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12 Ottobre, 2024

Personalizzazione del rischio e controllo sociale nelle democrazie neoliberiste

La personalizzazione del rischio e della sicurezza come forma di logica di controllo sociale e di biopolitica nelle democrazie neoliberiste

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XIII • Numero 51 • Settembre 2024

Storia di questa breve argomentazione sulla nozione della responsabilità neoliberista

Adempire alla mia responsabilità di dirigere e curare il contenuto di un trimestrale come BIO, volto alla decostruzione della narrativa ufficiale di quanto sia attinente alla fenomenologia della vita e del suo controllo biopolitico, comporta cercare, costantemente, angolature accademiche da istituzioni alquanto critiche verso il neoliberismo, ultima ideologia dell’establishment, quale il Beijing International Review of Education.1 Nel suo numero di marzo del 2019 trovai un articolo della professoressa Tina Besley, intitolato  Theorizing Teacher Responsibility in an Age of Neoliberal Accountability.

Nella sua disertazione Tina Besley, interessata alla nozione di responsabilità in un’era di responsabilità neoliberista, puntava la sua critica verso i concetti di empowerment e libertà con cui il neoliberismo intendeva coprire il vuoto di responsabilità lasciato nelle società capitaliste avanzate dopo che queste collettività abbandonarono le politiche e pratiche istituite a metà del XIX con l’avvento del liberismo.

In effetti, dall’inizio degli anni ’80 la maggior parte di questi stati adottò politiche neoliberiste e la nozione della razionalità del mercato per la gestione di tutti gli aspetti della vita sociale, compresa l’istruzione e la salute. Alla base di questa logica sociale, precisa Tina Besley, ci sarebbe l’assunto ideologico del neoliberismo che postula che il cittadino modello sarebbe l’Homo economicus, teorizzato come un individuo razionale e autonomo, con il suo comportamento responsabilizzato codificato in un modo in cui tutti siamo tenuti a comportarci e ad agire come responsabili di sé stessi.

Così, stimolato dall’approccio controverso di Tina Besley e arginando la sterilizzante idea di verità scientifica a cui tanti aderiscono, mi lasciai rapire da quest’interrogazione: e se con la bella giustificazione dell’empowerment e della libertà individuale, politici e aziende ospedaliere delle nostre democrazie neoliberali stessero scaricando i rischi, potenzialmente letali, sugli individui?

Questa mia domanda mi portò alle considerazioni in materia avanzate da Suzanne Schneider nel suo saggio Who bears the risk? pubblicato lo scorso marzo In effetti, all’inizio di quest’anno 2024 Suzanne Schneider, vicedirettore e docente preso Il Brooklyn Institute for Social Research, si era ritrovata seduta nella stanza di un ospedale dove era stata ricoverata sua figlia. Sua figlia si stava preparando per una procedura comune, quando il chirurgo entrò nella stanza, prese una sedia e invece di verificare l’ordine esatto degli interventi e di offrire le parole confortanti che malati e parenti richiedono, anche di fronte a procedure di routine, chiese invece ai clienti di scegliere la tecnica chirurgica che ritenessero fosse la migliore delle due disponibili. Suzanne Schneider confessa che inizialmente guardava il medico incredula, poi riuscì a dirgli: non lo sappiamo, non siamo esperti nella questione. Tuttavia, dopo una breve discussione, lei e il marito gli dissero quello che a loro sembrava ovvio: il medico dovrebbe scegliere la procedura che, secondo il suo parere professionale, comporta le maggiori possibilità di successo e il minor rischio. Innanzitutto, perché non era il momento per loro di poter dedicare tempo e risorse in modo da rendersi edotti sulla questione ed eventualmente poter decidere con conoscenza e tempestività.

