BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 33 • Marzo 2020
Introduzione al dibattito circa se il cervello umano sia o meno un riflesso del dimorfismo sessuale
Nonostante che una differenza categorica nei genitali è sempre stata riconosciuta, la questione di fino a che punto queste categorie si estendano nella biologia e nel comportamento umani non è tuttora risolta. Differenze valutate come “documentate” circa sesso e genere, reperibili, presumibilmente, nel cervello umano, sono spesso prese a supporto di una visione che sostiene il suo dimorfismo sessuale1, cioè l’esistenza di un “cervello femminile” e di un “cervello maschile”. Tuttavia, stando alle considerazioni del neuro-genetista Kevin Mitchell nel suo lavoro del 2018, Innate. How the Wiring of Our Brains Shapes Who We Are, una tale distinzione sarebbe possibile solo se le differenze circa sesso e genere nelle caratteristiche del cervello fossero altamente dimorfiche, cioè con poca sovrapposizione tra le forme di queste peculiarità in maschi e femmine, e internamente coerenti, come il cervello avesse qualità solo “maschili” o solo “femminili”. Purtroppo la ricerca recente è riuscita a documentare ben l’opposto al dimorfismo, cioè una rilevante sovrapposizione delle caratteristiche considerate femminili e maschili.
Infatti, la ricerca in materia potrebbe essere sintetizzata dal lavoro Sex beyond the genitalia: The human brain mosaic, pubblicato nel 2015 con le osservazioni effettuate da Daphna Joel e colleghi. Questo gruppo di ricercatori al fine di documentare una qualche ipotesi di lavoro riguardo al presunto dimorfismo del cervello umano, completò l’analisi di risonanza magnetica di oltre 1.400 persone, da quattro database distinti, e quest’indagine rivelò ampia sovrapposizione tra le distribuzioni di femmine e maschi per tutta la materia grigia, la materia bianca e le connessioni valutate. In più, le loro analisi riguardo la coerenza interna rivelano che cervelli con caratteristiche che si trovino, stabilmente, ad un’estremità del continuum “mascolinità – femminilità” sono rari. Piuttosto, la maggior parte dei cervelli possono essere descritti come “mosaici” di caratteristiche, alcune più comuni nelle femmine rispetto ai maschi, alcune più comune nei maschi rispetto alle femmine e alcune comuni sia nelle femmine che nei maschi. Secondo le valutazioni di Kevin Mitchell, i risultati dell’emblematica ricerca della Joel sono solidi per campione, età, tipo di risonanza magnetica e metodo di analisi. Questi risultati sarebbero confermati ugualmente da un’analoga analisi dei tratti della personalità, degli atteggiamenti, degli interessi e dei comportamenti di oltre 5.500 individui, che rivelerebbe, secondo Mitchell, che la coerenza interna sia estremamente rara. La ricerca dimostrerebbe, infatti, sebbene siano reperibili differenze di sesso e genere nel cervello, che il cervello umano non appartenga a una di due categorie distinte: cervello maschile / cervello femminile, per cui sembra che sia possibile sostenere che il cervello umano non sia dimorfico.
Intendiamoci bene su sesso e gender prima di proseguire con le obiezioni al presunto dimorfismo sessuale del cervello umano
Nel sentire comune, infatti, il sesso e il genere costituiscono un tutt’uno, ma gli studiosi propongono una distinzione tra il genere (gender), che rappresenta una costruzione culturale, la rappresentazione, definizione e incentivazione di comportamenti che rivestono il corredo biologico e danno vita allo status di uomo / donna, e il sesso, che costituisce un corredo genetico, un insieme di caratteri biologici, fisici e anatomici che generano un maschio e una femmina. Infatti, il sesso, in senso etimologico, separazione o distinzione, nella biologia, si riferisce al carattere2 che permette, negli organismi viventi a riproduzione gamica o sessuata3, di distinguere gli individui appartenenti alla stessa specie in generi4 differenti5. In antropologia e in altre scienze sociali, il termine indica anche il complesso delle attività sessuali o della sessualità. I caratteri sessuali si distinguono in genitali ed extragenitali, in interni ed esterni. Le gonadi (negli animali, ovario, testicolo o ovariotestis) e i gonodotti sono caratteri sessuali primari, mentre altre differenze anatomiche nei due sessi costituiscono i caratteri sessuali secondari. Quando sia possibile distinguere il genere di un individuo anche senza esaminarne le gonadi, si parla di dimorfismo sessuale. I caratteri sessuali secondari iniziano a comparire durante la pubertà in seguito alla stimolazione ormonale. Essi compaiono prima nelle femmine, più tardi nei maschi. Quando la crescita fisica è completata, il corpo del maschio e della femmina presenta diverse differenze. I caratteri maschili sono per esempio: la crescita dei peli e della barba, l’allargamento delle spalle e il rafforzarsi dei muscoli, l’ingrandimento del pene, dei testicoli e della prostata e la comparsa del pomo d’Adamo. I caratteri femminili sono per esempio: la crescita dei peli sul pube, la crescita del seno, l’allargamento del bacino, e l’inizio delle mestruazioni.
