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Le mani invisibili che sfamano l’Italia: il dramma del caporalato e la sfida ai diritti umani

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7 Luglio, 2024
Tempo di lettura: 5 minuti

Immaginate di svegliarvi all’alba, con le ossa doloranti dopo aver dormito su un materasso lurido in un capannone fatiscente. Davanti a voi si prospetta un’altra giornata di 14 ore sotto il sole cocente, chini sui campi a raccogliere pomodori, olive, cocomeri o spezie. La vostra paga? Forse 2 euro l’ora, o se siete fortunati dai 15 ai 35 euro al giorno, senza contratto, senza nessun tipo di diritto o assistenza. Questa è la realtà quotidiana di migliaia di braccianti in Italia, vittime del caporalato. Invisibili agli occhi della società, questi lavoratori lasciano i loro paesi d’origine inseguendo il sogno di una vita migliore. Tuttavia, una volta in Italia, si ritrovano intrappolati in un limbo legale e sociale, privi di riconoscimento e diritti fondamentali. Sono loro che, con il duro lavoro nei campi, si piegano sotto il peso dei raccolti che poi arrivano sulle nostre tavole. Le loro mani sfamano il paese, eppure la loro esistenza rimane nell’ombra, finché la loro vita non verrà “stroncata da un avvolgi plastica”, finché le loro braccia mutilate non verranno gettate nei rifiuti, finché il resto del corpo non dissangui: Satnam, Muhammad, Soumaila… ora hanno un volto e un nome, perché è solo nel momento della loro morte che, purtroppo, esistono agli occhi del mondo.

Eppure Il caporalato è un sistema illegale di reclutamento e gestione della manodopera, particolarmente diffuso nel settore agricolo italiano dagli inizi del 900. In questo sistema, intermediari noti come “caporali” reclutano lavoratori, spesso migranti o persone in situazioni economiche disperate, per impiegarli in condizioni di sfruttamento. Le caratteristiche principali del caporalato includono paghe molto basse, spesso ben al di sotto dei minimi contrattuali, orari di lavoro eccessivamente lunghi, condizioni di lavoro pericolose e insalubri, mancanza di tutele e di diritti fondamentali dei lavoratori, alloggi inadeguati e spesso in condizioni disumane e controllo coercitivo sui lavoratori, incluse minacce e violenze. Questo sistema viola gravemente i diritti umani e le leggi sul lavoro, perpetuando un ciclo di sfruttamento e povertà. Nonostante sia illegale e combattuto dalle autorità, il caporalato rimane un problema significativo in Italia, radicato in complesse dinamiche economiche e sociali. Secondo l’ISTAT, ci sono circa 230.000 braccianti irregolari in Italia, di cui 55.000 donne, che provengono da Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia, Pakistan, Bangladesh, India, Bulgaria e Romania. Dietro ogni numero c’è una storia, una speranza infranta, un futuro rubato, una dignità calpestata. Jean René Bilongo, presidente dell’osservatorio Placido Rizzotto, ci ricorda che il caporalato non è un problema confinato al Sud Italia, come molti potrebbero pensare, è un cancro che si è diffuso in tutto il paese, adattandosi e mutando. “È strutturale”, dice Bilongo, sottolineando come questo sistema sia profondamente radicato nell’economia agricola italiana.