Secondo Suzanne Schneider, in verità un tale episodio non avrebbe dovuto sorprenderla, perché da diversi anni lei sta lavorando ad un libro sul rischio come forma di logica sociale e politica. In breve, una dissertazione sul modello neoliberista che pretenderebbe codificare la vita come un perenne rischio e proporre un insieme di strumenti sviluppati per domare, probabilisticamente, l’incertezza. Dalla sua visione della questione è, in effetti, impossibile raccontare la storia contemporanea del rischio senza considerare ciò che gli studiosi chiamano responsabilizzazione, sostanzialmente, la pratica di attribuire quantità crescenti di responsabilità a individui che diventano, come ha segnalato la studiosa Tina Besley, moralmente responsabili di navigare nel regno sociale utilizzando scelta razionale e calcolo costi-benefici. Di fatto, negli USA, gruppi imprenditoriali e politici sostengono che delegare maggiori responsabilità sui cittadini conferisca loro più potere. Questo gergo prevale, insiste Tina Besley, nel settore sanitario privato mentre le iniziative di privatizzazione della rimanente previdenza sociale negli USA vengono motivate come un modo per dare agli assicurati la possibilità di investire i propri risparmi previdenziali come meglio credono.

 

Una storia per la nozione del rischio scritta nel paradosso dell’aumento della disuguaglianza malgrado l’empowerment

In Individualism and Economic Order, considerato un classico del pensiero liberista, Friedrich A Hayek, già nel 1948, sosteneva che poiché l’individuo deve essere libero di scegliere, si rende inevitabile che debba sostenere il rischio connesso a tale scelta, osservando, per di più, che la preservazione della libertà individuale sia incompatibile con la piena soddisfazione della visione della giustizia distributiva. Nel corso degli ultimi decenni, la posizione di Hayek è diventata mainstream ma, stando a Suzanne Schneider, è ugualmente diventata un po’ sfilacciata, tanto che la libertà individuale significa sostanzialmente scelta da consumatore, la cui presunta inviolabilità deve essere preservata in tutti i settori. Certamente, si può logicamente assumere che la responsabilità decentrata favorisca coloro che hanno maggiori capacità di valutare e prendere decisioni su fenomeni complessi, quelli, in particolare, con alti livelli di reddito e di istruzione e accesso sociale a medici e gestori degli investimenti per chiedere consulenza, come al riguardo puntualizza ugualmente Tina Besley. In effetti, risulta paradossale che l’adesione alla responsabilizzazione, come forma di empowerment individuale, abbia accompagnato l’approfondimento della disuguaglianza nelle democrazie occidentali.

Al riguardo Tina Besley sottolinea che questa tendenza all’incremento della diseguaglianza sociale persiste nonostante il crescente riconoscimento da parte di psicologi ed economisti del fatto che la maggior parte dei cittadini delle democrazie occidentali non sia un decisore razionale e che sono scarsamente abili nel valutare il rischio. Che si tratti della probabilità di morire in un attacco terroristico o di soccombere a causa del Covid-19, la ricerca mostra che i cittadini delle democrazie occidentali tendono a sopravvalutare le minacce di alto profilo e a sottovalutare quelle quotidiane, come guidare un’auto.

Stando agli studiosi in materia, per colmare questo divario osservabile tra rischio percepito e rischio reale sarebbe emersa un’editoria saggistica neoliberista sulla questione del rischio. Libri come Risk Savvy (2014) di Gerd Gigerenzer e Risk: The Science and Politics of Fear (2008) di Dan Gardner cercano di guidare i cittadini istruiti delle democrazie occidentali verso valutazioni del rischio ritenute dall’establishment neoliberista più razionali, come segnala Tina Besley.

In questi scenari inediti delle democrazie occidentali, strumenti online invitano gli utenti, senza alcuna circospezione, a calcolare il rischio di malattie cardiache o di diventare vittime di un’azione criminale. Siti web come oddsofdying.com raccolgono dati su dozzine di minacce mortali, dai terremoti e dagli incidenti aerei alle punture di api e alla malaria. Eppure esiste una discrepanza apprezzabile tra ciò che dicono i dati e ciò che proviamo molti di noi, cittadini occidentali. Infatti, come afferma lo stesso Gardner, le democrazie occidentali sono da ritenersi le popolazioni umane che abbiano vissuto in maggior sicurezza, stando alle statistiche appositamente elaborate per dimostrarlo. Questa discrepanza tra dati e percezioni impone la semplice domanda di perché, allora, l’ansia sia diventata parte della vita quotidiana e di perché viviamo in una cultura della paura.