Per intenderci meglio sull’argomento in questione, si potrebbe aggiungere che la determinazione del sesso è il processo biologico mediante il quale si definisce il sesso di un organismo, cioè quella funzione per la quale il nuovo nato assume le caratteristiche di uno dei due sessi. Il sesso di un individuo può essere determinato dal patrimonio cromosomico degli organismi genitori o da alleli autosomici, cioè per ereditarietà; in alcuni animali, invece, può esservi influenza di talune condizioni ambientali. Nei mammiferi e in altri animali si ha una delle coppie di cromosomi, detta eterosomica, differenziata per i due sessi. Per la femmina della specie umana la coppia comprende due cromosomi uguali (XX), nel maschio diseguali (XY). I gameti contengono uno solo di questi cromosomi: l’ovulo un cromosoma X, lo spermatozoo invece un cromosoma X o un cromosoma Y. Per questa ragione il sesso maschile nei mammiferi viene detto eterogametico, quello femminile omogametico. L’ovulo può essere fecondato da uno spermatozoo recante il cromosoma X o da uno spermatozoo recante il cromosoma Y, ed è il cariotipo risultante dalla fecondazione dell’ovulo a stabilire il sesso del nascituro. Nello zigote si troverà una coppia cromosomica XX se il nascituro sarà una femmina, oppure una coppia XY se maschio. Nella femmina dei mammiferi, negli stadi iniziali dello sviluppo uno dei due cromosomi si inattiva (casualmente) per avere gli stessi livelli fisiologici dei geni espressi nel cromosoma X del maschio (effetto Lyon). Il DNA inattivo del cromosoma X rimane presente sotto forma di eterocromatina.
Noi umani, come altri mammiferi, mostriamo differenze sessuali caratteristiche, sia nel nostro cervello che nei nostri tratti psicologici, ma cosa significano?
Le differenze sessuali esistono davvero. Esistono maschi e femmine e, oltre alla diversità dei genitali, ragazzi e ragazze si comportano, davvero, diversamente. La domanda – e la difficoltà – sta nello stabilire da dove provengono queste differenze comportamentali. Sono i comportamenti dei sessi evolutivamente espressi e programmati differentemente oppure sarebbe la cultura a spiegare le differenze comportamentali osservate? Le risposte potrebbero essere sì e sì, ma, sfortunatamente, le spiegazioni biologiche e culturali sono così spesso viste come reciprocamente esclusive che una via di mezzo può essere difficile da discernere. Il dibattito sulle origini delle differenze comportamentali tra i sessi, infatti, tende a polarizzarsi in posizioni estreme, con argomentazioni fittizie che vengono erette e rovesciate da ogni campo, mentre epiteti di “neuro-sessismo” o di “negazionista della differenza tra sesso” vengono mossi attraverso il divario.
Il dibattito tra “natura” e “cultura”, come è stata coniata in certi ambienti la questione, è particolarmente controverso al momento. Sia i sostenitori della posizione che asserisce che i comportamenti umani di gender siano determinati dalla predisposizione biologico-genetica, sia i sostenitori della posizione che afferma che i tratti comportamentali siano determinati dalle influenze dell’apprendimento e da altre influenze dell’ambiente culturale, assicurano che la ricerca più recente in materia dimostrerebbe la propria posizione. I risultati degli studi di neuroimaging6 vengono indicati come “prova definitiva” che il cervello di uomini e donne sia, davvero, innatamente diverso e che queste diversità spiegherebbero le differenze che vediamo nel comportamento. Tuttavia, gli stessi studi vengono indicati come prova documentale del fatto che in realtà non esista un “cervello maschile” o un “cervello femminile” e che eventuali differenze osservabili tra i sessi non avrebbero origine innate ma sarebbero gli effetti della crescita in un ambiente dominato dall’ideologia di genere. In ogni caso, vengono tratte importanti implicazioni per la politica sociale, basate sull’interpretazione privilegiata delle prove.
Nel suo recente libro, The Gendered Brain (2019), la neuro-scienziata Gina Rippon argomenta contro il “mito” delle differenze biologiche innate e afferma che le differenze cerebrali e comportamentali deriverebbero invece dalle forze culturali. Dal suo punto di vista, la sua analisi fornirebbe prove convincenti che gran parte della ricerca storica in questo settore è stata (e, in alcuni casi, continua ad essere) guidata da un’agenda apertamente o implicitamente sessista, intenta a trovare prove scientifiche dell’inferiorità femminile.
