Se invece di parlare di squilibrio chimico parlassimo di persone e società in difficoltà

Riflessioni sulla tendenza alla semplificazione nella costruzione sociale della realtà
27 Aprile, 2024
Tempo di lettura: 12 minuti

BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno X • Numero 39 • Settembre 2021

La diagnosi politicamente corretta dello squilibrio chimico per le sofferenze psichiche

La sofferenza quotidiana, quelle condizioni o sentimenti provocati da circostanze difficili che sorgono nella vita di tutti, è qualcosa con cui noi, esseri umani, conviviamo e contendiamo da millenni. Negli ultimi decenni assistiamo, però, ad un drastico cambiamento nel modo in cui approcciamo a tali afflizioni. In passato, una persona che attraversava un momento di difficoltà, a seconda del livello di istruzione e del ceto sociale di appartenenza, poteva, ad esempio, tenere un diario, consultare una guida spirituale o morale, oppure farsi assistere da qualche sacerdote o sciamano. Ora, però, questo sostegno è stato delegato dal bio-potere alla farmacologia, prevalentemente. Invece di curare, per traslati, il cuore o di consolare la psiche oggi prendiamo una pillola per curare il disagio nella sua sede: il cervello.

Viviamo in un tempo il cui paradigma di pensiero riguardo le sofferenze psichiche1 potrebbe essere riassunto nel titolo dell’ultimo libro del sociologo Joseph E Davis: “Chemically Imbalanced: Everyday Suffering, Medication, and Our Troubled Quest for Self-Mastery” (2020).2 “Chimicamente Squilibrato: sofferenza quotidiana, farmaci e la nostra travagliata ricerca dell’autocontrollo” (così lo si potrebbe reinterpretare in italiano), è un rapporto basato sulla esperienza clinica di Davis su come le persone comuni, che hanno a che fare con problemi relazionali, sia nelle sfere emotive che affettive, spiegano le loro sofferenze psichiche ai terapeuti, utilizzando sempre più il linguaggio meccanicistico del corpo e del cervello. Si tratta di un rapporto in cui troviamo una fotografia del cambiamento in corso nella razionalità sociale. Ora la psicopolitica, che ci fornisce i termini con cui interpretare le nostre sofferenze emotive, affettive e relazionali, ci propone di considerarle come uno squilibrio neurochimico nel cervello che deve e può essere riparato attraverso mezzi chimici.

Questo paradigma interpretativo si è radicato nelle nostre conversazioni sociali e culturali influenzando il modo in cui noi, come società, immaginiamo noi stessi e immaginiamo cosa costituisca una buona vita. Davis avverte che ciò che immaginiamo come una rivoluzione neurologica, in cui la sofferenza psichica sarebbe semplicemente un problema meccanicistico, ha conseguenze preoccupanti. Egli sostiene che allontanandoci da una visione interpretativa e che crea significato di noi stessi, vanifichiamo le nostre possibilità di arricchire le nostre esistenze e di apprendere importanti intuizioni su noi stessi e le condizioni sociali in cui viviamo.

Certamente, oggi come prima, troviamo le nostre sofferenze, emotive, affettive o relazionali che siano, stridenti e ingiuste. In passato, le modalità culturali di gestirle erano fondamentalmente di carattere magico religioso. Nel presente, tra le risposte culturali più prestigiose per liberarcene troviamo la farmacologia, partendo dall’assunto che le nostre sofferenze siano causate da uno squilibrio chimico nel nostro cervello per cui una cosiddetta depressione viene trattata con un così designato antidepressivo. Oggi, siamo inclini ad accogliere con favore la diagnosi di un disturbo neurobiologico causato da uno squilibrio neurochimico anziché considerarci persone in difficoltà, attori di una società in difficoltà, nella gestione dei nostri disagi emotivi, affettivi e relazionali. In questa prospettiva, la proposta della biopolitica è che tutto ciò che bisogna fare è prendere una pillola.

