Claire Marin è una filosofa nata a Parigi nel 1974, che ha saputo scrivere in modo originale del dolore, della separazione, della malattia.
La nostra vita è fatta di rotture
“Anche rotti, i legami possono continuare a essere sensibili, membri di un’equazione fantasma, testimoni di una vita passata. Di tutto ciò che quella vita ha inscritto in noi rimane traccia: tutto quello che si è infiltrato, tutti gli engrammi nella nostra carne, nei nostri pensieri, nei nostri modi di comprendere e di essere. Tutti gli strascichi, la coda indefinita della cometa, quello che sussiste, ciò che è in corso nostro malgrado. Impossibile voltare davvero pagina, tutto ciò che è stato scritto prima resta in trasparenza, la vita precedente rimane ostinatamente in filigrana. Non c’è lavagna magica che non conservi qualche impronta dei disegni cancellati, la penna ha lasciato un segno sulla superficie che si intravede sotto i nuovi schizzi. L’inconscio si incarica di rammentarci quelle tracce fantomatiche e rende impossibile una svolta assoluta.”
La rottura di cui parla Claire Marin (Rupture(s), testo del 2019 tradotto in italiano con il titolo La fine degli amori. E altri addii che trasformano la nostra vita) è un’esperienza fisica, corporea, la violenza di una mancanza. Viviamo tutti le ferite della vita, pur reagendo in modi differenti. Le rotture ci definiscono. Una rottura è accettare la scommessa di poter diventare altro; ma fino a che punto posso diventare un altro? Una partenza, una separazione, un lutto, la malattia, la depressione sono una catastrofe od anche la condizione di una rinascita? “Il nuovo soggetto che emerge da una rottura esistenziale è spesso considerato come qualcosa di inatteso, di imprevisto.” “Ma questa nuova vita, questa metamorfosi del soggetto che altro è se non una consolazione, una ricostruzione a posteriori necessaria per sopportare il dramma, per dare un senso all’assurdità della morte, della malattia, del trauma?”
Sono in gioco la forza della resistenza (ciò che non mi uccide mi fortifica, come ha scritto Nietzsche), ma anche la possibile liberazione di un nuovo amore. “Riconoscere la rottura sarebbe allora una prova di maturità di fronte alla necessità di un cambiamento vitale”. La libertà che può derivare da questo riconoscimento non è solo flessibilità e resilienza, non è solo liberarsi di una zavorra, ma è anche la presa di coscienza delle nostre responsabilità.
Parlare di rotture non è banalmente consolatorio. “A volte la rottura è solo un pasticcio, una mancanza di coraggio, una viltà.” Si riparte da un fallimento. “E spesso il fallimento è fallimento puro e semplice, misero, deludente, un insuccesso totale.”
Anche la malattia è un’importante esperienza di rottura. “La malattia, come il lutto o altre forme di trauma psicologico, imprime in noi una profonda inquietudine, l’impossibilità di un rapporto sereno e fiducioso con la vita, una tensione e un’eccitazione febbrile molto particolari. Non si ricomincia da zero, siamo gravati dal peso del vissuto doloroso. Il ritorno alla vita normale non ha niente di scontato.”
L’uomo senza febbre
Soigner n’est pas guerir, curare non è guarire, si legge nella prefazione di Claire Marin al suo libro (del 2013) L’homme sans fièvre. “La guarigione, eretta a ideale o obiettivo, quantificata, dogmatizzata, diventa l’ossessivo orizzonte delle pratiche e dei discorsi del dominio medico e più in generale nello spazio della sanità pubblica. La cura, aperta a definizioni sempre più ampie e vaghe, si impone come una parola d’ordine societaria che, a forza di essere evocata oltre ogni misura, rischia di essere svuotata di ogni significato”. Si rischia di dimenticare che la medicina è anzitutto una relazione umana specifica: “il riconoscimento cioè della sofferenza dell’altro e lo sforzo di darle sollievo”. La cura può significare accogliere delle fragilità, senza volerle correggere.
Dietro invece la medicalizzazione della cura come guarigione, si costruisce una patologizzazione della vita umana. Le diverse fasi della vita, e fino alla morte, possono essere intese come malattie da cui dover guarire. “L’uomo normale si definisce attraverso le sue malattie, in un nuovo strano narcisismo, impregnato dal linguaggio medico”. Ci definiamo bipolari, iperattivi, depressi. La malattia, poiché evitabile, diviene inaccettabile.
Il dolore va invece considerato oltre che come un sintomo da eliminare, come un disagio esistenziale da accogliere e accompagnare. La logica non può essere quella degli ospedali come aziende. “Dare tempo alla cura è ciò che permette di migliorarla”.
“In un dirottamento della funzione primaria della cura, uno degli orizzonti delle società contemporanee potrebbe definirsi oggi come l’ideale di un uomo senza malattie, senza debolezze, senza vulnerabilità”. Un po’ come Platone aveva chiamato medicina degli schiavi quella volta ad eliminare i sintomi per restituire gli schiavi alla loro funzionalità. Addirittura nell’ideale di un uomo aumentato, più performativo della sua stessa natura, un uomo protesico o dopato.