Diversa è la posizione dello psicologo Jordan Peterson che sostiene su Twitter che: “Le differenze sessuali sono abissali, biologiche e innate. La scienza è chiara e la disciplina che affermi il contrario è delirante.” In un memo ormai famigerato, l’impiegato di Google James Damore nel 2017 ha affermato che le differenze sessuali innate negli interessi e nelle attitudini spiegano in parte le differenze osservate nelle scelte professionali, in particolare la relativa mancanza di donne nei campi STEM (e in Google). Damore è stato prontamente licenziato per i suoi commenti intemperanti e ampiamente criticato da molti commentatori. Tuttavia, in altri ambienti, è stato celebrato come coraggioso sostenitore della libertà di parola e della verità scientifica.
Entrambe le parti possono finire per litigare maliziosamente sulle loro posizioni. Peterson, ad esempio, sostiene che il divario retributivo può essere spiegato perché le donne ottengono un punteggio più alto, in media, nel tratto della personalità della gradevolezza, argomentando, di conseguenza, che la formazione delle donne a essere meno gradevoli migliorerebbe il loro successo finanziario sul posto di lavoro. Nel frattempo, lo scienziato cognitivo Steven Pinker ha esaminato recentemente in un articolo sul New York Times il motivo per cui le donne fanno più della loro parte delle faccende domestiche cercando di escludere le differenze sessuali biologiche come un possibile fattore. Anche se aveva ragione, il suo apparente oblio delle radicate norme patriarcali ha eliminato ogni simpatia che avrebbe potuto trovare sui social media. Lo psicologo Michael Reichert ha sostenuto, anche sul New York Times, che “la violenza maschile scaturisce da ciò che i ragazzi apprendono su cosa significhi essere un uomo”, al contrario di qualsiasi tendenza innata all’aggressione fisica. E lo sostiene nonostante l’evidenza scientifica dimostri che le differenze sessuali nell’aggressione fisica siano universali tra le società umane, abbiano una logica evolutiva convincente, si manifestino nella maggior parte delle altre specie di mammiferi e abbiano meccanismi biologici ben elaborati.
Gran parte della discussione culturale sulle differenze tra i sessi viene fatta, nelle parole attribuite al filosofo William James, da persone che semplicemente “riorganizzano i loro pregiudizi” in modo da privilegiare le prove a sostegno della loro posizione, concentrando, al contempo, il bagliore di un riflettore scettico su risultati contraddittori. Rippon, ad esempio, giustamente critica le scarse documentazioni del neuroimaging che sostengono di aver trovato differenze cerebrali biologicamente fondate e direttamente responsabili delle differenze nel comportamento osservate tra i sessi. Tuttavia, è molto meno critica nei confronti della letteratura altrettanto traballante che afferma che la plasticità del cervello può determinare differenze nella struttura del cervello macroscopico, che a sua volta potrebbe spiegare le differenze comportamentali.
Ovviamente, siamo tutti umani: tutti soggetti a questo tipo di bias di conferma [parzialità della conferma]. Almeno la posizione di un ricercatore sulla questione principale delle origini delle differenze comportamentali sessuali viene, in genere, resa esplicita. Ma le persone che lavorano in diverse discipline e leggono varie letterature intratterranno anche una serie di credenze sussidiarie sottostanti che sono meno evidenti e che influenzano fortemente il modo in cui pesano i vari tipi di prove o di argomentazioni. Potrebbero avere forti precedenti posizioni a riguardo se gli individui abbiano o meno innate predisposizioni psicologiche e se tali tratti siano influenzati dalla genetica; se i risultati negli animali siano rilevanti o meno per la psicologia umana; se le menti umane siano state modellate dal loro recente passato evolutivo; se l’esperienza possa rimodellare la struttura del cervello o se i tratti della personalità svolgano un ruolo maggiore nello spiegare il comportamento.
Queste differenze profonde ma solitamente non dichiarate nelle posizioni di partenza degli studiosi e dei commentatori che parlano l’uno con l’altro non sono corrette nei confronti del pubblico in generale. Possono persino portare a interpretare gli stessi dati in modi diametralmente opposti, il che solleva la questione di dove si trovi, effettivamente, la solida base scientifica. Stando a Kevin Mitchell, in nessun luogo ciò sarebbe più evidente che nell’interpretazione dei risultati del neuroimaging.
In uno studio del 2015 che ha dato origine all’ipotesi del “mosaico del cervello”, la psicologa Daphna Joel dell’Università di Tel Aviv e colleghi hanno analizzato scansioni cerebrali di oltre 1.400 persone, alla ricerca di differenze di volume statisticamente significative tra le regioni del cervello dei due sessi. Stando alla loro ricerca, all’inizio avrebbero individuato 10 regioni che mostrerebbero tali differenze, alcune più grandi nei maschi, altre nelle femmine. A prima vista, stando a Mitchell, le loro scoperte sembravano sostenere l’idea che i cervelli maschili e femminili fossero strutturalmente distinti. Tuttavia, riconsiderando i dati, ciascuna delle 10 regioni sotto esame differisce, comunque, di volume tra gli individui ma con la distribuzione semplicemente spostata leggermente più in alto o più in basso nell’altro sesso. Il team della Joel avrebbe, poi, identificato che pochissime persone avevano mostrato valori estremi “maschili” o “femminili” per tutte e 10 le regioni. Invece, la maggior parte avrebbe mostrato uno schema di valori che ricade principalmente nelle zone sovrapposte, con appena una tendenza generale verso un’estremità o l’altra.
