Curarsi con l’Omeopatia implica un cambio di paradigma totale rispetto alla medicina “ufficiale”, anche per il paziente.
Innanzitutto non si curano le malattie ma i pazienti. E questo penso sia stato detto e scritto un’infinità di volte. Forse anche troppe. Detto così sembra qualcosa di semplice per non dire scontato ma, nella realtà, è molto più complesso di quanto sembri.
Curare la persona significa: vederla, osservarla, ascoltarla, accoglierla, mai giudicarla. E questo indipendentemente dai sintomi.
Significa non parlare dei sintomi, non arrivare ad una diagnosi in senso nosografico [elenco di patologie] ma comprendere come il paziente viva quella malattia (quei sintomi), che significato abbia per lui e come interferisca nella sua vita.
Significa avere la curiosità (in senso positivo, non morboso) di conoscere la storia del paziente per comprendere perché quei sintomi si siano manifestati proprio in quel momento e quale sia il percorso che abbia determinato l’insorgenza di quella sintomatologia.
Perché i sintomi non sono una disgrazia, ma indicano che qualcosa non funziona. Grazie, mi direte, altrimenti non ci sarebbero ed il paziente sarebbe sano.
I sintomi indicano che qualcosa non va nella persona, che ci sono delle “incoerenze” tra ciò che è, ciò che vuole, ciò che fa. Solo che questa incoerenza è iniziata molto tempo prima della comparsa dei sintomi stessi. Per questo è importante, per non dire fondamentale, conoscere la storia del paziente ed aiutarlo a leggerla in una chiave diversa.
I sintomi altro non sono se non il migliore adattamento che il nostro organismo ha trovato in quel momento, in quelle determinate situazioni, condizioni. Il miglior adattamento tenendo conto delle capacità, delle esperienze, delle conoscenze che il soggetto aveva in quel momento. E dell’interpretazione della realtà e dei fatti accaduti.
Il lavoro del medico omeopatico non è solo quello di analizzare e gerarchizzare i sintomi per poi trovare il rimedio corretto. Il simile. No. Compito del medico è quello di far rileggere al paziente il libro della sua storia, soffermandosi nei capitolo più importanti, offrendogli la possibilità di dare un’interpretazione diversa dei fatti accaduti, dei legami instaurati, delle rotture avvenute, dei “fallimenti” avuti.
E facendogli vedere anche altre possibilità di lettura della sua storia, della sua vita. Ed anche dei suoi sintomi. Che non sono altro che ambasciatori e non certo distruttori. Che vanno quindi accettati, compresi, accolti e superati. E non soppressi.
Sopprimere un sintomo è come uccidere il grillo parlante: il povero grillo non voleva criticare pinocchio ma fargli notare che stava imboccando una strada pericolosa per non dire rischiosa. Certo, poteva farlo in maniera fastidiosa, non sempre gentile, a volte troppo dura. Ma era sempre a fin di bene.
Un sintomo rimarrà fino a che il “suo proprietario” non avrà compreso cosa gli stia dicendo, fino a che non lo abbia ascoltato. E se non lo ascoltiamo o addirittura lo sopprimiamo, compariranno sintomi più seri, più forti, più gravi…sempre più gravi. Che urleranno sempre più forte nella speranza di essere ascoltati e non la smetteranno fino a che il paziente non capirà che deve fermarsi, riprendere contatto con sé stesso e iniziare a prendersi cura di sé in toto. E non solo facendo analisi, esami strumentali ed ingoiando farmaci ma cambiando e ritrovando la propria “coerenza”