Le neuroscienze, anziché confermare l’approccio della teoria neurochimica causale, svelano un quadro complesso e indeterminato

Questo cambiamento dell’atteggiamento del pubblico verso una teoria biogenetica o neurochimica causale viene celebrato come segno che l’opinione pubblica è diventata “edotta” e ha sviluppato una comprensione più scientifica delle sofferenze psichiche ed esistenziali. Milioni di occidentali sono oggi convinti che i loro pensieri, comportamenti e sentimenti spiacevoli siano causati da uno squilibrio neurochimico o neurobiologico e che basterebbe individuare la sostanza drogale mancante e le sofferenze verrebbero fatte scomparire. L’idea che il proprio disagio sia causato principalmente da un deficit neurochimico che può essere corretto da un farmaco è, però, stando a Davis, una finzione. Di fatto, le neuroscienze non sostengono la nozione di semplice causa ed effetto, documentando, invece, dinamiche assai complesse e indeterminate, per cui non ci sarebbero prove per giustificare la continua promozione di teorie unidimensionali come lo “squilibrio chimico”. Né lo richiede l’uso benefico dei farmaci per ristabilire l’equilibrio neurochimico. In effetti, il loro preciso meccanismo d’azione e il loro rapporto con l’esperienza problematica del disagio rimangono, come documenta Irving Kirsch, un fatto ancora incomprensibile. Questo spinge Davis a sostenere che sarebbe più veritiero, sia per i professionisti della salute e del benessere psichico, sia per le campagne di salute pubblica, riconoscerlo apertamente.

Senz’altro, come documentato da Davis, certe cerchie socio-culturali spesso trovano attraente il linguaggio di approcci che propongono schemi di disfunzioni biogenetiche o neurochimiche. Tali schemi forniscono alle stesse un modo per stabilire la loro sofferenza come tangibile e offrono loro, altresì, un resoconto semplice con una prognosi positiva per le loro sofferenze. Tuttavia, l’idea stessa che per essere “reale”, la sofferenza psichica ed esistenziale debba corrispondere ad un qualche tipo di malfunzionamento fisiologico sarebbe, stando a lui, profondamente fuorviante.3 Certamente, abbandonare questa premessa riduzionista potrebbe ripristinare questioni più profonde dell’esperienza e del significato fenomenologico della sofferenza relazionale, emotiva ed affettiva.

Tra le domande che vengono cancellate con l’approccio dello squilibrio neurochimico si può annoverare una di particolare rilievo: In che modo le esperienze difficili delle persone, esperienze che inducono vergona, ansia o delusione, sono collegate alle loro relazioni con gli altri e il mondo che le circonda e come vengono interrotte queste relazioni? Si tratta di una domanda che non trova uno spazio logico nella privatizzazione dell’esistenza umana entro i parametri e le pareti dello studio, medico, terapeutico o ambulatoriale che sia. A questo proposito si potrebbe considerare che così come l’idea che il proprio disagio sia causato principalmente da una deficienza neurochimica da correggere con un farmaco sia una finzione, ugualmente l’idea che spieghi l’esperienza in prima persona o che offra qualche esenzione dalla responsabilità relazionale e sociale sia, anch’essa, una finzione. Le persone, in ogni caso, adottano il resoconto biogenetico o neurochimico perché pensano che sia basato sulla scienza.