Suzanne Schneider insiste nel chiedersi come possiamo spiegare questa disconnessione. Perché, si chiede, data la nostra evidente comune mancanza di capacità di funzionare per natura come degli abili calcolatori di rischi, siamo spinti a diventare esperti calcolatori del pericolo? Questa domanda la conduce, inevitabilmente, ad un interrogativo più inquietante: che tipo di soggetto politico sarebbe il sé attuariale, voluto dalle democrazie liberiste, con la sua condotta esistenziale ad essere guidato in termini attuariali ossia di calcolo delle probabilità dei propri rischi e della propria sicurezza, in questi scenari, evidentemente collegati con il mondo assicurativo del capitalismo neoliberista?

Al riguardo Suzanne Schneider suggerisce che dato che pochi oggetti suscitano sbadigli come una tabella attuariale, vale la pena sottolineare ciò che effettivamente c’è in gioco nelle conversazioni sul rischio: la morte, la paura e la nostra (in)capacità di controllare ciò che ci accadrà in futuro.

Allora se ciò che è in gioco è la nostra paura della morte e di non poter controllare ciò che accadrà nel futuro, l’establishment ha dato vita ad un’editoria ideologica circa la nozione del rischio e della sicurezza come responsabilità individuale. In relazione a questo Suzanne Schneider ci segnala che Peter Bernstein, nella sua trionfale storia della nozione del rischio, Against the Gods: The Remarkable Story of Risk (1996), aveva sostenuto che l’idea della gestione del rischio non avrebbe potuto emergere senza l’idea che il futuro sia più di un capriccio degli dei. In effetti, da una certa prospettiva, si può sostenere che l’idea della gestione del rischio appartenga al mondo moderno, cioè secolarizzato, consentendo a noi umani di liberarci dai primitivi bagagli teologici e di concepire un’idea relativa al proprio percorso esistenziale. Questa nozione, sostiene Suzanne Schneider, evidentemente, ha contribuito all’edificio filosofico dell’individualismo occidentale. Questa concettualizzazione dell’autonomia e della responsabilità individuale, malgrado i suoi paradossi espressi nella disuguaglianza sociale, sembra rimanere attraente fino ai nostri giorni, come spiega Schneider.

Bernstein fece risalire le origini della nozione del rischio al XVII secolo, quando queste nuove idee sull’agire umano iniziarono a circolare insieme alla matematica della probabilità che postulava che gli eventi passati potessero essere analizzati, sistematicamente, per fornire intuizioni sul futuro3. Tali nozioni potevano emergere solo nell’Europa post-rinascimentale, sosteneva, il che spiegherebbe perché i musulmani fatalisti non erano ancora pronti a fare il salto nonostante la loro sofisticatezza matematica. Nel racconto di Bernstein, l’eccezionalismo della cultura europea, e non i cambiamenti nella governance o nell’ascesa del capitalismo, spiegherebbe come l’Occidente abbia spezzato i vincoli del fatalismo e sia entrato nei modelli di simulazioni di probabilità.

 

Una postilla sull’etimo

Se l’origine etimologica di rischio è incerta, costruirne una storia della nozione risulta altrettanto ipotetica. In ogni modo, secondo gli studiosi della sua etimologia, il concetto di rischio è associato ad accezioni che fanno riferimento a condizioni di pericolo, incertezza o probabilità dell’accadimento di eventi dannosi. Nel linguaggio contemporaneo, stando a quest’interpretazione, le varie accezioni sono spesso utilizzate come sinonimi. In ogni modo, il concetto di rischio, per le stesse fonti, si è evoluto nel tempo, passando da una sua identificazione con l’entità di un possibile danno, alla valutazione, in termini probabilistici, del suo accadimento, fino ad un approccio di tipo strategico che associa alla semplice valutazione della probabilità di un avvenimento dannoso sia l’entità dei danni, sia i possibili aspetti di opportunità che possono derivare dell’accettazione di una componente del rischio. Come riferito dalla fonte bibliografica utilizzata, la condizione di rischio sarebbe, a volte, associata alla sua misurabilità, la cui rilevazione risulta di difficile esecuzione, mentre in altri casi viene riferita ad obbiettivi inizialmente prefissati e non soddisfatti o alla relazione fra probabilità dell’accadimento di un evento dannoso e la severità delle conseguenze. Con quest’impostazione s’intende che il rischio sia traducibile nella correlazione tra fattori di pericolosità di una specifica azione o evento oppure di una specifica decisione, la vulnerabilità di un elemento o di un sistema e l’esposizione o valore esposto. Secondo la bibliografia di riferimento utilizzata per tracciare una sua etimologia, la riduzione del rischio si attuerebbe attraverso interventi, cosiddetti, di mitigazione in relazione alla pericolosità, alla vulnerabilità, o al valore degli elementi a rischio, con la finalità della prevenzione, relativa alla fase in cui un determinato processo diventa pericoloso, e della prevenzione, in cui si definisce la localizzazione e l’intensità di accadimento di un processo ritenuto pericoloso o indesiderato.

