Social media: Impatto dell’iperstimolazione sulle attività predittive del cervello

Programmazione comportamentale via social media L‘impatto della iperstimolazione sulle attività predittive del cervello
23 Marzo, 2024
Tempo di lettura: 17 minuti

BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno X • Numero 39 • Settembre 2021

 

Il ruolo dei social media nella nostra percezione valutativa di noi stessi

Una corrente crescente di studiosi nell’ambito delle neuroscienze inizia a sostenere, con la documentazione fornita dalle loro ricerche, che i social media attualmente ci facciano sentire malissimo riguardo su chi siamo realmente. Alcuni di loro, come i ricercatori in neuroscienze e tecnologie digitali, Mark Miller e Ben White, si sono spinti di recente1 a sostenere che proprio le neuroscienze ci spiegano il perché i social network creano volutamente un’immagine deformata di ciò che comunemente viene chiamato il nostro Sé. Nella loro argomentazione sostengono perfino che le documentazioni che emergono dalla ricerca delle neuroscienze sui social e sul processo predittivo del cervello ci autorizzano a reagire contro una tale biopolitica.

Per inquadrare in modo veloce la prospettiva dalla quale ci si pone il problema di come i social vengono disegnati e gestiti si considerino questi come accenni di un fenomeno dei social conosciuto per il suo account TikTok levijedmurphy dove pubblica video comici e ha 2,8 milioni di fan sulla piattaforma.

Si tratta di Levi Jed Murphy,2 penetranti occhi azzurri, zigomi alti, labbra carnose e una mascella affilata come un rasoio. Questo look, dice, gli è costato circa £ 30.000. Murphy è un influencer di Manchester, UK. Parlando del suo approccio alla crescita dei suoi fan, afferma che, se una foto non riceve un certo numero di “Likes” entro un determinato periodo di tempo, viene eliminata. I suoi interventi “chirurgici” con Snapchat3 sono semplicemente un modo per ottenere una rapida convalida: “Essere belli è importante per… i social media, perché, ovviamente, voglio attirare un pubblico”, dice.

Il rapporto di Murphy con i social media può essere considerato come una singolare manifestazione delle preoccupazioni espresse dal filosofo Guy Debord, nella sua opera classica “La società dello spettacolo” (1967)4. Già allora Debord affermava che la vita sociale si stava spostando “dall’avere all’apparire” e che qualunque “avere” doveva, quindi, trarre il suo prestigio immediato e il suo scopo ultimo dalle apparenze.” In un tale processo, osservava, “tutta la realtà individuale diventa sociale”. Debord riconosceva che gli individui erano sempre più assillati dalle forze sociali, un’osservazione premonitrice alla luce della successiva ascesa dei social media. Ma come un teorico politico che scriveva negli anni ’60, stando a Miller e White, Debord avrebbe faticato a vedere, in modo articolato, come questo spostamento verso le apparenze potesse influenzare la psicologia e il benessere umano e perché persone come Murphy potessero sentire il bisogno di intraprendere azioni drastiche riguardo alla propria apparenza.5

Oggi, la ricerca sostiene che i social media sono implicati in una serie di problemi di salute mentale. Un rapporto della Royal Society for Public Health nel 2017 collega l’uso dei social con depressione, ansia e dipendenza.  Di fatto, alcuni ex influencer si sarebbero rivoltati contro le loro piattaforme e avrebbero scelto di evidenziare i pericoli di curare un’immagine di sé compulsivamente senza la disponibilità economica di effettuare gli acquisti necessari per apparire sulla piattaforma. Nel frattempo, alcune piattaforme avrebbero sperimentato modifiche al design volte a proteggere la salute degli utenti, come limitare la visibilità dei “Likes” su un post.

