L’abitudine è un’usanza acquisita dalla ripetizione di atti della stessa natura. Questa nozione di abitudine/usanza non può essere applicata alle virtù morali senza ulteriori precisazioni, non è sempre una virtù. Ovvero un’usanza che produce e aumenta una maggiore Giustizia, Verità, Bontà e Bellezza sia nella persona che nel suo ambiente.
Al contrario di ciò che di solito pensiamo, le usanze non sono decisioni libere e personali, ma sono condizionate da tanti modi di vivere involontari della nostra esistenza. Ad esempio, le esigenze sociali, la cultura, gli stili di vita in famiglia e oggi, in modo molto decisivo, l’imposizione permanente del linguaggio politico-sociale attraverso la tv, i social network e la “nuova educazione invasiva del Nuovo Ordine Mondiale”, cioè la determinazione delle Istituzioni stabilite come unico organo di reggenza di ogni momento della nostra vita. Tutto questo non è indifferente essendo una diffusione continua, controllata a distanza e ad un ritmo di cambiamento maggiore del tempo biologico di un essere umano, creando una forte capacità di adattamento. E in effetti senza di essa sembra che non si possa avere nessuna possibilità di partecipare all’ambiente in cui ognuno si trova a vivere. L’effetto ovvio è che se non parli quella lingua, sembra che non ti capiscano, sei strano e non hai altra scelta che escluderti dal gruppo. L’esclusione dal gruppo porta alla solitudine, all’isolamento, all’insensatezza della vita, alla morte quotidiana e spesso al desiderio di non vivere più (almeno non in questo modo).
È quindi importante analizzare questi aspetti in relazione alle usanze che ognuno ha, e come hanno preso forma, nella nostra vita creando un linguaggio falso rispetto a noi stessi, ma così forte da sembrare essere il vero linguaggio e la vera realtà di ciò che siamo.
Attraverso la narrazione di uno di noi, un essere che soffre, che chiamiamo paziente e che ci chiede aiuto, vedremo l’importanza e la trascendenza della conoscenza di ciascuno nella vita dell’altro. Ed anche l’importanza di affrontare con l’Omeopatia il problema con il profondo beneficio per la vita del ricevente.
Bernardo è un uomo di 61 anni. È uno scrittore e ricercatore. Lavora nel campo dell’istruzione. Quando viene nel mio studio è completamente bloccato nella sua vita. Si nasconde ed è incapace di relazionarsi, fisicamente ha dolori molto forti all’uretra ed attacchi di gotta oltre a una continua sofferenza interiore che definisce “piena di vergogna di mostrarsi. Molto vigliacco a dire quello che mi dà fastidio. Scappo continuamente da tutto. Non so cosa voglio quando mi viene chiesto. Poi mi tormento rimproverandomi per tutto ciò che non sono stato in grado di dire. Sempre pieno di angoscia e ansie per le situazioni future che penso possano essere complicate e di non saperle risolvere. Tutte le situazioni insolite mi sembrano complicate. Vorrei poter dire con calma agli altri quello che vorrei fare. Vorrei che la mia capacità verbale non fosse un vortice interiore che cresce e mi porta ad andarmene quasi sempre verso l’interno, dentro me stesso. Non voglio sempre confrontarmi e valutarmi riferendomi agli altri. Non voglio irritarmi così tanto con la loro. E vorrei anche imparare a non fare nulla senza sentirmi sempre in colpa per aver trascorso una giornata senza aver prodotto qualcosa o essere stato adeguatamente responsabile... da qui il mio grande disagio con gli attacchi di gotta e i miei problemi uretrali e vescicali che rendono la mia vita impossibile.
Tutto questo “desideratum” può essere proposto solo ad un medico omeopatico perché solo un medico omeopatico sa cosa fare con tutte queste difficoltà come un insieme amalgamato, e trovare un unico rimedio (simillimum) che sia in grado di comprendere tutto questo insieme, organizzato durante una vita di sofferenza tradotta in segni e sintomi, e far scattare la reazione curativa dall’interno nella sua interezza. Quello che è il vero trattamento omoepatico.
Il rimedio all’epoca era Sulphur, alternato con altri rimedi in base alle crisi acute legate alle loro sofferenze fisiche.