Daphna Joel e i suoi colleghi hanno concluso che il cervello di maschi e femmine non appare categoricamente distinto. In altre parole, questo significa che non esisterebbe un “cervello maschile” o un “cervello femminile”. Piuttosto, suggeriscono che il cervello di ogni individuo sia un “mosaico” di regioni mascolinizzate e femminilizzate, il che implicherebbe che non dovremmo aspettarci differenze sessuali biologicamente determinate nel comportamento. Tuttavia, nel giro di pochi mesi, diversi altri ricercatori, come Jonathan Rosenblatt, Marco del Giudice e Adam Chekroud, avrebbero dimostrato che gli stessi dati potrebbero essere utilizzati in modo molto affidabile per classificare i cervelli individuali come maschili o femminili. Mentre il volume di ogni singola area potrebbe essere considerato come un predittivo affidabile del sesso, un’analisi multivariata offre un’ottima discriminante. In questa lettura, il cervello di maschi e femmine non sarebbe dimorfico, con due forme completamente diverse, come i genitali, ma, invece, mostrerebbe una serie correlata di spostamenti nelle dimensioni di varie caratteristiche, simile a ciò che si osserva per i volti maschili e femminili, che sono anche facilmente distinguibili. Le differenze tra sesso e tra genere nel cervello sono di grande interesse sociale perché si presume che la loro presenza dimostri che gli esseri umani appartengano a due categorie distinte, come accade in termini di genitali e che, quindi, giustifichi il diverso comportamento di maschi e femmine.
Un altro studio di neuroimaging che ha attirato l’attenzione dei media per le letture contrapposte che ha generato è quello intrapreso nel 2014 dalla neuro-scienziata Madhura Ingalhalikar e colleghi dell’Università della Pennsylvania. In questa ricerca vennero misurate le connessioni tra le regioni del cervello e vennero stabilite alcune differenze sessuali nell’organizzazione, con le femmine che tendevano ad avere più connessioni tra i due emisferi e i maschi che avevano un po’ più di fronte-retro all’interno di ciascun emisfero. Stando all’interpretazione che Mitchell fa dello studio di Ingalhalikar, i dati sembravano piuttosto solidi e in linea con i risultati precedenti di una maggiore connettività emisferica nelle femmine. Tuttavia, gli autori sono stati criticati per il modo in cui avevano interpretato i risultati. Secondo i loro critici, Ingalhalikar e colleghi, avrebbero ipotizzato – piuttosto liberamente – che “i cervelli maschili sono strutturati per facilitare la connettività tra percezione e azione coordinata, mentre i cervelli femminili sono organizzati per facilitare la comunicazione tra modalità di elaborazione analitica e intuitiva”. Nel comunicato stampa per il loro articolo, hanno affermato che le differenze potrebbero spiegare perché “gli uomini sono più propensi a imparare e svolgere un singolo compito a portata di mano, come andare in bicicletta o navigare in direzioni, mentre le donne hanno capacità di memoria e cognizione sociale superiori, rendendole più attrezzate per il multitasking e la creazione di soluzioni che funzionano per un gruppo’.
Secondo Mitchell, in assenza di un nesso causale tra le differenze osservate nella struttura del cervello e quelle nel comportamento, tali affermazioni sarebbero puramente speculative. Né gli esempi scelti di presunte differenze sessuali nel comportamento sarebbero particolarmente convincenti, come quello di sostenere che gli uomini siano psicologicamente più adatti al ciclismo. Affermazioni come queste si basano su inferenze non supportate dal fatto che esistano stretti legami tra la dimensione dei frammenti del cervello e le prestazioni di comportamenti umani complessi.
Nel contempo, ci sono buone documentazioni che suggeriscono che i cervelli maschili e femminili sono strutturalmente diversi su scala macroscopica. Numerosi recenti studi di neuroimaging su larga scala avrebbero individuato numerose piccole ma correlate differenze che distinguono, collettivamente, cervelli maschili e femminili nei campioni studiati. Tuttavia, il solo fatto di osservare tali differenze non dimostrerebbe, secondo Mitchell, che siano guidati da fattori biologici innati. In effetti, un argomento importante – avanzato da Rippon, tra gli altri – è che tali differenze sarebbero causate dal nostro cervello che reagirebbe alle diverse esperienze di maschi e femmine in una cultura che è pervasivamente di genere.
E se la focalizzazione sull’imaging cerebrale [neuroimaging] fosse un depistaggio nella guerra circa le differenze tra i sessi?