 

Il caso della dopamina nella scienza popolare del piacere contesta proprio l’idea della causa unica

Nel suo ultimo libro4, il popolare neuroscienziato Dean Burnett fa una considerazione che potrebbe essere di interesse per chiunque eserciti un mestiere di prestazioni nell’ambito della salute e del benessere psicofisico nonché per noi in quanto consumatori dei loro servizi. La sua considerazione rivolta ai suoi colleghi affermati nel campo delle neuroscienze è che quando la loro materia inizia ad essere parte del discorso mediatico mainstream si deve prendere atto che con l’attenzione del pubblico, di per sé una buona cosa, si introducono confusioni e, innanzitutto, semplificazioni su questioni molto complesse. Per illustrare la sua affermazione, lui prende in analisi l’esempio della dopamina e il piacere. La sua analisi risulta molto utile per illustrare la posizione degli studiosi delle neuroscienze che considerano una finzione l’idea che il disagio psichico sia causato principalmente da un deficit neurochimico correggibile con un farmaco. Ed è proprio per questa ragione che me ne avvalgo per suggerire una riflessione circa la tendenza alla semplificazione insita nella costruzione sociale della realtà.

La dopamina, una delle tante sostanze chimiche (dette anche neurotrasmettitori5) presenti nel cervello umano, svolge molte funzioni. Tuttavia, se dovessimo seguire esclusivamente il contesto in cui la dopamina viene menzionata in gran parte della cultura moderna, saremmo perdonati per aver concluso che ha solo una funzione fondamentale, molto specifica, nel cervello umano: produrre felicità e piacere, anche se la complessità del piacere, come impara ogni studioso della materia intellettualmente onesto, va oltre il rilascio della dopamina. Di fatto, questo è uno dei risvolti della scienza nell’era del marketing quale biopolitica di gestione della quotidianità esistenziale.

“Ecco come aumentare i livelli di dopamina”; “Consigli semplici per far fluire la tua dopamina”; “La nuova tendenza per il digiuno da dopamina”; “Questo (sito web/app/dispositivo/attività) è avvincente perché manipola il tuo sistema di dopamina”: questi sono solo alcuni esempi di notizie e blog online, su decine di migliaia. Il messaggio generale di tali articoli è chiaro: più dopamina c’è nel tuo cervello, più piacere provi e più felice sarai. Certamente, non sarebbe affatto una cosa negativa se le persone fossero più consapevoli del funzionamento biologico del loro cervello, inoltre la dopamina è, per davvero, nel paradigma della neuroscienza, una componente integrale di come sperimentiamo la felicità.

Analizzando la questione in un modo più articolato, la nostra capacità di provare piacere, come sensazione fondamentale di qualcosa di piacevole o “bello”, sarebbe un prodotto di quello che è noto come il “sistema della ricompensa”6, un circuito, piccolo ma cruciale, che si trova nel profondo del cervello. Come si potrebbe sospettare, la dopamina è considerato il principale neurotrasmettitore coinvolto nella funzione del sistema di ricompensa. Questa è la ragione del perché sia spesso chiamato il sistema di ricompensa della dopamina. Quindi, se l’attività della dopamina nel cervello dà un contributo vitale alla sensazione di piacere e il piacere è un aspetto chiave della felicità, allora è logico pensare che aumentando i livelli di dopamina ci si renda più felice.

In questo modo di percepire le cose c’è, però, una logica che si potrebbe giudicare, se non altro, come superficiale. Di fatto, tale logica non regge data la scoraggiante complessità e inter-connettività dei nostri cervelli.7 In merito, ci sarebbe una significativa quantità di prove per documentare che semplicemente “aumentare la tua dopamina” non porta automaticamente “alla tua felicità”. E questa documentazione arriva, di sorpresa, attraverso la ricerca sulla malattia di Parkinson. La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che si sviluppa quando la substantia nigra, una regione del mesencefalo coinvolta nella coordinazione del movimento (tra le altre cose), inizia a morire.8 Simile a ciò che fa nel sistema della ricompensa, la dopamina svolge anche un ruolo vitale nella funzione della substantia nigra. Una terapia di riferimento per la malattia di Parkinson consiste nel farmaco Levodopa9, che maschera i sintomi del Parkinson aumentando la disponibilità di dopamina nel cervello, compensando così la perdita della substantia nigra.