Tuttavia, la ragione delle nostre riflessioni non è la descrizione dettagliata del trattamento e dei farmaci appropriati, ma la vera storia che serve a mostrarci come questa sofferenza si e’ stabilita e come si sono formate tutte una serie di abitudini di vita fisica e morale che sono state, per 61 anni, motivo di tanta difficoltà ad essere ciò che alla fine sono e che corrispondono a quest’uomo fin dalla sua nascita.
Questo e’ quanto lui stesso ci riferisce:
Tutti dicono che sono, fisicamente, proprio come mio padre. Ho visto le foto di lui bambino e sì, siamo uguali. Ora, immaginando la mia faccia allargata, penso che sono proprio come lui, prima che dimagrisse molto per la sua malattia. È morto quindici anni fa di cancro al fegato. Per tutto il tempo che mi ricordo di lui, soffriva di calcoli renali. Aveva 23 fratelli, di cui 16 sopravvissero. Per quanto ne so, almeno la metà di loro aveva gli stessi problemi di calcoli renali; una di loro, perdendo entrambi i reni ( più di 40 anni fa) vive ancora dopo un trapianto. Aveva un padre (mio nonno, che era giudice e direttore di una fabbrica) molto autoritario e anche crudele, che giunse a spingere e far cadere uno dei suoi figli da un primo piano in costruzione, fratturandogli il braccio, perché aveva disobbedito al suo ordine di non andare lassù. Mio padre lo aveva come modello di educazione ed era sempre molto rigoroso con le mie due sorelle, ma soprattutto con me perché, diceva che ero il maschio. Ho trascorso tutta la mia infanzia punito senza televisione e senza uscire perché non avevo ultimato un disegno, e la punizione durava anche un mese. Mi diceva che non gli piaceva il mio modo di essere perché era di scarsa personalità, timido, che non avevo “carattere”. Non ci ha picchiato molto (ricordo tre o quattro volte), ma urlava e restava arrabbiato per molti giorni. Era bellicoso con i vicini. Ha trattato mia madre con paternalismo, con finta dolcezza a volte, ma non teneva conto delle sue opinioni se erano diverse dalle sue. Bisognava sempre fare quello che lui decideva. Si compiaceva molto, comprava solo per lui, sosteneva di avere più di cento camicie. Pensava di essere spiato e che lo seguissero, specialmente quando ha allestito un negozio di cartoleria con mia madre, dove lavorava la sera (la mattina faceva il funzionario in un ufficio, anche se si lamentava sempre che non lo apprezzavano). Sosteneva che lo pedinassero in macchina, e che avrebbe fatto delle deviazioni per tornare a casa, o si fermava e ci diceva che sarebbe stato pronto a puntare verso chiunque, la pistola conservata nel vano portaoggetti. In realtà aveva una pistola, ma il porto d’armi gli fu tolto quando minacciò una vicina di casa. Non fu condannato perché mio nonno lo coprì. Dovemmo traslocare.
Quando uscivamo andavamo sempre in negozi e bar fuori dalla nostra zona, in modo che non lo riconoscessero. Quando era in pre-pensionamento, riuscì a far passare il suo fascicolo in una città vicina, in modo che nessuno lo vedesse firmare come un disoccupato. Nei primi anni Ottanta gli hanno curato i calcoli renali con diverse litotripsie ed un’operazione chirurgica impegnativa, in cui gli aprirono il rene ma non lo rimossero. In quell’intervento in una delle trasfusioni, fu infettato dall’epatite C (come poi fu rilevato) e, da allora, ebbe anche problemi al fegato. Quando è nata mia figlia, nel 1996, ha affittato una casa nella mia stessa strada, alternando soggiorni sia nella nuova casa vicino alla nipotina, sia la sua abitazione in un’altra città. Quando dissi loro che la bambina doveva mantenere una routine di orari e che pertanto avrebbero dovuto avvisarmi quando volevano venire a trovarla, si arrabbio’ molto e non ha mai più messo piede a casa mia; andava a vederla dalla strada o la spiava a scuola, durante la pausa. Un anno dopo gli fu diagnosticato un cancro, già diffuso e irreversibile. Ha resistito ancora per un paio d’anni, nei quali ha perso la testa: si spogliava per strada, dimenticava a volte chi eravamo mentre era in grado di ripetere intere conversazioni di 20 anni prima. Lo portavo fuori a fare una passeggiata ogni pomeriggio, e partecipavo a quelle storie del suo passato. A causa del modo in cui mi trattava, avevo sviluppato un misto di risentimento e paura nei suoi confronti, ma quell’anno l’ho vissuto con tenerezza, con interesse. Mi faceva pena (forse era anche pena per me stesso) quando l’ho visto morire, per coincidenza, perché era il mio turno di accompagnarlo di notte, e allo stesso modo ho visto morire anche mio suocero e mia suocera. Ora non penso quasi mai a mio padre.