 

I social deformerebbero il modello generativo delle nostre elaborazioni predittive utilizzando iper-stimolatori dei nostri meccanismi cogniti e affettivi

Le preoccupazioni sui social sono diventate ormai conversazioni del grande pubblico nelle loro rispettive camere d’eco condotte in modalità autoreferenziale e con quel controllato dosaggio di allarmismo terroristico-adrenalinico che scade, con lucida banalità, nell’imminente breaking news orario oppure con una semplice battuta di “passiamo ad altro”. I ricercatori, però, devono ancora chiarire gli specifici meccanismi cognitivi che spiegano il prezzo che i social avrebbero sul nostro benessere psicologico. Al riguardo, viene sostenuto da studiosi della materia che i nuovi progressi nelle neuroscienze computazionali sarebbero pronti a far luce su questo argomento. Infatti, esperti come White, Miller e Anil K. Seth, segnalano come l’architettura stessa di alcune piattaforme di social assuma la forma di ciò che alcuni ricercatori ora chiamano “iper-stimolatori”, cioè dei sistemi di consegna digitale problematici per stimoli gratificanti e potenzialmente avvincenti. Secondo una nuova teoria6 leader nelle neuroscienze, nota come elaborazione predittiva,7 gli iper-stimolanti possono interagire con specifici meccanismi cognitivi e affettivi per produrre, esattamente, i tipi di esiti patologici che vediamo emergere oggi, come ci avverte apertamente lo studioso di neuroscienze cognitive e computazionali Anil K Seth.8

La teoresi che cerca di spiegare i possibili danni al nostro benessere psicologico a carico dei social media, utilizzando la ricerca nell’ambito delle neuroscienze computazionali, considera che l’elaborazione predittiva faccia del cervello un “motore di previsione”, qualcosa che cerca, costantemente, di prevedere i segnali sensoriali che incontra nel mondo e di ridurre al minimo la discrepanza (chiamata “errore di previsione”) tra tali previsioni e il segnale in arrivo. Nel tempo, tali sistemi creerebbero un “modello generativo”, vale a dire una comprensione strutturata delle regolarità statistiche nel nostro ambiente che verrebbe utilizzata per generare previsioni. Questo modello generativo, stando a Miller, Kiverstein, Rietveld ed altri, costituisce, essenzialmente, un modello mentale del nostro mondo, che include sia informazioni immediate, specifiche per il compito, sia informazioni a lungo termine che costituiscono il nostro senso narrativo del nostro sé o della nostra identità. Secondo questo quadro, i sistemi predittivi ridurrebbero al minimo gli errori di previsione in due modi: o aggiornano il modello generativo per riflettere in modo più accurato il mondo, oppure si comportano in modo da allineare meglio il mondo con la loro previsione. In quest’interpretazione, il cervello farebbe parte di un sistema predittivo incarnato che si muove sempre dall’incertezza alla certezza e, riducendo le sorprese potenzialmente dannose, ci manterrebbe vivi e vegeti.

Per fare un esempio pratico di questa teoria della materia organica che prevede facendosi rotta nell’incertezza si consideri la temperatura corporea sana e attesa di 37°C per un essere umano. Uno spostamento in entrambe le direzioni si registra come un picco nell’errore di previsione, segnalando che l’organismo si sta muovendo in uno stato inaspettato e quindi potenzialmente pericoloso. Questo aumento dell’errore di previsione ci viene restituito come sensazioni di disagio, stress e inclinazione a fare qualcosa per ottenere una migliore presa predittiva sulla realtà adeguandola alle nostre ed altrui aspettative. Potremmo semplicemente sederci lì e fare i conti con il cambiamento di temperatura (aggiornare il nostro modello generativo), oppure potremmo prendere una coperta o aprire una finestra. In questi casi, ciò che stiamo facendo è agire sul nostro ambiente, campionare il mondo e cambiare la nostra relazione con esso, al fine di riportarci entro limiti accettabili di incertezza.

 

 

 

 

 

 

Secondo il quadro emergente dalla ricerca sull’elaborazione predittiva, cognizione e affettività sarebbero aspetti strettamente intrecciati dello stesso sistema predittivo. Gli errori di previsione non sarebbero semplicemente punti dati all’interno di un sistema computazionale. Piuttosto, gli errori di previsione in aumento ci farebbero sentire male, mentre la risoluzione di errori in linea con le aspettative ci farebbe sentire bene, come chiunque di noi può verificare dalla propria esperienza soggettiva. Ciò significa che, come organismi predittivi, noi ci ritroveremo predisposti, evolutivamente, a cercare attivamente ondate di errori di previsione gestibili – incertezza gestibile – perché risolverli ci farebbe sentire bene. Infatti, stando a Melaine McGrath,9 il recente aumento delle vendite di puzzle durante il blocco COVID-19 testimonia il nostro amore per l’incertezza gestibile. Questi sentimenti, a parere di Miller, Kiverstein e Rietveld si sono evoluti per mantenerci ben sintonizzati con il nostro ambiente, aiutandoci a sperimentare strategie nuove e di successo per la sopravvivenza, evitando, allo stesso tempo, tutto lo stress e le spiacevoli situazioni che derivano dall’incertezza incontrollata, come puntualizzano le studiose Jessica Flack e Melanie Mitchell.10 Questa relazione attiva, ricorsiva e sentita con l’ambiente è fondamentale per comprendere come i social media possano essere dannosi per la nostra salute mentale e perché spesso troviamo così difficile smettere di usarli.

