Quando pensiamo al problema ambientale, abbiamo la cattiva abitudine di immaginarlo disarticolato. Pensiamo al surriscaldamento climatico, ad esempio. Tutti sappiamo cosa sia, e molti di noi conoscono anche i dettagli della sua evoluzione: di quanti gradi è aumentata la temperatura nell’ultimo secolo, o quanto stimiamo di dover ridurre le emissioni di CO2 per mantenere l’innalzamento entro i 2°.
L’Antropocene spazzerà via la razza umana che lo ha generato?
Vi è poi il problema dell’inquinamento degli oceani. Abbiamo tutti stampate negli occhi e nella mente le foto delle gigantesche distese di bottiglie e altri prodotti di plastica che coprono gli oceani. Abbiamo visto che le microplastiche che ne derivano finiscono nella fauna ittica, e, da lì, direttamente nel nostro stomaco. E che dire della deforestazione, con aree delle più grandi foreste della Terra rase al suolo per far posto a piantagioni o allevamenti intensivi?
Affrontare i singoli problemi non ci aiuterà
Ma siamo sicuri che tutti questi problemi siano da prendere in esame singolarmente, e non richiedano piuttosto un approccio integrato? Probabilmente non è così, e non riusciremo mai a fermare l’innalzamento delle temperature senza affrontare, ad esempio, la questione del sovraconsumo di carne o quella della riduzione della fascia di ozono. Tutti questi aspetti rientrano, secondo scienziati ed esperti del settore, nella definizione di “pressioni antropocentriche”. Causate, cioè, dall’attività umana, che sta tristemente plasmando una nuova era geologica con la sua impronta distruttiva.
Lo studio su Nature
Nel 2009 la rivista Nature pubblicò uno studio approfondito, “Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity“. La pubblicazione segnalava i 9 più grandi problemi che l’uomo avrebbe dovuto affrontare per poter continuare a vivere a lungo sul pianeta. Per 7 di essi definì precisi limiti, superati i quali si sarebbero attivate delle dinamiche viziose in grado di far precipitare la situazione sempre più velocemente. Prendendo in esame i 9 aspetti, è facile notare come essi siano strettamente legati l’uno con l’altro, formando una matassa complessa e probabilmente indissolubile. Vediamoli insieme:
– cambiamenti climatici (concentrazione di CO2 nell’atmosfera
– acidificazione degli oceani
– ozono stratosferico
– ciclo biogeochimico dell’azoto (N) e ciclo del fosforo (P)
– consumo globale di acqua dolce
– cambiamento del sistema terrestre
– tasso di perdita della diversità biologica
“I due confini planetari aggiuntivi per i quali non siamo ancora stati in grado di determinare un livello limite sono l’inquinamento chimico e il carico di aerosol atmosferico. Stimiamo che l’umanità abbia già oltrepassato tre confini planetari: per il cambiamento climatico, il tasso di perdita di biodiversità e le modifiche al ciclo globale dell’azoto. I confini planetari sono interdipendenti, perché trasgredirne uno può sia spostare la posizione di altri confini sia farli trasgredire“.
Serve un cambio di paradigma
L’aspetto spaventoso del lavoro pubblicato dagli scienziati è che affrontare uno di questi 9 punti, anche in maniera drastica, non porterà ad una reale soluzione. Abbattere le emissioni di CO2 anche del 100%, per dirne una, non fermerà né rallenterà il surriscaldamento. L’era dell’Antropocene, quella che abbiamo fortemente voluto e che ora potrebbe travolgerci, è ogni giorno più vicina, e ci lascia ogni giorno meno vie di fuga.
Quello di cui abbiamo bisogno, piuttosto, è un cambio di paradigma. Abbandonare questa visione globalizzante che mette la produzione al gradino più alto dello sviluppo, e che induce a deformare il sistema-pianeta da cui la razza umana dipende e dipenderà per sempre. Ma come ottenere un risultato del genere in un mondo in cui la feroce concorrenza fra le nazioni, o fra gli attori economici, è ancora la principale dinamica vitale?
Secondo il grande filosofo e sociologo francese Edgar Morin: «La planetizzazione significa ormai comunità di destino per tutta l’umanità. Le nazioni consolidavano la coscienza delle loro comunità di destino con la minaccia incessante del nemico esterno. Ora, il nemico dell’umanità non è esterno. È nascosto in essa. La coscienza della comunità di destino ha bisogno non solo di pericoli comuni, ma anche di un’identità comune che non può essere la sola identità umana astratta, già riconosciuta da tutti, poco efficace a unirci; è l’identità che viene da un’entità paterna e materna, concretizzata dal termine patria, e che porta alla fraternità milioni di cittadini che non sono affatto consanguinei. Ecco che cosa manca, in qualche modo, perché si compia una comunità umana: la coscienza che siamo figli e cittadini della Terra-Patria. Non riusciamo ancora a riconoscerla come casa comune dell’umanità.”
Quindi la presa di coscienza di questa comunanza terrestre è l’evento-chiave che può consentirci di uscire dall’età delle barbarie, facendoci comprendere che siamo solidali in questo pianeta, e con questo pianeta. È la nostra Terra–Patria.
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