In breve, il rischio consiste nella possibilità che succeda qualcosa di negativo, come un danno o un evento indesiderabile, rispetto a qualcosa che noi umani apprezziamo, come la salute, il benessere, la ricchezza, la proprietà o l’ambiente, spesso concentrandosi su conseguenze negative e indesiderabili. In effetti, quello del rischio è un concetto connesso con le nostre aspettative umane e le nostre capacità di predizione e intervento in situazioni non note od incerte. Indica un potenziale effetto su un bene che può derivare da determinati processi in corso o da determinati eventi futuri. Nel linguaggio comune, rischio è spesso usato come sinonimo di probabilità di una perdita o di un pericolo o di una minaccia.

 

Il rischio come forma di logica di controllo sociale e di bio politica

L’intenzione di questa breve argomentazione però non è quella di curare un discorso specialistico sulla questione concettuale riguardo la nozione di rischio, ma del discorso del rischio come forma di logica di controllo sociale e di bio politica. I tentativi umani di gestire, per così dire, scientificamente, il rischio o probabilità di un evento indesiderato si sono ampliati notevolmente, stando a Suzanne Schneider, parallelamente all’affievolirsi delle speranze per il futuro enunciate dalle tabelle esattoriali. Sebbene molti professionisti della gestione del rischio sottolineino che il loro sia un settore giovane (alcuni sostengono non più vecchio di 40-45 anni), secondo Terje Aven4, a giudicare da quando furono pubblicate le prime riviste scientifiche, articoli e conferenze che trattavano idee e principi fondamentali su come valutare adeguatamente e gestire il rischio, alcuni modelli risalgono a diversi secoli fa.

Conformemente al parere di Suzanne Schneider, pochi ambiti accademici hanno fatto di più per promuovere l’idea di un divario tra rischio percepito e rischio oggettivo come quello dell’economia comportamentale5, che sarebbe, secondo lei, probabilmente l’esportazione accademica neoliberista più importante degli ultimi 30 anni. Oltre a popolari bestseller come Predictably Irrational (2008) di Dan Ariely, Thinking, Fast and Slow (2011) di Daniel Kahneman e, forse il più famoso, Nudge (2008) di Richard Thaler e Cass Sunstein, il settore avrebbe compiuto significativi passi avanti nell’inserire la sua visione neoliberista nella politica pubblica. Come riferisce Schneider, nel 2010, in particolare, il governo di David Cameron istituì la “Nudge Unit” per applicare le conoscenze del settore ai problemi sociali ed economici del Regno Unito, dall’obesità alle truffe online. Nel 2019, riferirono di aver organizzato 780 progetti in dozzine di paesi sin dal suo inizio. L’allora presidente degli USA Barack Obama seguì l’esempio nel 2015 con la creazione del Social and Behavioral Sciences Team.

Da quanto riferito da alcuni studiosi, come Tina Besley, lanciata da Daniel Kahneman7 e dal collega psicologo cognitivo Amos Tversky8 , l’economia comportamentale studia gli allontanamenti nella vita reale del processo decisionale umano dal modello razionalista associato all’Homo economicus9. Nella visione dell’economia comportamentale, l’Homo economicus esprimerebbe l’idea che l’umanità sia composta da attori individuali autonomi, razionali e strettamente interessati a massimizzare il proprio vantaggio. Quest’idea viene spesso fatta risalire a La ricchezza delle nazioni (1776) di Adam Smith, il quale sosteneva che il perseguimento di interessi egoistici in realtà serve il bene comune. L’ideologia dell’uomo economico aggiunse, stando a Suzanne Schneider, il suo apice a metà del XX secolo per mano dei teorici dei giochi John von Neumann e Oskar Morgenstern, che cercarono di delineare un modello di come l’attore razionale dovrebbe comportarsi in condizioni di incertezza, modello che rimane ancora un pilastro dell’economia tradizionale.