Le radici del problema

Diventa naturale chiedersi come possa persistere una tale violazione dei diritti umani in un paese sviluppato come l’Italia. La risposta è complessa e multifattoriale: da un lato, c’è la fragilità del tessuto economico agricolo, caratterizzato, sottolinea l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, da piccole aziende, spesso a conduzione familiare, che lottano per sopravvivere in un mercato globalizzato e competitivo, dall’altro, c’è la disperazione di migliaia di migranti, spesso senza documenti, pronti ad accettare qualsiasi condizione pur di sopravvivere. La legge 199 del 2016, “che si dispone in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, salutata come un passo avanti nella lotta al caporalato, sembra aver mostrato i suoi limiti. Nonostante sia considerata un’eccellenza a livello europeo, i dati parlano chiaro: su 4.263 ispezioni effettuate nel 2023, in 2.090 casi è stato riscontrato un illecito. Un numero che fa rabbrividire, soprattutto considerando che rappresenta solo la punta dell’iceberg. Un altro dato allarmante riguarda La Rete di Lavoro Agricolo di Qualità, istituita presso l’INPS dieci anni fa, avrebbe dovuto essere uno strumento per premiare le aziende etiche, offrendo un “bollino di qualità” a chi sceglieva volontariamente di sottoporsi a controlli regolari. Tuttavia, il risultato è stato deludente: solo 6.600 aziende si sono iscritte su oltre 400.000 attese, evidenziando un clamoroso fallimento del sistema.

La gerarchia dello sfruttamento

Gli esperti del settore hanno osservato che all’interno del sistema di sfruttamento del caporalato esiste una sorta di gerarchia basata sull’etnia dei lavoratori. Questa stratificazione si manifesta nel tipo di lavori assegnati e nelle condizioni di lavoro che i diversi gruppi etnici si trovano ad affrontare. Le analisi condotte rivelano una chiara gerarchia etnica tra i lavoratori agricoli sfruttati in Italia. I lavoratori rumeni occupano una posizione relativamente “privilegiata”, svolgendo compiti che richiedono l’uso di macchinari come la guida dei trattori. Questi lavori, sebbene parte del sistema di sfruttamento, sono meno faticosi e più qualificati rispetto al lavoro manuale nei campi. I lavoratori africani, invece, sono incaricati dei lavori più duri e faticosi, come la raccolta manuale dei prodotti agricoli e il trasporto di carichi pesanti, spesso in condizioni climatiche estreme. I lavoratori indiani si trovano in una posizione intermedia, con compiti che sono meno gravosi di quelli degli africani ma non tanto qualificati come quelli dei rumeni. Questa distribuzione del lavoro basata sull’etnia non solo perpetua stereotipi e pregiudizi razziali, ma porta anche a una forma di sfruttamento differenziale, dove alcuni gruppi etnici subiscono condizioni di lavoro più dure rispetto ad altri. Questa gerarchia etnica crea divisioni e tensioni tra i lavoratori, ostacolando la solidarietà e l’azione collettiva contro lo sfruttamento. Questa pratica viola il principio di non discriminazione sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. 

Il Prezzo più alto: vite spezzate

Lo sfruttamento e l’umiliazione non sono le uniche conseguenze del caporalato. Troppo spesso, questo sistema disumano richiede il prezzo più alto: la vita stessa dei lavoratori. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, tra il 2013 e il 2021 sono stati registrati oltre 1.500 morti tra i braccianti agricoli in Italia. Questi numeri, già di per sé scioccanti, non tengono conto dei decessi non denunciati o non riconosciuti come correlati al lavoro. Le morti causate dal caporalato sono il risultato di varie circostanze estreme: incidenti sul lavoro dovuti alla mancanza di formazione e attrezzature inadeguate, ritmi di lavoro estenuanti che portano a tragici incidenti nei campi; malori provocati dalle condizioni climatiche estreme, con lavoratori esposti al sole cocente per ore senza pause adeguate o accesso all’acqua, il che può rivelarsi fatale; incidenti stradali frequenti, dove i braccianti sono trasportati su mezzi fatiscenti e sovraffollati; violenze e omicidi, dove chi denuncia le condizioni di sfruttamento rischia minacce o persino la vita; e infine, i suicidi, causati dalla disperazione e dalla vita insostenibile imposta dal sistema del caporalato.

Cosa possiamo fare?