Certamente, per poter ponderare se i social, effettivamente, possano nuocere il nostro equilibrio psicologico, bisogna fare luce anche su cosa si intenda per benessere psicologico. In merito, lo studioso della cognizione umana, Guy Claxton suggerisce11 che vivere bene, in termini di elaborazione predittiva, significa essere in grado di gestire efficacemente l’incertezza e questo richiede avere un modello generativo che rappresenti “accuratamente”, in termini adattativi, il mondo. A questo proposito, un modello generativo che rifletta male, in termini di fitness, le regolarità dell’ambiente porta, inevitabilmente, a un aumento delle previsioni sbagliate e a un’ondata di errori di difficile risoluzione. I teorici dell’elaborazione predittiva stanno iniziando a sviluppare nuovi resoconti delle condizioni di salute mentale o di benessere psicologico, concentrandosi sull’efficacia del modello generativo di una persona. La depressione, ad esempio, è stata descritta come una forma di “rigidità cognitiva”, in cui il sistema non riesce a regolare quanto sia sensibile al feedback correttivo dal mondo.

In questa teoria dell’elaborazione predittiva e di gestione dell’incertezza, per le persone in buona salute mentale il feedback emotivo consente loro di sintonizzare, in modo flessibile, le proprie aspettative riguardo le regolarità dell’ambiente. A tale proposito, a volte ha senso “cancellare” un errore di previsione come solo rumore anziché vederlo come qualcosa che richiede un cambiamento nel proprio modello generativo del mondo; altre volte, ha senso cambiare il proprio modello a causa dell’errore. Nella depressione, i ricercatori ipotizzano che noi umani perdiamo questa capacità di andare avanti e indietro tra stati più o meno “sensibili”, il che si traduce in un errore di previsione crescente e ingestibile. Alla fine, ci si arriva a prevedere l’inefficacia e il fallimento delle proprie azioni – che a sua volta diventa una previsione che si auto-rafforza, ottenendo una minima soddisfazione dalla conferma. A livello della persona depressa, questo si manifesta in sentimenti come impotenza, isolamento, mancanza di motivazione e incapacità di trovare piacere nel mondo.

Dopo la ricerca sui social media dalla prospettiva delle neuroscienze passata in rassegna, volta a documentare come stressando il modello generativo delle previsioni nel nostro sistema cognitivo aumentino i disagi, sia cognitivi che emotivi, ci si auspica che diminuisca il rischio di bollare come mere asserzioni infondate le richieste di attenzione circa i possibili effetti nocivi dei social sul nostro benessere psicologico. Di fatto, i social si dimostrano un metodo straordinariamente efficace per “deformare”, o meglio, stressare i nostri modelli generativi. I nostri umani modelli generativi di previsioni adattative, che si erano evoluti sinora per la nostra sopravvivenza e fitness riproduttiva, vengono oggi sovraccaricati di esperienze di fallimento circa la nostra capacità di previsioni, sia sul mondo che ci circonda, sia su chi siamo. Inoltre, le funzionalità disponibili per la gestione della narrativa concernente chi siamo generano uno spazio tra l’essere e l’apparire potenzialmente e rischiosamente vasto. Invero, con pochi passaggi, si può alterare, drasticamente, il proprio aspetto, riprendendo, ad esempio, la stessa immagine 20 volte finché il proprio viso non trasuda, puntualmente, la calma padronanza della vita che si desidera proiettare. Man mano che le piattaforme di social media sviluppano funzionalità che ci consentono di presentarci in modo cosiddetto “non autentico”, o semplicemente “ritoccato”, quelle piattaforme diventano potenti generatori di esperienze fallimentari riguardo il proprio sé, inondando i sistemi predittivi dei loro utenti con informazioni imprecise, dicendoci, ad esempio, che il mondo è pieno di persone eccezionalmente belle e felici che vivono vite meravigliosamente lussuose e piacevoli. In genere, nel mondo offline, il nostro modello generativo e le aspettative predittive adattative sono codificate con le informazioni in arrivo dall’ambiente immediato (non filtrato), il che significa che la maggior parte delle volte il modello riflette il mondo accuratamente, cioè in modo adattativo e di fitness. Tuttavia, insistono Miller e White, nei casi di coinvolgimento regolare con i social, le informazioni sul mondo in arrivo vengono accuratamente selezionate e ritoccate il che significa che siamo potenzialmente coinvolti con una fantasia. Per quanto riguarda il temuto passaggio dall’autenticità all’apparenza, vaticinato da Debord, le piattaforme di social media, effettivamente, fungono da piede di porco o palanchino digitale, separando, con forza, il nostro modello generativo dall’ambiente offline. Invece, il nostro modello del mondo reale arriva ad assumere le aspettative generate attraverso quello online e il risultato, logicamente, sono ondate di errore di previsione sempre più ingestibili che il sistema ora deve sforzarsi di minimizzare.