I nostri cervelli sono, ovviamente, altamente plastici e organizzati per rispondere all’esperienza. La maggior parte di quella plasticità avviene, però, stando ad Ami Citri e Robert Malenka, su scala microscopica e cambiando i pesi delle connessioni tra i neuroni. L’idea che l’esperienza appresa culturalmente possa determinare differenze macroscopiche nella dimensione dei frammenti del cervello sarebbe, in ogni caso, qualcos’altro. Tale affermazione si basa su un numero limitato di studi, come quello di Eleanor Maguire e i suoi colleghi, realizzato nel 2000, che intendeva dimostrare che i tassisti di Londra avrebbero un ippocampo posteriore più grande, “notizia” che sembra aver acquisito una dimensione mitica, nonostante la base di prove collettive sia piuttosto limitata.
L’idea che le aree cerebrali possano crescere con l’utilizzo o che i livelli di attività neurale possano cambiare, in modi specifici, a livello regionale a causa della qualità dell’esperienza è, per Kevin Mitchell, sia vaga che speculativa. Il suo ragionamento in contrasto a quest’idea è questo: se effettivamente usiamo tutto il nostro cervello per tutto il tempo, almeno quando siamo svegli, allora se il tessuto cerebrale fosse davvero come un muscolo, il nostro cervello si spaccherebbe, fuoriuscendo dalle nostre scatole craniche. Inoltre, aggiunge che se la crescita di un’area si verificasse a spese delle regioni vicine (il che sembrerebbe comunque un difetto di sviluppo), allora ci sarebbe da aspettarsi un modello complementare di differenze cerebrali, cioè ogni frammento che sarebbe relativamente più grande nei maschi sarebbe adiacente a un frammento che sarebbe relativamente più piccolo, il che, secondo lui, non si osserva.
Dato che le differenze sessuali neuro-anatomiche, come sostiene Antonia Kaczkurkin e il suo gruppo di ricerca, sarebbero costantemente osservate nei bambini e persino riportate nei neonati di appena un mese, stando alle ricerche del gruppo di Douglas C. Dean, e sono, anche, onnipresenti su altre specie animali, con meccanismi di sviluppo ben elaborati in molti casi, come documenta la ricerca di Joseph R. Knoedler e il suo gruppo, sembra probabile che le differenze neuro-anatomiche tra i sessi osservate negli umani siano il risultato di programmi di mascolinizzazione o femminilizzazione dello sviluppo del cervello. Ma ecco il punto: noi, onestamente, non sappiamo cosa significhino queste differenze. Davvero, secondo Kevin Mitchell, non ne abbiamo idea. E questo non sarebbe il caso unicamente per le differenze sessuali perché, onestamente, non sappiamo cosa significhino nemmeno le differenze nella dimensione dei piccoli frammenti del cervello. E questo, nonostante gli innumerevoli sforzi per collegare la variazione delle dimensioni di questa o quella regione del cervello o di questo o quel tratto nervoso a una corrispondente variazione dei tratti psicologici o comportamentali, e non mancano i rapporti più svariati di tali correlazioni in letteratura.
La relazione tra parti del cervello e funzioni o comportamenti cognitivi non è semplicemente così modulare. Pretendere di renderla così sarebbe solo una versione moderna della frenologia, in cui le dimensioni e la forma delle depressioni e dei dossi sul cranio avrebbero dovuto rivelare le dimensioni delle aree cerebrali sottostanti e la conseguente psicologia degli individui. La complessità dei circuiti cellulari e della connettività di una determinata regione è troppo grande per essere mappata in modo diretto alla quantità di proprietà neuronale che essa occupa.
Quello che sappiamo è che la maggior parte delle cosiddette differenze tra i sessi conosciute nel cervello di altri animali si trovano in popolazioni piccole ma importanti di cellule, situate in minuscole regioni cerebrali con nomi esotici come “nucleo interstiziale dell’ipotalamo” o “nucleo del letto della stria terminalis”. Queste strutture controllerebbero principalmente l’organizzazione subconscia del comportamento e della fisiologia, con ruoli importanti nell’accoppiamento, nella fisiologia riproduttiva, nei comportamenti sociali, nel monitoraggio delle minacce, nell’aggressività, nella paura, nell’equilibrio energetico e simili. Al contrario, mentre l’informazione della corteccia cerebrale risulta facile da maneggiare con il neuroimaging, stando a Mitchell, non è la corteccia cerebrale ciò che conta quando si tratta del tipo di differenze comportamentali a cui siamo interessati.
L’attenzione al neuroimaging potrebbe essere considerata, quindi, un depistaggio nella guerra per la differenza di sesso. La tecnologia non è semplicemente in grado di rilevare tutte le differenze che potrebbero esistere nei circuiti neurali tra uomini e donne, né gli scienziati sono in grado di interpretare quelle differenze che la tecnologia sarebbe in grado di rilevare, né tanto meno di risolvere il problema di quali delle differenze che presumibilmente osserviamo associate al comportamento del maschio e della femmina siano dovute a fattori biologici o culturali.