La Besley sostiene che gli economisti comportamentali, in qualche modo, prendono di mira l’Homo economicus svelando i pregiudizi, le euristiche e i difetti logici che offuscano il processo decisionale umano, che, dal loro punto di vista, non sarebbe, in ogni caso, del tutto razionale. L’economia comportamentale, tuttavia, non mette in discussione l’individuo come unità economica e sociale fondamentale. Proprio come, per i loro predecessori economisti neoclassici, gli individui autonomi ed egoisti rimangono gli elementi costitutivi della società e il mantenimento della scelta del consumatore (libertà) rimane il bene di maggior valore da difendere nelle democrazie liberiste. L’innovazione dell’approccio dell’economia comportamentale consiste nel sostenere che, poiché noi umani non siamo del tutto razionali, necessitiamo di incoraggiamento esterno, cioè di nudges10, per aiutarci a fare scelte migliori. L’intento, precisa Besley, non è quello di liberarci affinché possiamo prendere le nostre proprie decisioni. In effetti, noi umani non eccelliamo in questo. Dunque, per Tina Besley, l’intenzione è invece far sì che gli esperti dell’élite ci guidino verso le scelte che loro ritengono migliori. L’idea può sembrare rassicurante finché non incontriamo questi esperti a decidere per noi come dobbiamo vivere e come morire.

Richard Thaler e Cass Sunstein sono, a quanto referisce Suzanne Schneider, degli esponenti di rilievo di quella che è diventata nota come teoria del nudge. Il loro libro, nella sua prima edizione del 2008 già esortava le aziende, i governi e le istituzioni pubbliche a creare architetture di scelta che incoraggiassero preferenze appropriate tra gli individui che navigano nel labirinto della vita moderna. Dalla loro prospettiva ideologica, un buon sistema di architettura delle scelte aiuta le persone a migliorare la loro capacità di mappare le preferenze su risultati e, quindi, selezionare opzioni che le fanno decisamente stare meglio. Due dei sui classici esempi al riguardo segnalano che posizionare la frutta fresca all’altezza degli occhi dei commensali in una mensa scolastica può spingere gli studenti a mangiare cibi più sani, così come l’iscrizione dei dipendenti a piani pensionistici potrebbe comportare livelli più elevati del risparmio personale.

Nello sviluppo della loro teoresi, Thaler e Sunstein, aggiungono che i nudges [incoraggiamenti] non possono essere affatto coercitivi e, quindi, non possono ridurre la gamma di opzioni disponibili, anche se alcune di esse potrebbero essere dannose. Sunstein e Thaler ammettono, in effetti, che prodotti come le garanzie estese11 traggono vantaggio dai consumatori e dovrebbero essere evitati. Per i prodotti con una posta in gioco più elevata, tra cui carte di credito, mutui e polizze assicurative, raccomandano un approccio normativo leggero chiamato RECAP (registrazione, valutazione e confronto di prezzi alternativi). RECAP richiede un’informativa più solida e informazioni trasparenti sui prezzi in modo che i cittadini-consumatori possano fare scelte informate. Inoltre, va segnalato che loro stessi ammettono che ugualmente le soluzioni cap-and-trade12 avrebbero effettivamente consentito ai principali inquinatori di aumentare le proprie emissioni.

Come illustrano questi casi, i sostenitori dei nudges rifiutano forti alternative normative, quelle che Thaler e Sunstein denominano regolamentazioni di comando e controllo. Infatti, questi fiancheggiatori proclamano che loro sono paternalisti libertari contrari ai divieti. Loro, come suggerisce il resoconto di Suzanne Schneider, preferiscono invece un miglioramento dell’architettura delle scelte che, nella loro prospettiva ideologica, aiuta le persone a fare scelte migliori. Ciò significa, in effetti, opporsi a regolamenti finanziari, come quelli che costituivano il regime normativo del New Deal, che esprimeva il mandato del governo, non semplicemente di incoraggiare scelte migliori tra i consumatori ma per offrire tutele ai cittadini.