Le azioni apparentemente estreme di Murphy, l’influencer sopramenzionato, sono da intendersi come una strategia per risolvere questo tipo di errore di previsione cognitiva. Secondo a quanto riferito da Miller e White, un recente sondaggio ha rilevato che più della metà dei chirurghi estetici aveva pazienti che chiedevano loro, esplicitamente, procedure che avrebbero migliorato la loro immagine online. Alcuni chirurghi hanno altresì riferito che i pazienti utilizzano immagini migliorate di sé stessi [Snapchat] come esempio di come vorrebbero apparire. Murphy descrive come i filtri gli permettano di “vedere in anteprima” gli effetti delle procedure cosmetiche. Molte altre app svolgono funzioni simili, consentono agli utenti di alterare il proprio aspetto grazie all’utilizzo di filtri e maschere che modificano l’immagine virtuale di sé in un istante.

 

La dismorfia da Snapchat confermerebbe il legame tra social e disturbi riguardanti la propria apparenza

La cosiddetta Dismorfia da Snapchat, cioè la tendenza crescente di alcuni pazienti a ricorrere ossessivamente ad interventi di chirurgia estetica pur di assomigliare all’immagine di sé stessi modificata dai filtri colorati di app come Snapchat o Facetune, ha perfettamente senso nel quadro dell’elaborazione predittiva deformata dallo stress pervasivo creato dal foto-ritocco social con le sue conseguenti aspettative irrealistiche e di abbassamento dell’autostima. Infatti, se ci abituiamo al nostro aspetto foto-ritoccato social e a ricevere tutti i feedback ad esso associati, presto il livello di convalida disponibile offline, cioè nel mondo reale, verrà registrato come errore di previsione in aumento ed è probabile che questo si traduca in sentimenti di stress e inadeguatezza. Inoltre, si può ipotizzare che attraverso la lente dell’elaborazione predittiva, sperimentiamo che effettuare un intervento di foto-ritocco social [Snapchat] per sembrare di più ad un’immagine filtrata sia, semplicemente, fare ciò che il sistema farebbe sempre e non sarebbe manco diverso dall’afferrare una coperta quando la temperatura inizia a scendere. Effettivamente, stiamo continuamente scannerizzando e campionando il mondo per riportarci in uno stato previsto, sia per fitness adattativa, sia per fantasia allucinatoria. Ma i social sono in grado di spostare così tanto l’immagine di sé di cui disponiamo che l’unico modo per correggere l’errore e soddisfare tali aspettative è alterare chirurgicamente il nostro aspetto.