Un’area ugualmente contestata nello studio della base delle differenze dei comportamenti sessuali è poter stabilire se le differenze nei tratti psicologici, compresi tratti della personalità, come coscienza, aggressività, impulsività, assunzione di rischi, cura amorevole degli altri e così via, potrebbero determinare differenze osservabili nel comportamento. Il fatto che tali tratti psicologici, che si ritiene riflettano alcuni processi cerebrali di base, differiscono in modo coerente tra maschi e femmine, sembra favorire una spiegazione biologica delle differenze di comportamento. Ma, come nel caso delle differenze neuro-anatomiche, osservare semplicemente le differenze in tali tratti non è sufficiente per risolvere il dibattito sulle loro origini o effetti. Secondo Mitchell, ciò che si osserva è piuttosto uno spettro che va da tratti in cui le differenze sessuali hanno una base biologica chiara e conservata, che guidano o determinano fortemente i comportamenti, a tratti le cui origini sono più oscure e il legame con il comportamento molto più tenue. I tratti psicologici con la più forte evidenza di origini biologiche sono, non a caso, quelli più strettamente legati alle strategie di riproduzione e accoppiamento.
La preferenza sessuale, infatti, sembra la meno controversa e la più ovvia. Così ovvia che viene spesso trascurata, come se, per impostazione predefinita, accadesse che alcuni esseri umani siano attratti dai maschi e alcuni dalle femmine. Questi stati, stando a Kevin Mitchell, però non accadono e basta. Essi sarebbero il risultato di un programma di mascolinizzazione o femminilizzazione dei circuiti neurali che mediano l’attrazione sessuale, con principi e meccanismi ben elaborati in altri mammiferi. Anche l’aggressività fisica è strettamente legata alle strategie di accoppiamento e mostra forti differenze tra i sessi. I maschi umani sono molto più violenti fisicamente delle femmine, in tutte le culture, commettendo la stragrande maggioranza di gravi attacchi e omicidi e costituendo, contemporaneamente, la maggior parte delle vittime. Una simile differenza di comportamento tra i sessi si osserva in molti mammiferi, inclusa la maggior parte dei primati, in accordo con le pressioni ecologiche della competizione per i compagni.
Queste differenze nella sessualità e nell’aggressività vengono interpretate da Mitchell come strettamente legate alle strategie e ai comportamenti riproduttivi. Inoltre, stando a lui, sono differenze attese da una prospettiva evolutiva, hanno correlazioni dirette in altre specie e sono associate a meccanismi neurali specifici che stanno iniziando a essere ben chiariti negli organismi modello. Dalla sua prospettiva, non c’è alcuna buona ragione per cui un’origine biologica per queste differenze nella sessualità e nelle strategie e comportamenti riproduttivi dovrebbe essere controversa. Ma, poi, tali differenze non sono in realtà le cose su cui gran parte del dibattito pende. Di molta più rilevanza sembrano le possibili differenze nelle capacità cognitive, nei tratti della personalità, nelle attitudini e negli interessi.
Molto è stato scritto, nel corso dei secoli, sulle capacità cognitive apparentemente inferiori delle donne. In effetti, i moderni test QI non mostrano alcuna differenza nei punteggi medi tra uomini e donne (anche se gli uomini mostrano una varianza più elevata) e in molti paesi le ragazze ora superano regolarmente i ragazzi negli esami accademici. Vi sono, tuttavia, differenze misurabili in abilità cognitive molto specifiche, come un vantaggio maschile nella rotazione mentale di oggetti tridimensionali e un vantaggio femminile nella fluidità verbale. La differenza nella rotazione mentale si manifesta presto, all’età di quattro o cinque anni, è di dimensioni moderate ed è osservata universalmente tra le culture. Molto sarebbe fatto da queste differenze. Un rapporto dell’OCSE (Organization for Economic Co-operation and Development) del 2017 ha esaminato le prove secondo le quali “gli studenti con punteggi più alti nei test delle abilità spaziali avevano sostanzialmente maggiori probabilità di entrare in carriera nella scienza e nella matematica”, ma lo stesso rapporto sintetizzava i dati che mostravano che l’abilità spaziale era fondamentalmente malleabile e poteva essere migliorata dalla formazione e dall’esperienza, suggerendo un gioco di natura e cultura.