“L’uomo aumentato, le cui possibilità siano accresciute dalla tecnica fino al punto da non essere più umane, è un’idea più che una realtà”. Un’utopia che è una distopia, quella dell’uomo bionico, nei suoi aspetti talvolta comici e grotteschi, talvolta terribili e spaventosi. La salute non è una rigida performatività, ma è piuttosto omeostasi, è la dinamica capacità di adattamento e duttilità che ci rende attivi contro ciò che minaccia il nostro benessere.
“Si osserva dunque il rientrare dalla finestra dello schema cartesiano del corpo-macchina, con questa distinzione, di non essere più un paradigma epistemologico, che voglia spiegare il vivente a partire a ciò che è meccanico, ma come modello della perfezione a cui aspirare: fare del nostro corpo una nuova macchina, insensibile ed invulnerabile”.
“Trasformando il suo corpo, l’uomo vuole limitare l’effetto del tempo, rifiuta la sua finitudine”. La salute perfetta è una salute impossibile, quella di un corpo che non conosca passione. “L’uomo moderno, nonostante le sue pretese edonistiche, diffida delle sue proprie passioni”. Ne deriva una tendenza della medicina a patologizzare dei comportamenti, dall’ansia degli adulti all’iperattività dei bambini. “L’umano abdica. Qualora il reale o il vivente resistano, si fa affidamento sul farmaco per indebolirli, addolcirli”.
“Il paradosso delle nostre esistenze ipermedicalizzate è di produrre malattie là dove talvolta non ci siano che delle difficoltà di ordine relazionale o delle situazioni di disagio”. Nella quale ipermedicalizzazione è anche riconoscibile una strategia economica: “risvegliare il malato che dorme in ciascuno di noi per farne il futuro cliente di un trattamento farmaceutico molto redditizio”.
La salute stessa, da condizione naturale che era, è divenuta una sorta di imperativo categorico. Da quella silenziosa consapevolezza che dovrebbe essere, la salute rischia di diventare qualcosa da ricercare e da ostentare. La salute dalla dissimulata percezione di noi stessi che dovrebbe essere, diventa una simulazione. Si rovesciano anzi i termini: è la malattia che viene considerata qualcosa di dissimulato che va riconosciuto e combattuto. La medicina preventiva indica sane norme di igiene di vita; l’ipermedicalizzazione invece trasforma la dieta nell’ansia di sentirsi lisci e attraenti, la cura di sé nell’ossessiva lotta alle pieghe di ciò che sia rugoso. I problemi diventano malattie. E la medicina una panacea, ed un’assicurazione sulla vita.
Ma “è proprio perché dalla medicina ci si aspetta troppo, che essa ci delude tanto”. La medicina anzi, con i nuovi strumenti di una diagnostica predittiva, crea nuove incertezze ed aumenta le nostre ansie. “Di fronte all’insostenibile incertezza della vita, non esiste alcun contratto di garanzia, nessun discorso che possa essere assolutamente rassicurante”.
La Cura
L’etica della cura, oltre che dare occasione a slogan politici nell’uso della parola inglese care, ha posto anche una questione di genere. Come se l’etica astratta e normativa, quella della giustizia e dei diritti, fosse eminentemente maschile; quella della cura, del prendersi cura, un’etica affettiva attenta al particolare ed alle relazioni, fosse invece eminentemente femminile.
“Si tratta di pensare diversamente la giustizia, non più in modo teorico ed astratto, ma riconoscendo nelle nostre società l’ampiezza dei compiti di cura, che non riguardano solo i bambini, i malati e gli anziani, ma ognuno di noi che, senza essere in senso stretto vulnerabile, è spesso dipendente dall’aiuto degli altri nel suo quotidiano, nella banalità della sua vita”. Un’etica dunque fondata sulla nostra fragilità e vulnerabilità, e sulla necessità sociale di caregivers. Accettare la fragilità è la condizione perché questa onnipervasività della cura non sia un’utopia di guarigione, non sia un’eufemizzazione della sofferenza, ma sia la base di una società di relazioni.
È in un processo di cura ben inteso che il paziente può diventarne attore. L’autonomia del paziente può assumere allora il suo giusto significato, e non essere solo l’effetto di un taglio delle spese sociali dedicate alla cura.
La cura non è un’utopia e non è neppure idealizzabile: anzi talora avviene nella resistenza di chi dovrebbe essere curato e nello scoraggiamento di chi dovrebbe curare. Può esserci addirittura una intrinseca, irriducibile violenza nel dovere di cura. Anche perché la medicina deve farsi carico di compiti, che dovrebbero essere sociali e politici, di relazione con persone messe ai margini del vivere civile: anziani che vivono soli, senzatetto, tossicodipendenti, migranti. “Si tratta di indicare dei modi per migliorare ciò che è insufficiente, far scomparire ciò che è inaccettabile e restituire alla medicina la capacità di ritrovare le sue prime ambizioni in termini di umanità”. Marin propone una pedagogia di chi presta cure: “familiarizzare chi cura con il dolore, la sofferenza e la morte, invece di lasciare che il confronto avvenga brutalmente nel modo della prova iniziatica che forgerà la sua corazza professionale”
Curare è anche imparare a guardare, toccare, supportare il corpo del malato. “Bisognerebbe poter instaurare nel tempo una confidenza con il paziente, che permetterebbe di penetrare nella sfera della sua intimità senza che egli la viva come un’effrazione, di aiutarlo a sopportare il suo corpo sofferente. Ci vorrebbero tempo e pazienza, condizioni in fin dei conti abituali nell’instaurarsi di una relazione umana”.