percettiva.
Le nostre aspettative scolpiscono l’attività neurale
In breve, la loro analisi ha rivelato che c’era più documentazione [MRI] circa i modelli di attività cerebrale quando le azioni che stavano eseguendo erano coerenti con le loro aspettative. Uno sguardo più attento suggerisce che questi “segnali più acuti” nelle aree visive del cervello erano accompagnati da alcune attività represse, ma solo in parti del cervello sensoriale sensibili a eventi imprevisti. In altre parole, le previsioni generate durante l’azione sembravano eliminare segnali inattesi, generando rappresentazioni più acute nel cervello sensoriale che sono più fortemente inclini verso ciò che ci aspettiamo.
Questi risultati della ricerca suggeriscono che le nostre aspettative scolpiscono l’attività neurale, facendo sì che il nostro cervello rappresenti i risultati delle nostre azioni come noi ci aspettiamo che si svolgano. Ciò è coerente con una crescente letteratura psicologica che suggerisce che l’esperienza personale delle nostre azioni è distorta da ciò che ci aspettiamo.
Una dimostrazione convincente di quest’interpretazione è già avvenuta con uno studio del 2007 condotto dallo psicologo Kazushi Maruya adoperando una tecnica chiamata “rivalità binoculare”. Negli esperimenti di rivalità binoculare, un osservatore viene collocato dinnanzi ad un apparato che presenta immagini diverse agli occhi sinistro e destro. Quando queste immagini sono in conflitto, l’esperienza percettiva dell’osservatore è in genere dominata da una di esse, con occasionali fluttuazioni tra le alternative concorrenti. Maruya e colleghi hanno creato l’esperienza della “competizione visiva” presentando agli osservatori un motivo in bianco e nero tremolante all’occhio sinistro e una sfera in movimento al destro. Curiosamente, i ricercatori hanno individuato che quando coordinavano la sfera mobile con azioni che gli osservatori stavano eseguendo, questa immagine aveva maggiori probabilità di “vincere” nella competizione. L’esperienza cosciente qui, a quanto pare, è stata dominata dal risultato dell’azione prevedibile.
Esperimenti come quello di Maruya si uniscono a una miriade di altri che suggeriscono che la nostra esperienza percettiva è distorta dalle azioni che eseguiamo. Ad esempio, la sola modalità della pressione dei tasti eseguita dai pianisti può determinare se ascoltano una sequenza di note musicali come crescente o decrescente in tono. Anche il modo in cui sperimentiamo il passare del tempo può essere manipolato dalle nostre azioni – quando ci muoviamo più lentamente, altri eventi sembrano durare più a lungo – e tendiamo a vedere movimenti ambigui muoversi in direzioni coerenti con le nostre azioni. Poiché le nostre aspettative si avverano in genere, “scolpire” la percezione in linea con le nostre convinzioni può portare a un quadro più solido di come noi influenziamo l’ambiente che ci circonda.
Se la nostra esperienza percettiva è distorta dalle nostre aspettative e dalle nostre azioni, come avviene la nostra interazione con il mondo sociale?
Una delle possibilità più affascinanti è che il nostro meccanismo predittivo potrebbe svolgere un ruolo importante nell’aiutarci a interagire con il mondo sociale. Dopotutto, noi, esseri umani, sembriamo obbedire a una serie di regole nel modo in cui ci salutiamo, ci alterniamo nella conversazione e ci rispondiamo reciprocamente. Uno dei modi più onnipresenti e strutturati in cui le persone ci rispondono è attraverso l’imitazione, definita dagli studiosi cognitivi come un’istanza in cui un osservatore copia i movimenti corporei di un modello: i gesti utilizzati, l’andatura del camminare e così via; se vedi che il tuo interlocutore si strofina la faccia o scuote il piede, è probabile che tu faccia lo stesso.
Una serie di studi ha suggerito che l’esperienza di essere imitati può avere conseguenze importanti per la qualità delle nostre interazioni. Ritrovarci con il fatto che le nostre azioni siano state imitate o copiate può aumentare la fiducia, il rapporto e l’affiliazione che sentiamo nei confronti di coloro che eseguono l’imitazione. Un esempio evocativo, uno studio del 2003, condotto dallo psicologo Rick van Baaren presso la Radboud Universiteit Nijmegen [Università Radboud di Nimega] nei Paesi Bassi, avrebbe identificato che i camerieri incaricati di imitare i commensali ricevevano mance più alte di coloro che non dovevano imitare i clienti.