Fondamentalmente, la Levodopa aumenta i livelli di dopamina. Se l’aumento dei livelli di dopamina nel cervello portasse automaticamente al piacere e alla felicità, allora la Levodopa dovrebbe essere una delle droghe ricreative più popolari della storia. Invero, non è affatto così. Prendere la Levodopa, come documentano la ricerca in neurofarmacologia clinica di Marsden,10 è, in realtà, piuttosto sgradevole. Ecco perché non si vedono i malati di Parkinson in un costante stato di euforia.

Chiaramente, un aumento generalizzato della dopamina non innesca un corrispondente aumento della felicità. Fa sentire peggio, semmai. Questo non vuol dire che la dopamina non sia un contributo biologico chiave alla nostra capacità di sentirci felici; è solo che c’è molto di più. La verità sarebbe che l’azione del sistema della ricompensa e, quindi, la nostra esperienza di felicità e piacere, viene determinata da molti più fattori oltre alla quantità di dopamina che si riversa nel nostro cervello. Certamente la dopamina è necessaria affinché il percorso della ricompensa funzioni ma molte altre sostanze chimiche sono coinvolte in vari modi.

Anche le endorfine, oppiacei naturali del cervello, ne sono un ovvio esempio. La classe di farmaci oppiacei (eroina, morfina, ecc.) interagisce con i recettori oppioidi nel cervello e nel sistema nervoso a cui le endorfine si legano. Sia le endorfine che i farmaci associati che le imitano, stimolano l’attività nel sistema della ricompensa, inducendo un senso di euforia. Questo è il motivo per cui i farmaci che imitano le endorfine sono narcotici così potenti. Anche in questo caso, però, la storia è complicata. Piuttosto che indurre piacere o “renderci felici”, il ruolo biologico primario delle endorfine (e dei farmaci oppiacei), come documenta la ricerca, sembra essere più legato alla prevenzione o alla gestione del dolore.

L’ossitocina, un neuropeptide, è un’altra sostanza chimica del cervello che viene spesso menzionata nel contesto della felicità. Chiamata regolarmente “l’ormone delle coccole” o “l’ormone dell’amore”, l’ossitocina riceve attenzione per i potenti ruoli che svolge nelle relazioni interpersonali e nei legami umani. Viene rilasciato in risposta a esperienze sociali positive e agisce, direttamente, sui neuroni nel sistema di ricompensa, il che contribuisce a farci sentire bene nell’interagire con gli altri in modi benefici. I livelli di ossitocina sono particolarmente alti durante l’attività sessuale o riproduttiva, il che aiuta a spiegare perché le persone con le quali abbiamo un legame erotico e anche i nostri figli possano essere una fonte così potente di felicità. Detto questo, però, l’ossitocina non si limita ad aumentare gli incontri emotivi positivi. Infatti, la ricerca suggerisce che l’ossitocina amplifica tutti gli incontri emotivi, anche quelli negativi. Quindi, ancora una volta è necessaria una sfumatura e chiamarla una “sostanza chimica che produce felicità” non è, evidentemente, l’intera storia.

La serotonina è un’altra sostanza chimica del cervello coinvolta nella felicità. È il neurotrasmettitore preso di mira dagli antidepressivi moderni più comunemente prescritti, quindi, sicuramente potremo dire che svolge un ruolo importante nel renderci più felici. Purtroppo, non è proprio così. Essa è, effettivamente, più un modulatore di stati d’animo ed emozioni. La sua presenza significa soltanto che i sistemi neurologici che controllano l’umore sono in grado di svolgere meglio il loro lavoro. In sostanza, rende più facile per il nostro cervello provare felicità e piacere. Utile, certo, ma indirettamente.

