Da alcuni anni se ne parla sempre con maggiore apprensione, al punto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ed i vari istituti nazionali hanno attivato programmi pluriennali per combattere il fenomeno.
Di cosa si tratta? L’antibiotico resistenza e la multi-resistenza sono fenomeni naturali di adattamento dei batteri alle condizioni a loro sfavorevoli. Sono dei meccanismi che consentono ai batteri di difendersi da quelle sostanze capaci di mettere in discussione la propria esistenza; è la loro battaglia per la vita, che in certi casi non coincide con la nostra. Gli stessi batteri ed i funghi producono, spontaneamente antibiotici, sia per difendersi che per attaccare altre forme di vita concorrenti. I primi antibiotici li abbiamo estratti dai funghi e dalla metà degli anni 40 in poi, ne abbiamo fatto un uso sempre più intenso sull’uomo e sugli animali, accelerando in maniera esponenziale i naturali processi di adattamento dei batteri.
L’assunzione di un antibiotico provoca la soppressione di tutti i batteri sensibili a quella sostanza ma lascia inevitabilmente campo libero ad altri batteri. Il processo di riproduzione del batterio avviene attraverso la duplicazione del DNA, ed è in questo momento che si possono verificare degli errori di trascrizioni (dette mutazioni), alcune di queste comportano la resistenza ad un antibiotico che prima risultava letale. Per fortuna non tutti i batteri sono veicoli di malattie, ma il processo di adattamenti purtroppo riguarda anche batteri rischiosi per la nostra salute. Si tratta di un tema molto complesso le cui cause sono molteplici: l’aumentato uso di questi farmaci nella cure umane e veterinarie a volte con utilizzi non appropriato; l’uso massiccio in zootecnia e in agronomia. Questo uso massiccio aumenta la pressione selettiva sui batteri, favorendo la moltiplicazione di quei ceppi resistenti. Il problema si aggrava con la comparsa di comportamenti di multi-resistenza di determinati ceppi patogeni che rendono le cure particolarmente difficili. Purtroppo, quest’ultima categoria di resistenza riguarda frequentemente infezioni legate all’assistenza sanitaria, diffuse all’interno di strutture ospedaliere e sanitarie, le cosiddette infezioni nosocomiali.
Questo è sicuramente uno dei principali problemi delle organizzazioni sanitarie, sia a livello globale con l’OMS, che a livello continentale come l’Unione Europea, che hanno varato programmi e protocolli atti a cercare di contenere il fenomeno.
In Italia con il PNCAR (Piano Nazionale di Contrasto all’Antibiotico-Resistenza) 2017/2020, si sta cercando di mettere in atto politiche di sensibilizzazione e procedure atte alla riduzione del fenomeno. Purtroppo le notizie non sono confortanti, l’Italia è all’ultimo posto per morti riconducibili alla Resistenza-antibiotica degli agenti patogeni responsabili delle infezioni. Secondo le statistiche della Comunità Europea su circa 33.000 decessi ascrivibili a questo fattore 10.000 si sono verificati in Italia. Si tratta di una responsabilità sia individuale che collettiva. Certamente la moderazione dell’uso degli antibiotici, nelle catene industriali di allevamento di animali destinati all’uso alimentare è un passaggio fondamentale per arginare il fenomeno; ma allo stesso modo lo è un uso umano, solo nei casi in cui questo sia strettamente indispensabile. Troppe sono le circostanze in cui con leggerezza si assumono, o si fanno assumere anche a bambini, cicli di antibiotici non strettamente necessari.
Le regioni coinvolte
Le regioni del centro Italia sono quelle più colpite e che hanno riportato un incremento dei dati rispetto al 2017 passando da 3,7 casi su 100.000 abitanti a 4,4. Il Sud e le Isole fanno registrare 3,1 casi su 100.000; ed il Nord con 2,8 casi su 100.000. Sembrano numeri modesti, ma il fenomeno ha una crescita esponenziale, le stime degli organismi sanitari parlano di un incremento da circa 700.000 morti all’anno a 10.000.000 (dieci milioni) nel 2050.
I soggetti a rischio
I soggetti maggiormente interessati sono maschi (69,2%) di età compresa tra i 60 ed i 79 anni. Il fenomeno è ancora circoscritto agli ambienti sanitari, infatti l’86,1% dei decessi ha interessato soggetti ospedalizzati, di cui il 38,3% in terapia intensiva.
Una possibile soluzione
In uno studio portato avanti in Francia e pubblicato dalla rivista Disease Management and Health Outcomes nel 2004, un gruppo di 499 bambini che soffrivano di raffreddori ricorrenti sono stati divisi in due gruppi. 231 bambini hanno ricevuto il trattamento convenzionale e 268 bambini sono stati trattati da medici di famiglia che usavano l’omeopatia assieme ai farmaci convenzionali.
I risultati sono stati stimolanti: i medici di famiglia “omeopati” hanno iniziato un trattamento preventivo nell’82,2% dei pazienti, rispetto al 43,3% di trattamenti preventivi del gruppo non omeopatico, cosa che è in accordo con l’approccio omeopatico di concentrarsi in primo luogo nel ridurre la vulnerabilità verso la malattia per prevenire che appaia, piuttosto che “lottare” contro la malattia una volta che è apparsa.
Inoltre, solo il 20,9% del gruppo di bambini “omeopatico”, ha ricevuto antibiotici come parte del loro trattamento, rispetto ad uno sbalorditivo 89,9% del gruppo non omeopatico. Ci sono state varie altre prove che mostrano che i pazienti che ricevono un trattamento omeopatico hanno, meno spesso, bisogno di usare antibiotici. Inoltre questi pazienti non sviluppano complicazioni legate a farmaci come risultato del trattamento.