Ogni pomodoro che mettiamo nel carrello della spesa potrebbe essere stato raccolto da mani sfruttate e doloranti, ogni bottiglia di vino potrebbe imbottigliare la disperazione altrui. Per contrastare il caporalato dobbiamo esigere controlli più severi e frequenti e dobbiamo anche interrogarci sul modello di consumo che alimenta questo sistema. Siamo disposti a pagare il giusto prezzo per un’agricoltura etica? Siamo pronti a sostenere le aziende che rispettano i diritti dei lavoratori, anche se questo significa spendere qualcosa in più? La lotta al caporalato non può essere delegata solo alle forze dell’ordine o ai sindacati. Deve diventare una battaglia di civiltà che coinvolge tutti noi. Dobbiamo pretendere trasparenza nelle filiere produttive, sostenere le iniziative di agricoltura sociale, educare i consumatori all’importanza delle scelte etiche. Allo stesso tempo, non possiamo ignorare le radici profonde del problema: la povertà che spinge le persone a cercare disperatamente un futuro migliore, le politiche migratorie che creano sacche di invisibilità e vulnerabilità, un sistema economico che premia il profitto a scapito della dignità umana.

Un imperativo etico

Il caporalato non è solo un problema italiano, ma una sfida globale ai diritti umani. È il sintomo di un mondo dove il valore di una persona è misurato in termini di produttività, dove la disperazione di alcuni diventa l’opportunità di profitto per altri. Combattere il caporalato significa lottare per un mondo più giusto, dove il lavoro sia dignitoso per tutti, dove nessuno sia costretto a vendere la propria umanità per un tozzo di pane. Non fermiamoci all’indignazione. Questi lavoratori non sono oggetti di cui disfarsi quando hanno “perso il loro valore d’uso”, ma esseri umani con sogni, speranze e diritti inalienabili. Come ci ricorda Emmanuel Levinas, “Il volto dell’Altro mi mette in questione, mi svuota di me stesso e non cessa di svuotarmi”, ogni volto dei lavoratori sfruttati dal caporalato ci interpella direttamente, ci chiama a una responsabilità ineludibile, etica. Ognuno di questi volti ci ricorda la nostra comune umanità e ci impone di agire. È tempo di riconoscere in ogni bracciante, in ogni lavoratore sfruttato, un volto che ci comanda silenziosamente di non restare indifferenti, di non renderci complici con la nostra inazione. Solo così potremo costruire una società veramente giusta, dove la dignità di ogni essere umano sia non solo rispettata, ma celebrata, in vita.

5 Commenti

  1. Grazie per questo bellissimo articolo pieno di umanità e che ci mostra, come in uno specchio, la realtà che noi umani siamo capaci di ignorare e perpetrare. La sorpresa di trovarlo su un sito che si occupa di salute ( … e che salute!).
    C’è davvero bisogno che le persone “di buona volontà” tutte agiscano, con le proprie capacità, per segnare il cambiamento. IO CI SONO, e mi rendo disponibile per eventuali iniziative che muovano al cambiamento.

    • Grazie a lei Cosima per darci l’occasione di ribadire che i determinanti della salute vanno molto al di là del solo squilibrio biochimico del nostro metabolismo, ma investono il nostro essere nella sua totalità, come diceva il maestro dell’Omeopatia Tomás Pablo Paschero “ciò che è malato è l’uomo nella sua unità cosmo-socio-psico-biologica, cioè come entità che soffre di un conflitto di disadattamento all’ambiente cosmo-sociale in cui vive”. Se non rimuoviamo tutti gli ostacoli, compresi quelli delle ingiustizie sociali, abbiamo poche speranze. Grazie della sua disponibilità.

  2. Anche io mi sorprendo molto positivamente di questo bellissimo articolo contro lo sfruttamento delle persone sul lavoro , ma la risposta di Generiamosalute del 14 luglio a Cosima mi convince ancora di più : dobbiamo rimuovere tutti gli ostacoli , comprese le ingiustizie sociali, le mafie , lo sfruttamento di sorella e madre Terra se vogliamo stare bene tutti come fratelli e sorelle. Grazie Cemon

    • Grazie di cuore Laura

  3. Grazie per l’articolo e per l risposta a Cosima ci salviamo solo tutti insieme da fratelli e sorelle

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