Ma mentre l’esperienza dell’essere imitato può agire come un potente lubrificante sociale, possiamo percepire come gli altri si comportano nei nostri confronti – come di tutto il resto – solo attraverso il velo imperfetto dei nostri sistemi sensoriali. Il potenziale pro-sociale di essere imitato sarà completamente frustrato se il nostro cervello non riesce a registrare che si sono verificate queste reazioni. Tuttavia, questo problema potrebbe essere superato se generassimo previsioni sulle conseguenze sociali delle nostre azioni nello stesso modo in cui predisponiamo aspettative sui risultati fisici dei nostri movimenti, utilizzando i nostri macchinari predittivi per rendere più facile la percezione delle altre persone.
Claire Press e Daniel Yon hanno esplorato questa idea di come incrementare il benefico potenziale pro-sociale di essere imitati in uno studio del 2018, indagando se i meccanismi predittivi implementati durante l’azione potessero influenzare il modo in cui percepiamo l’imitazione negli altri. Hanno, effettivamente, trovato un segno distintivo di predizione: la percezione dei risultati dell’azione previsti sembrava visivamente più intensa. Negli esperimenti, questo segno persisteva per alcuni secondi dopo i movimenti dei soggetti, suggerendo che nostri meccanismi predittivi sono adatti per anticipare le reazioni imitative di altre persone.
Questo tipo di miglioramento potrebbe essere particolarmente importante in ambienti sensoriali impegnativi: ad esempio, rendere più facile individuare l’amico che ci sta salutando in una stanza affollata. Un’altra possibilità relativamente poco esplorata è che tali previsioni potrebbero farci percepire le altre persone come più simili a noi stessi. Se muoversi lentamente fa sembrare anche il resto del mondo più lento, i movimenti lenti e fiacchi che facciamo quando ci sentiamo tristi potrebbero indurci a percepire anche gli altri come più lenti e più cupi.
Usare la previsione per costruire la nostra esperienza del mondo può essere un’arma a doppio taglio
Naturalmente, a volte usare la previsione per costruire la nostra esperienza può essere un’arma a doppio taglio. È chiaro che questa lama taglia in entrambi i modi quando ci rendiamo conto che le nostre aspettative a volte non diventano realtà. Ad esempio, se si fa un sollevamento energico per muovere una teiera vuota che si pensava fosse piena, il recipiente vuoto accelererà molto più velocemente di quanto ci si aspettasse. Allo stesso modo, se raccontiamo una barzelletta della quale le persone si fanno un’idea sbagliata, potremmo incontrare un mare di facce confuse piuttosto che le risate che ci aspettavamo.
Sembra che in questi scenari sarebbe sbagliato per noi rimodellare le nostre esperienze percettive per far apparire questi eventi più simili alle nostre aspettative. Sarebbe erroneo rimodellare l’esperienza e percepire la teiera come più lenta di quanto non sia in realtà, o modificare le espressioni dei nostri partner sociali in modo che sembrino più divertiti, semplicemente perché sarebbero stati quelli i risultati che avevamo previsto a priori. Tali percezioni errate sono più probabili quando il mondo sensoriale fornisce informazioni più scarse e alle aspettative potrebbe essere dato più peso. Queste percezioni errate occasionali potrebbero essere il prezzo che paghiamo per un processo che il più delle volte genera esperienze affidabili.
Tuttavia, è facile vedere come tali percezioni errate possono minarci. Molte delle nostre istituzioni sociali, culturali e legali dipendono dall’idea che gli esseri umani generalmente sanno cosa stanno facendo e quindi possono essere ritenuti responsabili di ciò che hanno fatto. Anche se fosse una rappresentazione sbagliata della scienza suggerire che gli esseri umani fraintendono le loro azioni per la maggior parte del tempo, potrebbero esserci casi in cui le percezioni errate indotte da ciò che ci aspettiamo potrebbero avere conseguenze importanti. Ad esempio, un medico esperto potrebbe avere aspettative molto forti su come un paziente risponderà a una semplice procedura (ad esempio una puntura lombare) che potrebbe indurlo a percepire in modo errato reazioni insolite quando si verificano. Lo stato morale o legale del medico cambia se è incline a fraintendere i sintomi del suo paziente? Questo problema diventa più complicato se si considera che eventuali percezioni errate potrebbero essere il risultato della competenza del medico?