Allo stesso modo, i sostenitori dell’architettura delle scelte temono che le normative ambientaliste di comando e controllo siano una pendenza scivolosa che restituisca potere allo Stato nella regolamentazione dell’economia. Tali limitazioni, ad esempio quelle sulle emissioni dei veicoli, referiscono Thaler e Sunstein, talvolta si sono rivelate efficaci per cui si può dire che l’aria in certe città sia molto più pulita di quanto non fosse nel 1970. Filosoficamente, tuttavia, stando a loro, tali limitazioni sembrano spiacevolmente simili ai piani quinquennali in stile sovietico.

Al posto dei mandati pubblici e della legislazione restrittiva, Thaler e Sunstein propongono incentivi economici e soluzioni basate sul mercato, come accordi cap-and-trade che incoraggerebbero gli inquinatori industriali a ridurre le proprie emissioni. Tuttavia, come loro stessi hanno riconosciuto, tali soluzioni presentano delle scappatoie perché se un inquinatore volesse aumentare il proprio livello di attività e, quindi, il proprio livello di inquinamento, non sarebbe del tutto bloccato. Potrebbe, in particolare, acquistare un permesso attraverso il libero mercato. In effetti, diversi studi hanno ora mostrato i difetti critici del cap-and-trade e di altre soluzioni basate sul mercato, che hanno, concretamente, consentito ai principali inquinatori di aumentare le loro emissioni e concentrare l’inquinamento in zone a basso impatto ambientale.

I sostenitori dei nudges o incoraggiamenti esterni sarebbero, nell’opinione di Schneider, dei personaggi che evitano il tipo di grandi cambiamenti politici che potrebbero, tra l’altro, garantire che gli anziani possano andare in pensione anche senza aver potuto versare 40 anni di contributi. Come chiarisce il sottotitolo di Nudge, migliorare le decisioni su salute, ricchezza e felicità, la massima preoccupazione del progetto sarebbe preservare il singolo decisore come attore sociale primario. In effetti, i sostenitori dell’economia comportamentale condividono con i loro antenati neoclassici molti assunti strutturali sulla supremazia dell’efficienza, sulla benevolenza del mercato privato e sulla necessità di massimizzare la scelta individuale come baluardo contro la servitù della gleba. Questo quadro ideologico, suggerisce Suzanne Schneider, hae delle conseguenze particolarmente “perverse” quando si tratta di affrontare il rischio nel XXI secolo.

Si prenda, segnatamente, spiega Schneider, il rischio finanziario. Come riportato dal Financial Times nel maggio 2023, la banca britannica TSB scoprì che l’80% delle attività fraudolente sarebbe avvenuta tramite Facebook, WhatsApp e Instagram. Tuttavia, la strategia antifrode del governo britannico per il 2023 annullò i piani per costringere le aziende tecnologiche a risarcire le vittime delle truffe finanziarie online, optando invece per una carta delle frodi online volontaria e migliori strumenti di segnalazione. Quindi, sottolinea Schneider, invece di richiedere alle piattaforme di sorvegliare i propri contenuti, ora spetta ai singoli individui l’onere di diventare migliori rilevatori di frodi.

Oppure, aggiunge Suzanne Schneider, si considerino i vari comportamenti “verdi” che gli individui sono tenuti a mettere in atto nel tentativo di mitigare la crisi climatica. In molte scuole i bambini già da cinque anni sono guidati a raccogliere i rifiuti “per salvare la Terra”, il tutto mentre le principali industrie ad alta intensità di carbonio (combustibili fossili, trasporti, moda) continuano a fare affari come al solito. Le limitazioni potrebbero risultare particolarmente irritanti, precisa Schneider, quando si tratta del modo in cui le persone negli USA sono incoraggiate ad affrontare i rischi per la salute. Sebbene i nudges offrano una varietà di trucchi per mangiare meglio e favoriscano modi facili per navigare nel mercato delle assicurazioni private, tali soluzioni ignorano i rischi strutturali molto più ampi che derivano dalla mancanza di assistenza sanitaria accessibile e vicina per gli americani, specifica Schneider. Eppure sappiamo che circa 45.000 americani in età lavorativa muoiono ogni anno a causa della mancanza di assicurazione medica, che i non assicurati hanno meno probabilità di ricevere cure preventive e screening per il cancro e che due terzi delle dichiarazioni di fallimento sono attribuibili a debiti medici. Questi fatti, documentati dalla ricerca citata, portano Suzanne Schneider a suggerire, mordacemente, che solo un quadro teorico comicamente impoverito può considerare i rischi per la salute negli USA e dedurre che gli americani hanno bisogno di mangiare più insalate.