Anche nelle società più individualistiche, ci sono limiti alla misura in cui noi, autonomamente, “creiamo” noi stessi
Stando a Tim Kaiser, Marco del Giudice e Tom Booth, ci sono altre differenze tra i sessi coerenti con i tratti della personalità. In particolare, le femmine hanno, in media, un grado leggermente più alto nei tratti generali di nevroticismo, piacevolezza e coscienziosità. I maschi, invece, tendono ad avere un punteggio più alto in tratti come l’assertività, la ricerca di sensazioni e la dominanza, mentre le femmine hanno un punteggio in media più alto nella gregarietà, nella socievolezza e nella cura amorevole degli altri. Nelle analisi psicometriche degli interessi, le femmine mostrano, costantemente, un maggiore interesse per le persone, mentre i maschi mostrano un maggiore interesse per le cose. A differenza dei comportamenti sessuali e dell’aggressione, la maggior parte di questi tratti cognitivi e della personalità non sono così convincentemente legati al successo riproduttivo o ai ruoli ecologici. E, dal momento che non hanno correlazioni dirette in altre specie, sappiamo molto meno delle loro basi biologiche. Potrebbero avere, secondo Mitchell, origini biologiche (poiché le differenze genetiche influenzano questi tratti in senso generale) ma ci sarebbe, anche, ampio spazio per effetti culturali che avrebbero un’influenza importante.
Se le origini di queste differenze nei tratti delle personalità tra i sessi rimangono poco chiare, anche le loro conseguenze lo sono. Eppure discutere sui tipi di effetti che queste piccole differenze medie nei tratti psicologici hanno sui modelli di comportamento del mondo reale e sui modelli di riuscita sociale sembrano essere i veri punti di forza del dibattito. In breve, ciò che socialmente sembra interessare è trovare una risposta a domande quali se le donne siano o no adatte alle carriere nelle aree della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica (le cosiddette aree STEM)? Oppure se il divario retributivo sia dovuto a differenze nei tratti come la gradevolezza? In generale, stando a Christopher J. Soto, le correlazioni tra i tratti della personalità e una varietà di riuscite sociali conseguenti – felicità, rendimento scolastico, prestazioni lavorative, salute, longevità – sarebbero deboli e il potere predittivo per gli individui sarebbe molto basso. E questo è, secondo Mitchell, quando guardiamo l’intera gamma di valori dei tratti attraverso l’intera popolazione. Ma le differenze tra i sessi discusse qui sono minuscole rispetto a quell’intervallo, il che significa che qualsiasi valore predittivo per gli esiti è ridotto di conseguenza.
Quando le cosiddette scoperte scientifiche vengono interpretate per il consumo dei media o del dibattito popolare, la complessità e il dinamismo alla base della relazione tra i tratti della personalità sono, in genere, sottostimati. Il nostro comportamento non è, semplicemente, determinato, momento per momento, mettendo a punto questi parametri. Le predisposizioni innate, sostiene Mitchell, forniscono una base, cioè tendenze iniziali a comportarsi in un modo o nell’altro. E queste tendenze iniziali influenzano, come argomenta Sarah Hampson, il modo in cui interagiamo con il mondo e lo sperimentiamo soggettivamente, nonché i tipi di ambienti, aggiungono Scarr & MacCartney, che selezioniamo e costruiamo. Queste tendenze, affermano McAdams & Pals possono avere un effetto cumulativo su come emergono le nostre abitudini e i nostri caratteri individuali, su come ci adattiamo ai nostri ambienti e sulle aspettative che ci poniamo. Ma l’idea che ciò avvenga senza alcuna influenza esterna sembra piuttosto ingenua.
Anche nelle società più individualistiche, ci sono limiti alla misura in cui noi stessi siamo in grado di autodeterminarci autonomamente. Le riuscite sociali non sono, semplicemente, espressione delle libere scelte degli individui, come sembrano suggerire alcuni commentatori. Per quanto riguarda le differenze tra i sessi, dobbiamo considerare fattori più ampi in gioco, come suggerisce Anne Fausto-Sterling, tra cui le dinamiche di gruppo, l’affiliazione di genere, la presenza o l’assenza di modelli di ruolo, le norme e le aspettative della società, la discriminazione sessuale e altri effetti sistemici della cultura, come puntualizzano Martin, Ruble & Szkrybalo nel loro lavoro Cognitive theories of early gender development.
Certamente, per alcuni comportamenti, queste forze possono agire collettivamente per amplificare le differenze medie di piccoli gruppi nella psicologia e nella formazione delle abitudini, fissando aspettative che si rafforzano da sole. Ad esempio, l’aggressività (di natura non violenta) potrebbe essere premiata nei maschi, mentre verrebbe scoraggiata nelle femmine. Per altre differenze, come la scelta delle professioni, la cultura potrebbe imporre norme e aspettative arbitrarie che non riflettono affatto le differenze biologiche innate.