Mentre la previsione ha il suo lato oscuro, possiamo anche considerare quanto il mondo sarebbe difficile senza di essa. Questo pensiero ha da tempo occupato gli psichiatri, che hanno suggerito che alcune delle insolite esperienze osservate nelle malattie mentali potrebbero riflettere interruzioni nella capacità di prevedere.
Una serie particolarmente curiosa di casi sono i “deliri” [‘delusions of control’]5 osservati in alcuni pazienti con schizofrenia. I pazienti che soffrono di tale vaneggiamento raccontano un’esperienza angosciante in cui si sentono come se le loro azioni fossero guidate da una forza aliena esterna. Uno di questi pazienti descrisse quest’anomala esperienza allo psichiatra britannico C S Mellor così: “Sono le mie mani e il mio braccio che si muovono e le mie dita raccolgono la penna, ma io non le controllo. Quello che fanno non ha niente a che fare con me.”
In linea con casi così vividi, altri studi sperimentali hanno rivelato che i pazienti schizofrenici possono avere difficoltà a riconoscere le loro azioni. Ad esempio, in un esperimento condotto nel 2001 dallo psichiatra Nicolas Franck all’Hospices Civils de Lyon [Ospedale universitario di Lione, Francia], ai pazienti schizofrenici e ai volontari sani di controllo è stato mostrato un video feedback delle loro azioni che potevano essere alterate in vari modi, come distorsione spaziale del filmato o aggiunta di ritardi temporali. I ricercatori hanno identificato che i pazienti schizofrenici erano più in difficoltà nel rilevare queste discrepanze, suggerendo che avevano una percezione relativamente impoverita delle proprie azioni.
Questo deficit nel monitoraggio dell’azione e i deliri [e le delusioni] concomitanti potrebbero sorgere perché questi pazienti sperimentano una rottura dei meccanismi che consentono loro di prevedere le conseguenze dei loro movimenti. Questi potrebbero portare a un cambiamento nel modo in cui si sperimentano i risultati dell’azione, che a sua volta predispone i pazienti a sviluppare convinzioni bizzarre. In particolare, la perdita dei vantaggi “di messa a fuoco” [o di finitura] della previsione dall’alto verso il basso [top-down prediction]6 potrebbe lasciare alle persone esperienze relativamente più ambigue delle loro azioni, rendendo difficile determinare cosa sia successo o meno a seguito del loro comportamento. Mentre questa ambiguità potrebbe essere acutamente angosciante in sé, essere afflitto da esperienze così insolite per un periodo prolungato potrebbe contribuire all’”umore delirante” di un individuo, cioè nel senso che stanno accadendo cose strane che richiedono una spiegazione strana, e forse delirante.
In conclusione, attraverso la ricerca sembra affermarsi una visione emergente dalla psicologia e dalle neuroscienze secondo cui le nostre aspettative svolgono un ruolo chiave nel modellare il modo in cui viviamo le nostre azioni e i loro risultati. Mentre l’integrazione delle previsioni in ciò che percepiamo potrebbe essere un modo potente per monitorare le nostre azioni in un mondo sensoriale intrinsecamente ambiguo, questo processo può farci travisare le conseguenze del nostro comportamento quando le nostre aspettative non si avverano. Tali esperienze fittizie possono minare la nostra idea o certezza di avere una visione cristallina del nostro comportamento che ci separerebbe dagli ingenui maiali di Lavegny. Infatti, seguendo quanto riporta la ricerca sull’influenza del pregresso nella nostra attività percettiva dovremmo tener presente che quando si tratta delle nostre azioni, potremmo vedere ciò in cui crediamo piuttosto che la realtà. A volte, proprio perché ciò che crediamo ci sembra così reale, anche noi potremmo non sapere cosa facciamo effettivamente. Dunque, se il nostro cervello prevede i risultati delle nostre azioni, esso modella la realtà in ciò che ci aspettiamo. Ecco perché vediamo ciò in cui crediamo.