Questi casi sottolineano la discrepanza tra la natura sistemica dei rischi che noi umani dobbiamo affrontare e gli strumenti individualistici promossi per gestirli. Non c’è da stupirsi che molti ritengano che, nonostante i loro coscienziosi tentativi di ridurre i vari rischi, nulla funzioni. Coltivare il sé attuariale, impegnato nel calcolo delle probabilità dei propri rischi e unico responsabile di sé stesso, come soggetto politico sposta la conversazione dalle soluzioni pubbliche, strutturali ed efficaci a favore di suggerimenti e attacchi che non potranno mai affrontare la radice dei problemi.

 

Una logica antisociale si attua nel sé attuariale

Come postilla aneddotica e per chiudere questa corta esposizione sulla questione del rischio come forma di logica sociale e controllo biopolitico, ridò ancora spazio a Suzanne Schneider. Secondo la sua narrazione, anni fa lei avreva frequentato un corso sulla sicurezza personale organizzato dalla National Rifle Association chiamato Refuse To Be A Victim [Rifiutati ad essere una vittima]. Si trattava, primariamente, di un corso accelerato sulla valutazione del rischio personale, alimentato dal dato che indicava che al momento negli USA si stava verificando un crimine violento ogni 25 secondi. Schneider racconta di essere stata sottoposta ad un indottrinamento, durante il suo corso di tre ore, il cui credo era che per rifiutare di essere una vittima si rendeva necessario coltivare un atteggiamento di costante vigilanza, un comportamento che esamina attentamente le situazioni, esercita cautela e non si fida mai e poi mai degli estranei. Il corso evocava un mondo in cui la sicurezza era una responsabilità individuale e, perfidamente, classificava l’atto di essere vittima di un attacco criminale come un fallimento personale. In effetti, merita attenzione che il corso si chiamasse Rifiutati ad essere una vittima. Ciò implica che trovarsi o meno vittima di un attacco criminale sia una scelta personale. La sfida dell’incertezza veniva usata come arma per far sembrare l’ossessione verso l’altro come nemico l’unica scelta responsabile. Secondo Suzanne Schneider, il messaggio ideologico era che per proteggersi, i cittadini dovrebbero diventare i loro propri consulenti del rischio.

La conclusione di Schneider è che la spinta sociale a migliorare i nostri calcoli del rischio personale, presuppone che una logica antisociale si impadronisca del sé del cittadino costringendolo ad essere soggetto politico in quanto impegnato nel calcolo delle probabilità dei propri rischi e unico responsabile di sé stesso. La sicurezza diventa un privilegio individuale acquisito attraverso il mercato piuttosto che un diritto pubblico conquistato a livello sociale.

Al riguardo, Suzanne Schneider riferisce che nelle democrazie neoliberiste occidentali, quando si tratta di sicurezza personale, le persone danarose sono incoraggiate a gestire il rischio impegnandosi in vari tipi di isolamento sociale, mentre coloro che non hanno il denaro per attuare un qualche tipo di isolamento sociale diventano i “rischi” stessi. L’aumento degli atti di vigilanza e, ugualmente, delle sparatorie paranoiche negli USA, ad esempio, per aver suonato il campanello sbagliato, costituisce un sintomo di questa logica antisociale portata alla sua naturale e sanguinosa conclusione. Anche la privatizzazione della sicurezza e, di conseguenza, perfino della violenza, costituiscono forme di responsabilizzazione, di cui si possono vedere, chiaramente, i costi associati a questa forma di “libertà”.

Tuttavia, il dilagare della libertà privatizzata non impedisce di pensare ad alternative al mondo iper-individualizzato del sé attuariale addetto alla previsione e gestione dei propri rischi. In un mondo globalizzato, che si trova ad affrontare l’aumento di ogni rischio, è abbastanza fattibile riconoscere l’approccio altamente individualizzato al rischio come una reliquia di un’era irresponsabile e iniqua. Costruire forme di sicurezza e reti di assistenza più capienti, richiede di guardare oltre il sé attuariale e l’agenda politica a cui esso serve.

