James Hillman: l’Arte di fare l’Anima

25 Ottobre, 2022
Tempo di lettura: 6 minuti

James Hillman (1926-2011) è stato uno psicanalista jungiano che ha rivisitato la psicologia, sottraendola alle tecniche comportamentiste e facendone piuttosto un discorso sull’anima. 

“James Hillman è un artista della psicologia: “ scrive Thomas Moore in Fuochi blu, una raccolta di suoi scritti. Hillman “offre una re-visione della psicologia, recuperandola dalle mani di chi la usa come una scienza del comportamento, per trattarla come un’arte dell’anima “.

Il codice dell’anima 

Il primo gesto decisivo di Hillman è di sottrarre l’anima dall’individualità dell’Io, dal teatrino familiare dei traumi infantili, e di ricongiungerla alle immagini archetipiche, di far risalire ogni anima al suo crocevia tra destino e carattere. 

Il codice dell'anima - James HillmanQuella che Hillman chiama la sua Teoria della ghianda è la sua Redenzione della Psicologia. Il libro Il codice dell’anima “ha per argomento la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la teoria della ghianda, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.” Il carattere che ci contraddistingue proviene dal nostro destino, è il dono per cui la nostra vita merita di essere vissuta. Il destino è la nostra vocazione, il carattere la nostra risposta a questa chiamata. I toni tragici del destino rilucono nel manifestarsi del nostro carattere. La lugubre predestinazione della nostra essenza prende forma nel forgiarsi della nostra anima. Ethos Anthropoi Daimon. Il carattere dell’uomo è il suo destino. 

“C’è bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza della propria vita“. E “per cambiare il modo di vedere le cose, bisogna innamorarsi”. Bisogna saper leggere i segni di ciascuna persona non solamente sul piano razionale, cioè cronologico o terapeutico. “Il luogo dei sintomi non è anzitutto la malattia, bensì il destino”. Al terapeuta deve interessare più che propriamente la salute del paziente, piuttosto la sua capacità di innamorarsi della bellezza.

Hillman è un attento seguace della fenomenologia e della Gestalt. Richiede una ristrutturazione della percezione che faccia della psicologia un discorso dell’anima, tale che le si possa dischiudere la bellezza di ciò di cui parla. “La bellezza è in se stessa una cura per il malessere della psiche”. 

Il dischiudersi della ghianda è anche lo sforzo del daimon, del destino, di discendere nella vita vissuta e nel carattere di ciascuno di noi. Questa è la crescita di ognuno, che nei propri genitori e nel proprio ambiente trova poco più che un’occasione.

Non possiamo, secondo Hillman, ridurre la relazione dei figli con i genitori ad un nesso causale lineare e discendente. Dobbiamo, per così dire, decostruire i genitori. Il daimon personale è la causalità libera di ciascuno di noi. La complessità della crescita di una persona va compresa liberandola dalla superstizione parentale di confinare tutto nel ristretto nucleo familiare, riconducendola invece all’insondabile eccezionalità del dischiudersi della ghianda al mondo. La domanda cruciale da porsi è: “Come trovare un posto nel mondo a ciò che è venuto al mondo con me?”

La vita è un sistema non lineare. “Le nostre vite non progrediscono in linea retta, bensì indugiano, oscillano, tornano indietro, si rinnovano, si ripetono”. Come secondo la teoria del caos, un piccolo evento imprevedibile o poco appariscente può produrre effetti enormi e significativi. Una ecologia del profondo può dare voce a queste profonde interconnessioni.

Un evento inatteso e trascendente è l’innamoramento. “L’innamoramento è un evento raro e fortuito, che colpisce a una profondità incredibile”.

Ed in ogni caso la vita è come ce la raccontiamo; come Hillman affida a Twain di affermarlo: “Mark Twain insinua che il racconto della nostra vita tende a prendere il sopravvento sul dato storico” “Per raccontare la verità vera, io devo deformare la storia. La storia deve adeguarsi all’eccezionalità del daimon”.

È in realtà il daimon che difende il suo mytos dalla sua riduzione a logos. “Non permetterò che la mia stranezza, il mio mistero, siano inseriti in un mondo di fatti.” Ciascuno si costruisce il suo alter ego, il suo gemello, il suo Doppelgänger. Ed a questa nostra ombra chiediamo in certi momenti di chiamarci con il suo nome. 

Sembrerebbe il daimon presentarsi come un fato prestabilito, ma in realtà sta a noi sottrarlo dal una mera concatenazione di cause e farne un momento di riflessione. Allora il razionale e passivo fatalismo lascia spazio al sorgere del nostro carattere. Il daimon coglie di sorpresa, si manifesta al di là delle mie intenzioni come un’esitazione o un’infatuazione, ma intanto si forgia e risplende il  nostro carattere. Il carattere è il telos, lo scopo per il quale le cose avvengono per noi. In modo necessario. “Comunque siamo, non potevamo essere altrimenti’.

È il carattere che rende individuale ogni anima e la sottrae comunque alla mediocrità. “Per l’anima l’idea di mediocrità non ha senso”. Ma lo stesso talento è al servizio del carattere. “Molti hanno talento, pochi il carattere che può realizzare quel talento. È il carattere il mistero; e il carattere è individuale”. 

Qualsiasi cosa siamo, lo siamo a modo nostro. “Il carattere non è quello che faccio, ma il modo come lo faccio”. E dietro ciascuno, la grandezza del suo carattere può farne un personaggio che rappresenta se stesso. “Il carattere conforma la vita, non importa quanto oscuramente sia vissuta e quanto poca luce riceva dalle stelle.” 

Entriamo in scena noi. Il destino del daimon diventa nostra responsabilità. 