Si prenda atto, tuttavia, quanto sia alta la posta in gioco in questo scenario. Se non siamo in grado di risolvere l’errore e continuiamo a interagire con i social, questo coerente fallimento ci viene restituito, insegnandoci, alla fine, ad aspettarci il nostro stesso fallimento. Attraverso una cascata di previsioni di secondo ordine – previsioni sulla nostra capacità di prevedere con precisione (o meno) – siamo in qualche modo consapevoli dell’utilità attesa delle nostre stesse azioni. Ma quando le nostre azioni falliscono costantemente, perdiamo il senso di fiducia in queste azioni. Alla fine, abbassiamo le nostre previsioni di successo, che sentiamo come una completa disperazione.12 Questo è precisamente lo scenario descritto dai neuroscienziati che lavorano sui resoconti computazionali e sulla depressione menzionati in precedenza: se non riusciamo costantemente a raggiungere le nostre aspettative e, quindi, non riusciamo a riaggiustare quelle aspettative, arriviamo ad aspettarci il fallimento delle nostre azioni. I contenuti non autentici o iper-ritoccati sui social, le immagini di bellezza e lusso, possono fissare tali previsioni come modello, rendendo ancora più difficile per noi riadattare le nostre aspettative alle nostre vite basate sul feedback del mondo reale. Così, i social, inevitabilmente, possono metterci in difficoltà collocandoci difronte ad un divario: o mettiamo il mondo in linea con le nostre nuove aspettative, o rischiamo di scivolare nella depressione e nella disperazione.

Naturalmente, ci sarebbe un modo ovvio per alleviare questi problemi: passare meno tempo online. Per alcuni di noi, questo è più facile a dirsi che a farsi, poiché prove crescenti supportano il sospetto che i social possano creare dipendenza. In effetti, un rapporto approfondito del 2015 ha definito la dipendenza dai social media come una preoccupazione sproporzionata che spinge a utilizzare social che perfino danneggiano altre aree della vita. Gli studi riferiti in questo rapporto stimano che circa il 10% degli utenti mostrano sintomi di dipendenza. È interessante notare che questa è circa la stessa percentuale di persone che hanno problemi con l’alcol, ma mentre gli ami che creano dipendenza dall’alcol sono relativamente ben compresi, quelli dei social media non lo sono. L’elaborazione predittiva potrebbe essere ancora una volta la chiave per comprendere esattamente come le caratteristiche di particolari piattaforme possano avere un tale effetto.

 

Le neuroscienze reinterpretano la dipendenza

Secondo la ricerca sul collegamento tra cognizione, elaborazione predittiva e dipendenza, l’elaborazione predittiva offre una comprensione della dipendenza come un deragliamento dell’allineamento tra i sistemi predittivi e il loro ambiente. La vita contiene molte ricompense e il cervello sperimenta queste ricompense come il raggiungimento di una riduzione dell’errore nella previsione. Da questa prospettiva, contrariamente alla credenza popolare, non sarebbe la dopamina di per sé a essere gratificante, ma la riduzione dell’errore che la accompagna. I neurotrasmettitori come la dopamina semplicemente codificano i comportamenti che impariamo ad anticipare come fornitori di queste ricompense. Da questa prospettiva interpretativa, proprio come farnno varie droghe che creano dipendenza, il panorama in via di sviluppo dalla tecnologia digitale sfrutta questa relazione tra ricompensa e comportamento.

In merito a questa lettura riguardo il ruolo delle tecnologie digitali nella disrupzione della relazione tra ricompensa e comportamento, Gary Wilson sostiene in Your Brain on Porn14 (2014) che la pornografia su Internet si presenta come dannatamente gratificante. Essa, infatti, costituisce un esempio di “iper-stimolazione”. Wilson sottolinea che, in una sera, il porno su Internet facilita livelli di novità sessuale che non sarebbero stati disponibili per i nostri antenati per tutta la vita: più schede o finestre, centinaia di modelli diversi, escalation di feticci, tutti elementi che tramano per avere i nostri circuiti di ricompensa che urlano “Diamine, stiamo andando molto meglio di quanto avessimo mai pensato possibile!” quando, in realtà, stiamo solo fissando uno schermo, da soli. La novità è qualcosa di particolarmente allettante, poiché il nostro cervello è sempre alla ricerca di nuovi modi di simulazioni per imparare a ridurre l’errore, nuovi modi per fare meglio del previsto. La questione è che questo ammontare di stimolazione o presunta novità viene registrato dai nostri cervelli come un’enorme opportunità per esercitarsi nella risoluzione dell’incertezza ma ciò che accade, in realtà, è che il nostro circuito di ricompensa nel cervello va in iperattività, rafforzando, in modo spropositato, questi particolari comportamenti di ricerca compulsiva della ricompensa e creando, di conseguenza, una dipendenza.