Ci sono ancora più sostanze chimiche del cervello, meno conosciute nel mainstream (ma tecnicamente più importanti nel cervello), che hanno anche ruoli importanti nella nostra esperienza di felicità. Ad esempio, il glutammato è raramente menzionato negli articoli di tendenza sul benessere, nonostante sia il neurotrasmettitore eccitatorio più abbondante e principale nel cervello dei mammiferi come suggerisce la ricerca. Forse è per questo che non riceve molta attenzione da parte dei media: fa troppo per attribuirgli una funzione particolare. Tuttavia, una di queste funzioni è l’attivazione del percorso della ricompensa. In effetti, la droga ketamina stimola parti del sistema del glutammato, il che potrebbe spiegare perché sia così potente e perché sia un altro narcotico molto popolare. I ricercatori stanno anche studiando  il potenziale della ketamina come antidepressivo, individuando ulteriormente il ruolo del glutammato nella felicità.

Ultimo ma non meno importante, si consideri il ruolo rilevante nella felicità del GABA (acido gamma-aminobutirrico), il neurotrasmettitore inibitorio più comune e potente nel cervello umano. Mentre la maggior parte degli altri neurotrasmettitori sono eccitatori, nel senso che causano più attività nei neuroni con cui interagiscono, il GABA fa il contrario: sopprime o interrompe l’attività nei neuroni con cui entra in contatto. GABA è come un semaforo rosso. Semmai, questo lo rende più importante; non possiamo immaginarci un sistema di traffico cittadino che avesse solo luci verdi.

Finora è stato suggerito che il piacere, attraverso l’attivazione del percorso della ricompensa, è una parte fondamentale della felicità, quindi potrebbe sembrare strano che il GABA, una sostanza chimica inibitoria, svolga un ruolo. Ma si tenga presente che la felicità può essere causata dall’assenza di stress o dall’assenza di altre emozioni negative che ci lascia più felici per impostazione predefinita. In effetti, tra molte delle aree neurali che il GABA “chiude” ci sono quelle coinvolte nello stress e nelle emozioni negative. Inoltre, si pensa che una perdita di attività GABA dalle regioni del cervello coinvolte nelle emozioni, come l’amigdala, contribuisca una serie di disturbi d’ansia. Le benzodiazepine, come il diazepam, agiscono, principalmente, inducendo l’attività del GABA. Lo stesso vale per i loro predecessori chimicamente molto simili, ma ancora più potenti, i barbiturici. Il fatto che benzodiazepine e barbiturici ci facciano provare piacere e diano molto assuefazione (soprattutto questi ultimi) suggerisce fortemente che il GABA, nonostante chiuda le cose, può facilmente anche aumentare la nostra felicità.

 

Le esperienze difficili richiedono conversazioni interpretative complesse

Non si sta sostenendo che queste varie sostanze chimiche del cervello, in particolare la dopamina, non abbiano ruoli importanti, persino cruciali, da svolgere nella nostra esperienza di felicità. Lo svolgono chiaramente. Ed è forse un bene che la nostra visione culturale della felicità e del benessere stia gradualmente diventando di natura più materialistica, piuttosto che ideologica o qualsiasi altra cosa meno tangibile, e, quindi, molto più aperta all’interpretazione (e, eventualmente, ad una manipolazione benefica). Quello che preoccupa in merito a quest’argomentazione non è tanto il numero di persone che insistono sul fatto che la dopamina sia un fattore importante nel modo in cui funziona la felicità nel nostro cervello. Ciò che si vuole sottolineare è la preoccupazione perché essa venga ritenuta, con vari gradi di estremità, l’unico fattore in gioco. In effetti, si spera di aver illustrato, che non è proprio così. Insistere diversamente, intenzionalmente o meno, è inutile. Il fatto importante è che nonostante tutto ciò che si sia argomentato qui, per quanto complesso e confuso possa sembrare a volte, è solo un aspetto di un quadro molto più ampio. È più utile esaminare l’intero sistema, indipendentemente da quanto potremmo voler scomporlo in singoli componenti.

Ridurre la felicità a una questione di prodotti chimici di base, specialmente uno solo, è impreciso ed eccessivamente riduzionista. Così facendo, si rischia perfino che la stessa logica venga applicata ad altri aspetti della psiche umana. Quando le condizioni complesse sono viste puramente in termini di interazioni chimiche11 di base, rischiamo di ignorare i complessi fattori psicologici e sociologici che determinano il benessere di una persona.

