Un blog ideato da CeMON

31 Dicembre, 2024

Günther Anders: l’uomo antiquato e la fantasia morale.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER

Ogni lunedì riceverai una ricca newsletter che propone gli articoli più interessanti della settimana e molto altro.
Tempo di lettura: 5 minuti

Nel 1956 Günther Anders, filosofo tedesco ebreo già sposato e separatosi da Hannah Arendt (che giudicò il suo pessimismo ‘difficile da sopportare’), pubblica un libro originale e precursore dal titolo L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale.

“Qualsiasi cosa facciamo o rinunciamo a fare – il nostro sciopero privato non cambia nulla al fatto che ormai viviamo in un mondo per il quale non hanno valore il «mondo» e l’esperienza del mondo, ma il fantasma del mondo e il consumo di fantasmi”. Il nostro mondo è il sistema di apparecchi dentro cui ce ne arriva l’immagine. Noi siamo sedotti da sirene incantatrici: “milioni di apparecchi, modi di dire, usanze, opinioni e behaviour patterns che mettono in mostra il loro fascino, che ci chiamano in coro assordante” C’è una iconomania da voyeur, dice Anders. C’è un mondo smisurato, che non è più il nostro. Ed il testo di Anders è una sorta di sociopatologia della vita quotidiana (come suggerisce un bel saggio di Franco Lolli su Günther Anders).

Anders scrive nell’epoca della guerra fredda. “Non ci si chiede che cosa fanno della tecnica Washington o Mosca; ma che cosa la tecnica ha fatto, fa e farà di noi, ancor prima che noi possiamo fare qualche cosa di lei.”
Viviamo, scrive Anders, in un dislivello prometeico, dal momento che ciò che produciamo ci trascende, ci rende inadeguati, obsoleti, antiquati. L’uomo non è più in grado di prevedere gli effetti di ciò che produce. Di più: l’uomo è superfluo, è inerme, è inadatto, è inferiore alle potenzialità del suo atto.

Una vergogna prometeica che è assurda, invisibile, banale.
Il mondo ci è fornito a domicilio. Gli avvenimenti vengono a noi, non siamo noi ad andare verso di loro. Dopo la bomba atomica, la tecnica non è più un mezzo ma un deterrente a se stessa.

Dal pessimismo di Anders si distacca un originale termine di contrapposizione, che lui chiama fantasia morale. “Se le cose stanno così, se non vogliamo che tutto vada perduto, il compito morale determinante del giorno d’oggi consiste nello sviluppo della fantasia morale , cioè nel tentativo di vincere il «dislivello», di adeguare la capacità e l’elasticità della nostra immaginazione e del nostro sentire alle dimensioni dei nostri prodotti e alla imprevedibile dismisura di ciò che possiamo perpetrare; nel portare allo stesso livello di noi produttori le nostre facoltà immaginative e sensitive.” Qualcosa di difficile da descrivere – dice Anders – ma è ciò che realmente ancora conta.

Qualcosa: “la bomba è riuscita a compierlo: renderci realmente un’unica umanità. Ciò che può colpire tutti ci riguarda tutti.” Ciò che rimette noi alla giusta distanza dalla tecnica sono: i nostri sentimenti.

L’ultima vittima di Hiroshima

Il pilota statunitense Claude Robert Eatherly, in un volo di ricognizione meteorologica prima del lancio della bomba atomica su Hiroshima, commette un errore di valutazione che costerà la vita di migliaia di persone. Hiroshima è – secondo Anders – l’inizio del tempo della fine, Endzeit, di un’esistenza intrinsecamente minacciata dal rischio di un’apocalisse nucleare. Vissuta non più nei confini utopistici del non-ancora, ma dentro il limite catastrofico del non-più. Un’epoca, quella del Novecento, che transitava tra l’uomo senza umanità e quindi senza mondo di Auschwitz, al possibile mondo senza uomo di Hiroshima. “Il 6 agosto rappresentava il giorno zero di un nuovo computo del tempo: il giorno a partire dal quale l’umanità era irreparabilmente in grado di autodistruggersi”

Anche la vita del pilota Eatherly, tormentato dai sensi di colpa, va alla deriva fino a che egli venne rinchiuso in un istituto psichiatrico.
Anders decide di scrivergli una lettera, che comincia così:

“Caro signor Eatherly, Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui lei verrà (o non verrà) a capo della sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokyo o a Vienna) con il cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che oggi si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione dell’esistenza: il fatto che indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare – questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare «incolpevolmente colpevoli», in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente avanzato dei nostri padri. Lei capisce il Suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere – oggi o domani – ciascuno di noi”.