Dato quanto poco sappiamo su come tutti questi fattori interagiscono, sembra del tutto prematuro e un po’ arrogante affermare che le piccole differenze osservate su misure di tratti psicologici basate su ricerca di “laboratorio” siano una spiegazione sufficiente delle differenze osservate nelle riuscite sociali. Non abbiamo una carta nel mazzo del tipo “Esci dall’evoluzione gratuitamente” ma non siamo, nemmeno, robot di carne il cui comportamento sia determinato dalle posizioni di alcune manopole e interruttori, indipendentemente da qualsiasi forza della società. Una cosa potrebbe essere considerata chiara: non si affronterà mai la complessità dei meccanismi interattivi in gioco se il dibattito rimane polarizzato nei termini descritti. Abbiamo bisogno di una sintesi di scoperte e prospettive dalla genetica, dalle neuroscienze, dalla psicologia e dalla sociologia, non una guerra tra di loro per iniziare a reinterpretare quanto sappiamo su sesso, cervello, sessualità, cultura e comportamenti di gender. Per oggi possiamo solo dire questo: sembra che il cervello umano non appartenga a una di queste due categorie distinte: cervello maschile / cervello femminile. Per cui sembra che invece di interpretare il cervello umano come dimorfico esso sia da essere spiegato come un “mosaico” che oltrepassa i condizionamenti del sesso e dei genitali.
FONTE IMMAGINI: jskompani – pixabay
- Dimorfismo: la presenza, in una specie animale o vegetale, di due categorie di individui, che presentano forme diverse. Per dimorfismo sessuale s’intende la differenza morfologica fra individui appartenenti alla medesima specie ma di sesso differente. Queste differenze possono consistere: nelle maggiori dimensioni del maschio rispetto alla femmina e questo vale per molti mammiferi e uccelli,tuttavia, vi sono animali nei quali avviene l’esatto opposto, ossia le dimensioni della femmina sono maggiori rispetto a quelle del maschio, questo succede in molti insetti, aracnidi, pesci, e anche in alcuni uccelli (ad esempio tra falconi-formi, dove le differenti dimensioni dei due componenti della coppia ne riducono la competizione per il cibo, poiché cambia la taglia delle prede di ciascuno) e mammiferi (ad esempio, l’iena maculata). Le differenze possono consistere anche nella diversa colorazione dei due sessi (dicromatismo sessuale), dove è solitamente il maschio a essere più colorato della femmina (molti galliformi, uccelli del paradiso), ma vi sono anche casi dove avviene l’esatto contrario, cioè il dimorfismo inverso, presente, ad esempio, in beccacce striate, falaropi, ecc.). Le differenze del dimorfismo sessuale si esprimono anche nella presenza o assenza in uno dei due sessi di determinate strutture come corna (cervi), zanne (suini), piume allungate e/o colorate, pungiglioni, ecc. Infine le differenze relative al dimorfismo sessuale si possono esprimere anche nella presenza o assenza in uno dei due sessi di determinati comportamenti (istinto parentale, aggressività innata, ecc.). Spesso, il dimorfismo sessuale conta più di una delle sopracitate caratteristiche: ad esempio, i pavoni maschi hanno dimensioni maggiori delle femmine, sono inoltre più colorati e possiedono lunghe penne ocellate sul codione.
- In biologia per carattere si intende una qualsiasi caratteristica di un organismo; questo attributo è determinato dall’informazione genetica contenuta in uno o più geni nello stesso organismo. Non va confuso con il fenotipo che non indica il carattere ma piuttosto lo stato in cui questo si trova.
- La riproduzione sessuata (o sessuale, o gametica, o anfigonia, o più semplicemente gamia), è la formazione di un nuovo organismo dall’unione di due cellule sessuali, dette gameti, ciascuna proveniente da uno dei due genitori.
- Genere, in biologia, carattere degli organismi dioici che permette di distinguere gli individui appartenenti alla stessa specie in maschio e femmina; nelle scienze naturali, in particolare botanica e zoologia, categoria tassonomica che raggruppa le specie secondo caratteristiche comuni; nelle scienze sociali, concetto afferente all’identità personale in rapporto alla rappresentazione sociale e al sesso biologico
- Sesso e Genere. Come detto il sesso riguarda le differenze biologiche ed anatomiche tra maschio e femmina, il corredo cromosomico, la forma dell’apparato sessuale, ecc, Il genere dunque è appreso e non innato.
- Neuroimaging, o imaging cerebrale, è l’uso di varie tecniche per la mappatura diretta o indiretta della struttura, della funzione o della farmacologia del sistema nervoso. Il Neuroimaging rientra in due grandi categorie: (a) neuroimaging strutturale, che si occupa della struttura del sistema nervoso e della diagnosi di malattie intracraniche gravi (su larga scala), come un tumore o una lesione. (b) neuroimaging funzionale, che viene utilizzato per diagnosticare malattie e lesioni metaboliche su scala più fine (come la malattia di Alzheimer) e anche per la ricerca psicologica, neurologica e cognitiva e la costruzione di interfacce cervello-computer. Il neuroimaging funzionale consente, ad esempio, la visualizzazione diretta dell’elaborazione delle informazioni da parte dei centri del cervello. Tale elaborazione fa sì che l’area interessata del cervello aumenti il metabolismo e “si illumini” durante la scansione. Uno degli usi più controversi del neuroimaging è stato la ricerca dell'”identificazione del pensiero”, o “lettura della mente”.