- Robert Chambers. The Book of Days: A Miscellany of Popular Antiquities in Connection with the Calendar, Including Anecdote, Biography, & History, Curiosities of Literature and Oddities of Human Life and Character. W & R Chambers, London, 1864
- Yon, D., Edey, R., Ivry, R. B. & Press, C. Time on your hands: Perceived duration of sensory events is biased towards concurrent actions. In “Journal of Experimental Psychology: General”, 146 (2), 182-93, 2017
- Nelle teorie dei sistemi e anche in altre teorie umanistiche, come in questo caso le neuroscienze e la psicologia, i modelli top-down e bottom-up sono strategie di elaborazione dell’informazione e di gestione delle conoscenze, cioè “metodologie” messe in atto per analizzare situazioni problematiche e costruire ipotesi adeguate alla loro soluzioni. Nel modello top-down si formula inizialmente una visione generale del sistema ovvero se ne descrive la finalità principale senza scendere nel dettaglio delle sue parti. Ogni parte del sistema è successivamente rifinita (mediante decomposizione, specializzazione e specificazione o identificazione) aggiungendo maggiori dettagli nella progettazione di un’ipotesi di senso. Così, ogni nuova parte o inferenza ottenuta può quindi essere nuovamente rifinita, specificando ulteriori dettagli, finché la specifica completa sia sufficientemente dettagliata da validare il modello inferenziale ipotizzato. Nella strategia bottom-up invece parti individuali del sistema sono specificate in dettaglio mediante inferenze e poi connesse tra loro in modo di formare componenti di senso più grandi, a loro volta interconnesse fino a realizzare un sistema completo o totalità di senso che validerebbe una plausibilità.
- Alan Yuille & Daniel Kersten. Vision as Bayesian inference: analysis by synthesis? In “Tends in Cognitive Sciences”, special issue: Probabilistic Models of Cognition, vol. 10, issue 7, p. 301-308, July 01, 2006
- In psichiatria e psicologia clinica, con il termine delirio (convincimento errato incorreggibile) ci si riferisce a un disturbo del contenuto del pensiero, che può essere presente in varie malattie psichiche, ad esempio nella schizofrenia, negli episodi depressivi o maniacali con sintomi psicotici, nel disturbo delirante cronico (o paranoia). Si tratta di un giudizio errato della realtà che non viene corretto né dalla critica né dall’esperienza, in quanto le decisioni e i comportamenti che vengono adottati servono ad auto-confermare tale modello di pensiero. Le forme croniche di delirio, basate sull’elaborazione razionale e lucida di un sistema di credenze errate, possono essere l’unico sintomo di una patologia psichica, in questo caso si parla appunto in particolare di disturbo delirante cronico o paranoia.
- Nelle teorie dei sistemi e anche in altre teorie umanistiche, come in questo caso le neuroscienze e la psicologia, i modelli top-down e bottom-up sono strategie di elaborazione dell’informazione e di gestione delle conoscenze, cioè “metodologie” messe in atto per analizzare situazioni problematiche e costruire ipotesi adeguate alla loro soluzioni. Nel modello top-down si formula inizialmente una visione generale del sistema ovvero se ne descrive la finalità principale senza scendere nel dettaglio delle sue parti. Ogni parte del sistema è successivamente rifinita (mediante decomposizione, specializzazione e specificazione o identificazione) aggiungendo maggiori dettagli nella progettazione di un’ipotesi di senso. Così, ogni nuova parte o inferenza ottenuta può quindi essere nuovamente rifinita, specificando ulteriori dettagli, finché la specifica completa sia sufficientemente dettagliata da validare il modello inferenziale ipotizzato. Nella strategia bottom-up invece parti individuali del sistema sono specificate in dettaglio mediante inferenze e poi connesse tra loro in modo di formare componenti di senso più grandi, a loro volta interconnesse fino a realizzare un sistema completo o totalità di senso che validerebbe una plausibilità.
1 commento
Carlo Maria Rezzani
Articolo interessante in relazione all’omeopatia e alla medicina riabilitativa
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