Si sono spente insieme, come avevano vissuto. Ellen e Alice Kessler, le gemelle che avevano fatto ballare e sognare l’Italia del boom economico, hanno scelto di chiudere il loro percorso terreno nello stesso momento, attraverso il suicidio assistito in Svizzera. Avevano 88 anni, una carriera leggendaria alle spalle, e davanti la prospettiva di un declino che non erano disposte ad accettare. La loro scelta è stata lucida, meditata, coerente con una vita vissuta sempre in perfetta sincronia.
La notizia ha scosso l’opinione pubblica, dividendola come sempre accade quando si parla di fine vita. Ma al di là delle posizioni etiche e religiose, la scelta delle sorelle Kessler ci pone davanti a una domanda scomoda: fino a che punto il prolungamento della vita ha senso, se questo significa rinunciare alla sua qualità?
La tirannia della sopravvivenza a tutti i costi
Viviamo in una società ossessionata dalla longevità. Ogni anno vengono celebrati nuovi record di aspettativa di vita, come se il semplice fatto di respirare più a lungo fosse di per sé un traguardo. La medicina convenzionale ha fatto passi da gigante nel mantenerci in vita, ma spesso si dimentica di chiedersi: in vita come?
Gli ultimi anni di molte persone sono caratterizzati da una progressiva perdita di autonomia, da una dipendenza crescente dai farmaci, da un’esistenza scandita da visite mediche, esami, terapie. L’ipermedicalizzazione della vecchiaia è diventata la norma: si aggiunge un farmaco per ogni sintomo, si interviene su ogni parametro fuori range, si combatte ogni segnale di declino come se fosse il nemico da sconfiggere.
Ma il declino non è il nemico. È parte del ciclo naturale della vita. E combatterlo a oltranza, senza considerare il prezzo che la persona paga in termini di qualità dell’esistenza, significa tradire l’essenza stessa della medicina, che dovrebbe prendersi cura dell’individuo nella sua interezza, non solo del suo corpo biologico.
Dignità significa poter scegliere
Le gemelle Kessler hanno scelto. Hanno guardato avanti, hanno visto cosa le aspettava, e hanno deciso che quel futuro non era per loro. Non stavano fuggendo dalla vita, stavano rivendicando il diritto di decidere come viverla fino all’ultimo istante.
Questa libertà di scelta è al centro del dibattito sul fine vita, ma è anche una libertà che la nostra società fatica a riconoscere. Siamo cresciuti con l’idea che la vita vada preservata sempre e comunque, che arrendersi significhi fallire. Ma c’è una sottile, fondamentale differenza tra arrendersi e accettare. Tra subire passivamente e decidere consapevolmente.
La dignità non sta nel numero di anni vissuti, ma nella possibilità di mantenersi padroni della propria esistenza, delle proprie scelte, del proprio corpo. Quando questa possibilità viene meno, quando diventiamo prigionieri di un sistema che ci tiene in vita contro la nostra volontà, allora sì che perdiamo la nostra dignità.
Un approccio diverso alla salute e all’invecchiamento
Dovremmo ripensare il nostro rapporto con la salute, con l’invecchiamento, con la morte stessa. Non si tratta di rassegnarsi, ma di accompagnare il percorso della vita con saggezza e rispetto. La società contemporanea ha rimosso la morte. L’ha nascosta negli ospedali, trasformata in un fallimento della medicina piuttosto che in un passaggio naturale. Abbiamo perso la capacità di accompagnare chi se ne va, di accettare che ogni cosa ha il suo tempo, che trattenere qualcuno che vuole andare non è amore ma egoismo.
Serve una medicina che mette al centro la persona, non la malattia. Che si preoccupa di mantenere l’equilibrio complessivo dell’organismo, non solo di sopprimere i sintomi. Che lavora per arrivare alla fase finale dell’esistenza in condizioni di benessere, lucidità mentale, autonomia fisica, per quanto possibile.
L’obiettivo non è vivere a tutti i costi fino a cent’anni, ma vivere bene il tempo che ci è dato. Arrivare alla fine del proprio viaggio con la mente chiara e il corpo non devastato da anni di terapie aggressive. Questo significa prendersi cura di sé in modo globale, rispettando i ritmi naturali, sostenendo le capacità di autoregolazione dell’organismo, evitando l’accumulo di farmaci che spesso creano più problemi di quanti ne risolvano.
La prevenzione che conta davvero
Quando parliamo di prevenzione, pensiamo immediatamente a screening, esami, check-up. Ma la vera prevenzione è quella che si fa ogni giorno, attraverso uno stile di vita sano, un’alimentazione equilibrata, il movimento, la cura delle relazioni, l’attenzione ai segnali che il corpo ci manda.
È la prevenzione che ci permette di invecchiare mantenendo la vitalità, non solo la sopravvivenza. Quella che ci fa arrivare alla vecchiaia senza il fardello di una decina di farmaci da assumere quotidianamente, senza la dipendenza totale dai servizi sanitari, senza aver perso la capacità di godere delle piccole gioie quotidiane.
Questa è la differenza tra quantità e qualità. Tra esistere e vivere. E di fronte a questa differenza, la scelta delle sorelle Kessler acquista un significato ancora più profondo: hanno preferito andarsene da protagoniste piuttosto che restare da comparse della propria vita.
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