Tale interpretazione porta a Miller, Kiverstein e Rietveld a proporre che ciò che la pornografia è per il sesso, le piattaforme di social lo siano per il nostro appetito intrinseco di socializzazione. Impegnarsi in un legame interpersonale significativo attinge a tutti i circuiti di ricompensa menzionati sopra: è bello socializzare e la dopamina codifica l’apprendimento per comportamenti sociali di successo. Una delle principali somiglianze tra i social media e la pornografia sarebbe che entrambi sono un potente veicolo per prendere attentamente la fantasia e presentarla come una realtà raggiungibile. Queste presentazioni di scenari migliori della vita reale (ad esempio, immagini accuratamente messe in scena e filtrate; incontri sessuali estremamente eccitanti nella pornografia) risulterebbero molto allettanti per gli agenti predittivi sempre alla ricerca di modi per migliorarsi. Sui social, proprio come con il porno online, alti livelli di novità e di eccessi significano che il sistema di ricompensa viene messo a dura prova. Non c’è da meravigliarsi se un rapporto del 2019 ha rilevato che l’adolescente medio negli Stati Uniti ora trascorre più di sette ore al giorno a guardare uno schermo. Attraverso i social media, l’iperstimolazione lavora per riorganizzare il nostro modello predittivo e ristrutturare le nostre abitudini: ci svegliamo e prendiamo il nostro telefono, non usciamo mai di casa senza di esso e ci sentiamo costantemente attratti dai nostri telefoni perfino quando siamo in compagnia di amici.

L’effetto iper-stimolante dei social e delle altre tecnologie digitali in questione, tuttavia, non emerge solo da un eccesso di contenuti accuratamente modificati e da un feedback sociale potenzialmente massiccio. Deriva addirittura da caratteristiche di design deliberate, caratteristiche che avvicinano i social media al gioco d’azzardo anziché alla pornografia, come fa notare Michael Schulson. Nel gioco d’azzardo ciò che è così eccitante (e che crea assuefazione) è l’attesa della ricompensa, o l’aspettativa di una ricompensa incerta, come puntualizza Catalin Borboianu. Infatti, anche le interazioni sociali offline sono spesso imprevedibili, in quanto non sappiamo quando qualcuno potrebbe contattarci o interagire con noi in modi gratificanti. Le piattaforme social, però, sono progettate per aggravare questa anticipazione attraverso la ludicizzazione, in cui funzionalità come progressione, punteggio e assunzione di rischi vengono introdotte in un ambiente non proprio di gioco. I social rendono giocosa l’interazione sociale, principalmente attraverso vari sistemi altamente interattivi di commenti quali Likes [Mi piace], Shares [Condivisioni], Upvotes [Voti positivi] e così via, che si applicano ai contenuti creati dagli utenti. Questo feedback contiene come la misura diretta del “successo” di un determinato post e consente di confrontare la popolarità tra post e poster.

Inoltre, come documenta Rachel Plotnick, in Power Button. A History of Pleasure, Panic, and the Politics of Pushing,17 quando arriva un feedback, non viene immediatamente comunicato all’utente. Piuttosto, riceviamo notifiche sotto forma di un pulsante luminoso o di un suono eccitante che ritarda la scoperta della natura precisa del contenuto in arrivo. Stando alla stessa Plotnick, in Who pushes the button?18, è stato dimostrato che il semplice atto di premere un pulsante per rivelare informazioni innesca l’eccitazione e un comportamento compulsivo. Le funzionalità di nuova concezione sugli smartphone aggiungono ulteriori livelli di anticipazione. La funzione “scorri per aggiornare” del feed di notizie dell’app di Facebook, ad esempio, in cui gli utenti scorrono fisicamente lo schermo per generare un nuovo flusso di informazioni, sarebbe un’azione sorprendentemente simile al tirare il braccio di una slot machine del casinò. In ogni caso, gli utenti non sanno con certezza quale tipo di contenuto verrà visualizzato finché non passano il dito. Questa caratteristica, unita al fatto che il feed di Facebook è ora effettivamente infinito, avrebbe portato a che l’app sia stata descritta come “cocaina crack comportamentale”.