______________Note _________________

1 Rivista internazionale di teoria dell’educazione, di storia, filosofia e anche di scienze empiriche che mira a pubblicare un’ampia gamma di articoli in inglese.

2 L’attuario svolge numerose attività tra queste ricordiamo la costruzione e la valutazione di prodotti finanziari, assicurativi e previdenziali, l’elaborazione di analisi statistiche e la gestione dei dati, la valutazione delle riserve tecniche e la certificazione nei bilanci delle imprese di assicurazione, dei fondi pensione e delle casse di previdenza, la valutazione patrimoniale ed economica di aziende pubbliche e private, fornisce consulenze tecniche per tribunali, valuta i rischi nei più diversi ambiti, effettuando l’insieme delle relative analisi di risk management.

3 Peter Bernstein. Against the Gods: The Remarkable Story of Risk. John Wiley & Sons Inc, 1998

Terje Aven. Risk science: An introduction. Routledge, 2021

L’economia comportamentale è considerata una branca interdisciplinare comune alla psicologia e all’economia, che studia l’influenza dei fattori psicologici, emotivi, culturali e sociali sulle decisioni economiche, con gli strumenti di cui dispongono le scienze psicologiche. Introduce il fattore irrazionalità nelle scienze economiche, non considerato dall’economia classica.

6 L’attuario svolge numerose attività tra queste ricordiamo la costruzione e la valutazione di prodotti finanziari, assicurativi e previdenziali, l’elaborazione di analisi statistiche e la gestione dei dati, la valutazione delle riserve tecniche e la certificazione nei bilanci delle imprese di assicurazione, dei fondi pensione e delle casse di previdenza, la valutazione patrimoniale ed economica di aziende pubbliche e private, fornisce consulenze tecniche per tribunali, valuta i rischi nei più diversi ambiti, effettuando l’insieme delle relative analisi di risk management.

7  Psicologo vincitore, insieme a Vernon Smith, del Premio Nobel per l’economia nel 2002 per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza.

Pioniere della psicologia cognitiva ovvero della scienza cognitiva, collaborò per anni assieme al Nobel Daniel Kahneman, nella ricerca di euristiche, e nello studio degli errori sistematici umani (cognitive bias), oltre allo studio di decisioni in condizioni di rischio. Tversky sviluppò assieme a Kahneman la Prospect Theory, per spiegare l’irrazionalità del giudizio umano in decisioni economiche.

9 L’Homo oeconomicus è un concetto fondamentale della teoria economica classica: si tratta, in generale, di un uomo le cui principali caratteristiche sono la razionalità (intesa in un senso precipuo, soprattutto come precisione nel calcolo) e l’interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi individuali. L’homo oeconomicus cerca sempre di ottenere il massimo benessere (vantaggio) per sé stesso, a partire dalle informazioni a sua disposizione, siano esse naturali o istituzionali, e dalla sua personale capacità di raggiungere certi obiettivi. Il modello è stato formalizzato in alcune scienze sociali, particolarmente nell’economia. L’homo oeconomicus è visto come “razionale” nel senso che egli persegue come obiettivo la massimizzazione del suo proprio benessere (definita da una certa funzione matematica detta funzione di utilità).

10 La teoria dei nudge (Nudge Theory) o dei pungoli è un concetto che, nel campo dell’economia comportamentale, della psicologia cognitiva e della filosofia politica, sostiene che sostegni positivi e suggerimenti o aiuti indiretti possono influenzare i motivi e gli incentivi che fanno parte del processo di decisione di gruppi e individui, almeno con la stessa efficacia di istruzioni dirette, legislazione o coercizioni.

11 Una garanzia estesa o contratto di servizio o di manutenzione, è una garanzia prolungata offerta ai consumatori in aggiunta alla garanzia standard sui nuovi articoli.

12 Il mercato europeo si basa sul metodo “cap-and-trade”, che consiste nella determinazione di un tetto massimo di emissioni nocive consentite in capo a determinati settori produttivi e consente ai soggetti onerati di commerciare le quote (allowances) assegnate

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