Parte così un epistolario, che sarà poi pubblicato.
Eatherly si delinea volta a volta come un anti Eichmann. Non la stolta obbedienza di una parte dell’ingranaggio di un male banale, ma un ultimo disperato tentativo di assumersi responsabilità e colpa.
Una questione etica che rimette anche in discussione il modo di fare filosofia. “Quando le testate nucleari si accumulano, non ci si può fermare a spiegare l’Etica nicomachea”.

Filosofia d’occasione

Respinto dalla possibilità di una carriera accademica tedesca, Günther Stern si trasferisce negli anni Trenta a Berlino, dove si guadagnerà da vivere scrivendo ogni sorta di articoli per diversi giornali, cambiando il suo cognome evidentemente ebraico in quello allusivo di Anders.

Negli anni di esilio francese a Parigi, scrive anche un romanzo, La Catacomba molussica, romanzo distopico antinazista che non gli sarà pubblicato perché non in linea con il marxismo ufficiale sostenuto dalla casa editrice comunista cui si era rivolto. Così come si sentì, durante il suo esilio statunitense, piuttosto estraneo al mondo dell’emigrazione intellettuale ebraico-tedesca. Moralista inquieto, fece i lavori più disparati, vivendo nella sua stessa esistenza l’irriducibile alterità che può essere vissuta dall’uomo contemporaneo che resista a che la sua dignità venga offesa.

Anders amava una scrittura che fosse una mescolanza di giornalismo e metafisica. Ci sono vari suoi scritti, negli anni in cui visse a New York, nella forma di una sorta di diario filosofico: lungi dal curiosare e rovistare nel proprio profondo, ma attento invece a cogliere sentimenti epocali che tutti probabilmente dovremmo condividere. Anders ha anche spesso evocato una sorta di storia dei sentimenti. Se il dislivello prometeico ha creato una disparità tra il fare ed il sentire, dinanzi al fatto che produciamo qualcosa che ci trascende, dovremmo riappropriarci della storia dei nostri sentimenti, per guarire da quella vergogna prometeica di sentirci inferiori a ciò che produciamo. Anche in questo senso va letta la critica di Anders all’american way of life: il conformismo, il pragmatismo, una falsa disinibizione in cui la performazione dei sentimenti in realtà ci allontana da essi, finisce per renderli antiquati. Se la tecnologia sfugge di mano, il filosofo deve invece cercare di avere nuovamente presa sul reale. Una filosofia che ha l’obbligo di essere filosofia morale, di ridare pathos alle emozioni, che sappia anche inventarne di nuovi e che siano all’altezza della situazione.

Alla violenza della tecnica riesce difficile opporsi in modo adeguato, e l’Anders pacifista non escluderà la legittimità della violenza pacifista dinanzi a tale distruttiva spada di Damocle.

Ovvero la risorsa cui quest’intellettuale autenticamente alternativo fa ricorso è quel grimaldello del pensiero, che è la fantasia. Anche dopo il suo ritorno in Europa, dal 1950, è questa sua fantasia morale che lo tiene in dialogo con quella che continua a presentarsi come la tragedia del moderno. Anche quando la scelta morale appare sempre più difficile, e la stessa fantasia rischia di essere un passaggio sopra il nulla. La fantasia va educata a saper ancora cogliere la realtà fantastica, ma anche a fronteggiare la natura mostruosa della realtà.

Lo Sguardo dalla Torre

Lo Sguardo della Torre è il titolo della raccolto di una serie di brevi apologhi morali di Günther Anders, allusive favole per adulti. “Sono favole attive, dove ora prevale l’ironia e ora la crudeltà: due modi per scavare e, per quanto riguarda il lettore, per metterlo (per metterci) in crisi”: così scrive Goffredo Fofi nella Prefazione all’edizione italiana.
Vi riportiamo il testo di quella che dà il titolo alla raccolta:

Quando la signora Glü dalla più alta torre panoramica gettò lo sguardo verso il basso, dalla strada sottostante, simile a un minuscolo giocattolo ma riconoscibile inequivocabilmente per il colore del cappotto, sbucò suo figlio; e un secondo dopo, questo giocattolo venne travolto e distrutto da un autocarro rassomigliante anch’esso a un giocattolo – comunque la faccenda si sbrigò a malapena nell’arco di un istante di irreale brevità, e il tutto si svolse solamente fra giocattoli.
«Io non vado giù!», urlò a quel punto la signora Glü, rifiutandosi di scendere le scale, «io non abbandono la torre! Lì sotto potrei disperarmi!»