 

Lo spazio digitale dissolve i vincoli temporali e spaziali rendendo fruibile un mondo di interazioni che nella realtà non sarebbe disponibile

Vale la pena notare come lo spazio digitale dissolva i vincoli temporali e spaziali che regolano l’interazione offline, offrendo un eccesso di novità e convalida che semplicemente non è disponibile nel mondo reale. Anche i profili Instagram di discreto successo possono contare tra i 40.000 e i 100.000 follower; gli utenti possono scambiare istantaneamente messaggi diretti con persone che potrebbero essere dei perfetti sconosciuti e, quando gli utenti si annoiano del contenuto con cui stanno interagendo, un rapido scorrimento o un messaggio genera contenuti nuovi, entusiasmanti e imprevedibili. Queste caratteristiche strutturali – che suscitano deliberatamente stati anticipatori e facilitano un potenziale quasi infinito di novità – sono qualcosa che i resoconti deflazionistici della dipendenza dai social spesso non riescono a riconoscere.

Sembra che Debord avesse ragione a preoccuparsi per noi già negli anni ’60. Di fatto, la ricerca dell’impatto dei social sulla cognizione suggeriscono che il distacco dell’apparenza dalla realtà stia arrecando un danno ancora poco conosciuto al nostro benessere. Tale distacco ci spingerebbe ad agire in modo drastico in relazione alla nostra apparenza. Forse l’interpretazione di Debord di queste ansie è riassunta in modo conciso dal gergo di Internet “foto o non è accaduto” [“pics or it didn’t happen”] perché in quest’attuale paradigma di esistenza nello schermo le esperienze stesse sarebbero interamente costituite dal loro aspetto che circola sui social network. Per di più, Debord aveva segnalato che questi danni non emergevano dal vuoto. Il pericolo dei social non risiederebbe solo nell’inautenticità dei contenuti ma nella loro capacità di attanagliarci. Nell’analisi strutturale e critica della società dello spettacolo, oggi dominata dai social, si scorge, difatti, una forza potente che guida la progettazione deliberata dei social, cioè il loro immenso potenziale di monetizzazione. Come scrive il guru del design Nir Eyal in Hooked (2014): “Le aziende scoprono sempre più che il loro valore economico è una funzione della forza delle abitudini che creano”.19

Se si scopre che il coinvolgimento compulsivo con gli iper-stimolanti può portare a condizioni come dipendenza e depressione e finché rimane il fatto che più coinvolgimento significa più profitto, allora i progettisti di social ed altri media avranno di fatto interesse a implementare progetti che portano a qualcosa che, senz’altro, potrebbe essere denominata miseria umana. Il quadro critico emergente descritto si aggiunge al crescente consenso sul fatto che gli iper-stimolanti digitali siano una minaccia per il nostro benessere e dà peso a quelle voci che chiedono un cambiamento nel modo in cui i social media sono progettati, gestiti e regolamentati

______________Note _________________

1 Mark Miller & Ben White, The warped self. In “AEON+PSICHE”, 25 May 2021

2 Levi Jed Murphy, star e influencer dei social media inglese. Iniziò la sua carriera postando video di sincronia labiale sul suo popolare account sulla piattaforma TikTok. Diventato più famoso quando ha aperto l’account OnlyFans insieme al suo ragazzo. I soldi guadagnati con quest’account gli hanno permesso di lasciare il suo lavoro da commesso dalle 9 alle 5 e concentrarsi esclusivamente sulla sua carriera sui social media e sottoporsi a continue procedure cosmetiche. Quando aveva solo 19 anni decise di fare il filler alle labbra. Oltre ad essere un popolare TikToker, Levi Jed Murphy è famoso anche su altre importanti piattaforme di social media, come Instagram, Twitter, YouTube e Facebook. Levi Jed Murphy ha fatto notizia quando ha scelto di sottoporsi a diversi interventi di chirurgia estetica, spendendo circa £ 30.000 per somigliare ad un filtro di Instagram di cui si era innamorato. Oltre ad avere diversi lifting delle labbra, Murphy ha avuto anche lavori al naso, procedure di raddrizzamento dei denti, sollevamento delle tempie e sollevamento degli occhi di gatto. Nel corso degli anni, gli sono stati iniettati anche diversi filler nelle guance, nella mascella, nel mento, nelle labbra e sotto gli occhi. Il suo stile di vita ha contribuito ad aumentare la sua popolarità sui social media che lo ha portato ad avere più di 2.8 milioni di follower.