Il trattamento della salute e del benessere psichico richiede coinvolgere il linguaggio delle persone. Ciò significa prestare attenzione alle esperienze e alle circostanze reali delle persone – o pazienti che siano. E significa incoraggiarle ad evitare la posizione del riduzionismo neurochimico e ad attingere ai modi in cui le persone danno un senso alle proprie emozioni e azioni. In questo linguaggio quotidiano, ci riferiamo intuitivamente alle intenzioni e ai desideri e alle ragioni di una persona per pensare, agire o sentire in un determinato modo. Infatti, quando spieghiamo un’esperienza difficile, di solito non parliamo di causalità o di meccanismi ma presupponiamo, nella nostra azione e in quella degli altri, un certo grado di libertà e controllo. Inoltre, prestiamo attenzione alle relazioni, alla storia e al contesto sociale, così come agli eventi avversi, alle circostanze confuse o ai sogni non realizzati. A differenza dell’immagine meccanica di un malfunzionamento del cervello, questo linguaggio consente una forma di comprensione che può portare stati mentali insoliti e stimolanti nella conversazione e nelle relazioni di una persona con il mondo.

Recuperare questa conversazione interpretativa significa circoscrivere nettamente il discorso biogenetico o neurochimico. Significa cercare la comprensione, che è ciò per cui le persone che hanno a che fare con la sofferenza emotiva bramano. Una comprensione come persone incarnate e situate in un mondo di relazioni. Certamente, l’apertura ad un tale orizzonte di senso, feconda per me e tanti altri che condividiamo gli stessi valori, non sembra far parte dell’agenda del bio-potere che, in quanto popolazioni, ci gestisce, sia nei termini di come vivere che di come morire.

______________Note _________________

1 Il termine psiche si usa tradizionalmente per individuare l’insieme di quelle funzioni cerebrali, emotive, affettive e relazionali dell’individuo.

2 Joseph E Davis: Chemically Imbalanced: Everyday Suffering, Medication, and Our Troubled Quest for Self-Mastery. The University of Chicago Press, 2020

3 Ibidem

4 Dean Burnett. Psycho-Logical: Why Mental Health Goes Wrong, and How to Make Sense of It. Guardian Faber Publishing. 04.02.2021

5 I neurotrasmettitori sono sostanze chimiche, di cui si servono i neuroni, cioè le cellule del sistema nervoso, per comunicare tra di loro, per agire sulle cellule muscolari o per stimolare una risposta da parte delle cellule ghiandolari

6 Il sistema di ricompensa è un gruppo di strutture neurali responsabili della motivazione, dell’apprendimento associativo, e delle emozioni positive, in particolare quelle che coinvolgono il piacere come componente fondamentale (ad esempio, gioia, euforia ed estasi).

7 Dean Burnett. The Happy Brain: The Science of Where the Happiness Comes From and Why. Faber and Faber, 2018

8 La malattia di Parkinson si manifesta quando la produzione di dopamina nel cervello cala consistentemente. I livelli ridotti di dopamina sono dovuti alla degenerazione di neuroni, in un’area chiamata Sostanza Nera (la perdita cellulare è di oltre il 60% all’esordio dei sintomi).

9 La levodopa è il precursore del neurotrasmettitore dopamina. Agisce attraversando la barriera ematoencefalica per entrare nei neuroni dopaminergici, dove viene rapidamente convertito in dopamina supplendo così a sue carenze.

10 C. D. Marsden. Problems with long-term levodopa therapy for Parkinson’s disease. In “Clinical neuropharmacology”, Suppl. 2: S32-44, 1994

11 Joseph E Davis. Let’s avoid talk of ‘chemical imbalance’: it’s people in distress. In “AEON+PSYCHE”, 14 July 2020

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