Mia madre è ancora viva, ha 83 anni. All’inizio dello scorso anno le sono stati rilevati dei polipi in una colonscopia, alcuni dei quali maligni. Entrò in sala operatoria in aprile perche’ fossero rimossi con un piccolo taglio; in linea di principio una semplice operazione ma un paio di giorni dopo, ancora in ospedale, la ferita si è aperta, il che ha causato una setticemia. È stata sottoposta ad un intervento chirurgico d’urgenza, ha avuto un’ileostomia e ha trascorso un mese e mezzo in terapia intensiva, all’inizio era molto grave. Da allora ha vissuto con una borsa per feci, che le cade frequentemente, mentre la sua pelle si irrita e si stacca. È in attesa di una nuova operazione per chiudere il suo stoma e ricucirle l’intestino. La pandemia ha rinviato questa operazione e ora dubita che sarà fatta. Fino a questa situazione, dopo la morte di mio padre, era diventata una donna molto attiva: ha adottato un cane (lui non voleva), fatto amicizie, è entrata in diverse associazioni religiose e ha viaggiato molto, anche all’estero. Nella mia infanzia, la ricordo come molto tranquilla, passiva davanti alla televisione, non mostrando mai desideri concreti, non discuteva quasi, né ci ha difeso davanti a mio padre. Era una lavoratrice, gestiva la casa e la cartoleria. Mi ha trattato meglio delle mie sorelle, da cui pretendeva di più nei lavori domestici, per me era solo il mantenimento e la pulizia della mia stanza che mi ha insegnato fosse il mio unico obbligo. Guidava la sua auto, cosa rara tra le madri dei miei compagni. Ho sempre pensato che fosse molto avara, non faceva molti regali: noi non cambiavamo vestiti o scarpe, ma ora capisco la parte che c’è nel risparmiatore per l’insicurezza di chi ha vissuto in tempi di scarsità. È un miscuglio che, anche se lo capisco, non esclude qualcosa di brutto: quando mio padre si ammalò ci disse che non poteva permettersi una persona d’aiuto e noi avremmo dovuto sostenerlo, ma quando morì lei aveva risparmi per iniziare a pagare per una nuova casa. Era fredda, non ci baciava quasi mai, non ci chiamava al telefono e quando io o la mia sorellina andavamo a studiare fuori (si aspettava che la chiamassimo noi). Ora la chiamo molto poco, come mi dice la mia compagna, ma vivo quella poca affettività in espressioni come fosse la cosa normale. Ora è più affettuosa, anche se è difficile per lei esternare. Ha sempre avuto la pressione bassa, con svenimenti. Non ricordo altre malattie, né malattie renali, anche se non era molto comunicativa. Un paio di anni fa ho scoperto che aveva avuto la gotta, ma diceva che era rapidamente passata.
Ho due sorelle una sulla sessantina e l’altra di 43 anni.
Con la sorella maggiore ho a che fare poco o niente: è egoista, bugiarda, invidiosa, immatura. Ha lasciato la scuola senza finire il liceo e ha convinto me e mio padre a garantirgli un prestito per creare un negozio di cartoleria. Spendeva tutti gli introiti, si disinteressava del negozio e ci ha lasciato entrambi fortemente indebitati. Questo ha causato forti discussioni con la mia prima moglie e ci ha fatto vivere con il minimo per quegli anni, anche se ancora non avevamo nostra figlia. E non solo non si è mai scusata, ma sostiene che tutto questo non è mai accaduto.