I traghetti li ho sempre odiati.
Odio la fila all’imbarco, sotto il sole aspettando che scannerizzino i documenti e i biglietti.
Odio le scale strette di ferro, più rampe col borsone a tracolla, per salire sui ponti. A volte c’è l’ascensore, però.
Odio quelle sale colorate e ghiacciate dall’aria condizionata tutto il viaggio o i pesanti portelloni da aprire per uscire al vento, ma troppo vento anche per fumare.
Odio l’odore della cabina dove dormirò, odio l’odore della nafta bruciata, odio la lentezza delle manovre nella partenza e nell’approdo al porto di arrivo.
Ma questa volta il viaggio cento e cento volte fatto e sempre odioso, fu diverso per una casualità inaspettata, imprevista come sanno essere le casualità.
Fu l’incontro con un viso conosciuto.
La vista di lineamenti che si ricompongono, svegliati dagli occhi che si toccano.
Entrambi all’unisono girammo la testa per guardarci, mentre affacciate vicine seguivamo il distacco dagli ormeggi.
È come se avessimo sentito in simultanea la presenza, la vibrazione dell’altra.
A seguire la voce che immancabilmente manca in momenti così e che diventa un sussurro o un sospiro sporgersi dalla labbra, mentre si aprivano due sorrisi, il suo e il mio senza ritegno per dirsi ciao.
Ma non ci abbracciammo, né ci prendemmo le mani come a verificare la realtà del momento.
Anzi rimanemmo ferme così, mute, coi gomiti incrociati sulla balaustra di legno scuro laccato, di nuovo a guardare la banchina che si allontana, e cioè il tempo necessario per rallentare il fiato, il cuore, la mente e i suoi ricordi amari.
Clelia, lei, il mio alter ego degli anni giovanili, la mia compagna, la mia vita, la mia goccia d’acqua e di fuoco insieme, sempre insieme.
Lei che tradii.
Sì, le portai via il suo ormai promesso sposo, senza pudore, senza scrupoli, glielo portai via.
Io Sonia, svanendo con lui, scappando pazza e innamorata con lui, dove però in breve non ci fu alcun futuro. Bruciato.
Clelia si stacca ora, se ne va volgendomi le spalle per sempre di nuovo come trent’anni fa, quando scoprì il mio gesto folle.
Clelia se ne va ricordando le visite e le cure che dovette affrontare.
Clelia, intontita tra i corridoi a spigolo e le file di cabine, le rivengono in mente nomi astrusi: Staphysagria (rabbia), Ignatia (dolore), Lycopodium (frustrazione), Gelsemium (ansia), Aconitum (paura), Moschus (isteria), Arnica (trauma), e chissà quanti altri.
Senza chimica e con l’aiuto dei farmaci omeopatici, e del tempo galantuomo, tornò a vivere bella, serena, senza rancori.
Io Sonia, ora sola appoggiata alla balaustra, con la sigaretta fumata dal vento, riprovo il bruciore di quella ferita aperta che porto dentro da sempre per il mio gesto maledetto senza perdono.
Ero giovane.
4 commenti
Teresa
Bellissimo racconto!
Generiamosalute
Grazie
Giuliana Lauro
Una breve storia che riempie il cuore e la mente di tante immagini e ti lascia intravedere un mondo di emozioni . Bel racconto. Mi è piaciuto.
Complimenti alla scrittrice/ore.
Generiamosalute
Grazie per il suo encomio che riferiremo all’autore, il dott. Gaetano Micciché, omeopata e pediatra
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