La forza del carattere 

Ciò che al bambino si presenta con l’aspetto anche terribile del destino, si consolida nell’anziano come la forza del suo carattere. All’innocenza del puer di fronte alla rivelazione del destino segue la saggezza del senex nella libera scelta del proprio carattere. “Il carattere sta agli anni della vecchiaia come la vocazione individuale sta agli anni giovanili”.

La forza del carattere - James HillmanSe “esiste un qualcosa che plasma ciascuna vita in un’immagine globale”, per Hillman questo è il carattere. Nel carattere sono incise le qualità distintive di un individuo, che potrebbero farne il personaggio di un’opera narrativa o teatrale. Dramatis Personae. Ciò che fa diventare la nostra vita una forma unica, indistinguibile, completa. “L’idea di integrità richiede soltanto che si sia quello che si è”. 

Nella persona anziana può il carattere meglio rilucere, ed il carattere può illuminare la vecchiaia, la tarda età di una persona. 

Il nostro carattere è anche la nostra nevrosi, la nostra malattia, ma lo è nel modo in cui Jung diceva che “gli Dei sono diventati malattie”. Nel carattere si struttura il nostro rapporto con il mito, gli archetipi, l’inconscio, il destino. E la nostra crescita sta nel poterlo scegliere liberamente.

L’unità del carattere è comunque quella di un mosaico, la sua integrità non è così unitaria: “assomiglia, piuttosto, a quando, alla fine dell’opera, l’intera compagnia si presenta in scena, ed il coro, i ballerini, i protagonisti e il direttore d’orchestra fanno i loro inchini scoordinati”. “Il carattere è un fascio di caratteristiche”.

Il proprio carattere decanta meglio negli anni della vecchiaia. “Gli anni della giovinezza devono concentrarsi sul fare le cose, mentre gli anni più tardi riflettono sulle cose fatte e su come sono state fatte.” Nella gravità della vecchiaia si sedimenta il carattere di una persona. In vecchiaia possiamo rientrare in contatto con i racconti, i miti, gli Dei dentro di noi. 

Il carattere in qualche modo risplende per sempre. “Quel che resta di noi dopo che ce ne siamo andati è il carattere, l’immagine a più strati che fin dall’inizio era andata plasmando le nostre potenzialità e i nostri limiti.” In qualche modo il carattere conclude la nostra vita. Hillman cita Santayana: “Il nostro onore e il nostro vanto, e anche la nostra pena, starà nell’essere stati qualcosa di particolare”. Ognuno di noi è unico e insostituibile.

“Carattere e immagine sono inseparabili”. Il carattere ha quella ricchezza di immagini che è scomparsa nella filosofia razionalista moderna, dal Cogito di Cartesio all’Appercezione trascendentale di Kant. “Bisogna far rinascere il carattere dalle macerie dell’astrazione che al centro dell’uomo, come sua coscienza, ha impiantato il vuoto.” Se il simile conosce il simile, la complessità del mondo sfugge alla mera astrazione. Il pensiero deve invece riproporsi nella forma di immagini, la psicologia non può che tradurre l’anima in immagini. Invecchiando si diventa progressivamente la propria immagine. “E inventare immagini mentre si conversa è certamente più piacevole che comunicare informazioni.”

Così come è superficiale e utilitaristica l’idea moralistica di carattere. “Quello che intendo per forza del carattere è in parte la persistenza di anomalie incorreggibili, di quei tratti che non possiamo aggiustare, non possiamo nascondere, non possiamo accettare.” L’immaginazione nutre piuttosto la nostra vita sentimentale, affettiva. “I rapporti falliscono non perché abbiamo smesso di amare, ma perché, prima ancora, abbiamo smesso di immaginare.” 

Il carattere “si rivela non già nella moralità della condotta bensì nel suo stile”. È una questione di stile. “Rendersi insostituibile… è un esercizio estetico”. L’estetica come rivelazione. “L’estetica nasce da un’immagine epifanica, dalla forza del carattere che si rivela nella sua pienezza, come in un’opera d’arte.”

Psicologia alchemica

Hillman fa sua la definizione junghiana della nevrosi come “sviluppo patologico unilaterale della personalità”. Ma se l’unilateralità è patologica, tanto che lo stesso carattere possa diventare nevrosi, allora la psicologia per essere terapeutica deve uscire dalla nevrosi del suo stesso linguaggio, deve diventare psicologia alchemica. 

Il linguaggio dell’ alchimia è concreto e multiforme, al suo confronto quello della psicologia scientifica è astratto ed impreciso. Il pensiero razionale è incapace di creare e quindi di comprendere i simboli, determina univocamente senza poter contemporaneamente includere anche l’opposto. L’alchimia è invece tutta metafore ed analogie. Ed opera per una redenzione della materia, non per tradurla in concetti. La materia della psicologia è l’anima, una psicologia alchemica sarà dunque un fare anima. L’idea di finalità è ciò che mette l’anima in opera. Ed il linguaggio alchemico sa farci intravedere e rivelare bellezze nascoste, perle e tesori. “L’idea dell’oro motiva il fare, giustifica lo sforzo e conferisce a entrambi il valore più alto”.

 

Ovviamente “a essere necessario non è il ritorno letterale all’alchimia, bensì il ripristino della modalità alchemica di immaginare le cose”. “La physis letterale, la sostanza in quanto tale, viene lavata, sicché ne emerge in risalto la sua interiorità, il suo principio immaginativo.” 

L’alchimia e le sue mete sono “alla stregua di immagini di stati della psiche disponibili.” L’alchimia fornisce le immagini e le correlazioni della strada che l’anima può percorrere per tornare al mondo.

  

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