3 Snapchat è una app conosciuto principalmente per la creazione di messaggi multimediali chiamati “snap”; questi consistono in una foto o in un breve video che l’utente può in seguito modificare con filtri, disegni e effetti speciali. Inoltre vengono aggiunti anche dei filtri vocali per modificare i suoni e le voci all’interno dei video e la modalità che permette di nascondere attraverso un pin segreto alcune foto.

4 Guy Debord. La societe du spectacle. 1967. L’opera descrive la moderna società delle immagini come una mistificazione volta a giustificare i rapporti sociali di produzione vigenti.

5 Diversamente da come la pensano Miller e White, si potrebbe affermare che Debord sia stato piuttosto visionario con le sue considerazioni circa la “separazione delle immagini dalla vita”. Ricalcando “Il capitale” di Marx, Debord ci ricorda che “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli.” Le immagini del mondo dettate dalle necessità della produzione capitalista si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo è considerato come “l’inversione della vita”. “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”, una “visione del mondo che si è oggettivata”. Lo spettacolo, così come lo descrive Debord, è sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione vigente. Non bisogna però pensare che lo spettacolo sia semplicemente irreale. Lo spettacolo inteso come inversione del reale è effettivamente realtà. Debord afferma che “la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale.” Chiaramente l’obiettivo dello spettacolo è quello di legittimare sé stesso oltre che i rapporti sociali di produzione dei quali è guardiano, e di conseguenza si presenta in continuazione (e senza possibilità effettive di contestazioni) come un elemento intrinsecamente positivo. La spettacolarizzazione della realtà prende, in un certo senso, il posto della religione, realizzando “l’esilio dei poteri umani in un al di là” e fungendo da guardiano del sonno dalla “società moderna incatenata”, di cui sarebbe il “cattivo sogno”. Mentre la religione si è imposta, nella concezione di Debord, come fonte di divieti per l’uomo, lo spettacolo mostra all’uomo ciò che egli può fare, ma, “il permesso si oppone assolutamente al possibile”. Anche il momento del non-lavoro è completamente consacrato allo spettacolo e, quindi, funzionale ai rapporti sociali di produzione, di cui lo spettacolo garantisce la conservazione. Garanzia della conservazione è anche l’isolamento delle persone le une dalle altre, ma anche l’isolamento delle masse. “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine.”

6 Mark Miller, Julian Kiverstein, Erik Rietveld. Embodying addiction: A predictive processing account. In “Brain and Cognition”, Vol. 138, 105495, Feb. 2020

7 Il termine codifica predittiva [o predictive processing] è utilizzato in diverse discipline in significati vagamente correlati o non correlati. Nelle neuroscienze, la codifica predittiva è una teoria della funzione cerebrale in cui il cervello genera e aggiorna costantemente un modello mentale dell’ambiente.

8 Anil K Seth. The real problem. In “AEON” 2 Nov 2016

9 Melanie McGrath. On the consolatory pleasure of jigsaws when the world is in bits. In “AEON+PSICHE”, 20 Jan 2021

10 Jessica Flack & Melanie Mitchell. Uncertain times. In “AEON”, 21 Aug 2020

11 Guy Claxton. Virtues of uncertainty. In “AEON”, 17 Sept 2012

12 Mark Miller, Julian Kiverstein, Erik Rietveld. op. cit. Feb. 2020

13 Andreassen, C.S. Online Social Network Site Addiction: A Comprehensive Review. In “Current Addiction Reports”, 2, 175–184, 2015

14 Gary Wilson. Your Brain on Porn. Commonwealth Publishing 24 Aug 2014

15 Michael Schulson. User behaviour. In “AEON”, 24 Nov 2015

16 Catalin Barboianu. Mathematics for gamblers. In “AEON”, 20 April 2021

17 Rachel Plotnick, in Power Button. A History of Pleasure, Panic, and the Politics of Pushing. MIT Press, 2018

18 Rachel Plotnick. Who pushes the button? In “AEON”, 16 Jan 2019

19 Nir Eyal. Hooked: How to Build Habit-Forming Products. Portafolio Penguin, 2014 / Creare prodotti e servizi per catturare i clienti (Hooked). Edizioni LSWR, 2015

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