Michael Sandel, nato nel 1953 a Minneapolis, è professore di Filosofia Politica all’Università di Harvard. È un riconosciuto esponente del comunitarismo, e cioè della necessità in questioni cruciali riguardanti la giustizia e quindi il bene comune, che si vada oltre il punto di vista individuale e neutro assunto dal liberalismo, e si mettano invece in campo in un dialogo costruttivo i valori condivisi dalle comunità anche differenti che abbiano una comune cittadinanza.
Oltre una concezione utilitaria della giustizia, ed oltre quella liberale che ne presuppone una astratta uguaglianza: “secondo la terza concezione, la giustizia richiede che si coltivi la virtù e si ragioni circa il bene comune”. “La sfida è immaginare una politica che prenda sul serio le questioni etiche e spirituali, portandole a incidere sulle materie di interesse economico e civico in senso lato, non solo sul sesso e sull’aborto.”
“Se è vero che una società giusta esige un forte senso della comunità, essa dovrà trovare il modo di coltivare nei cittadini la cura e l’impegno per l’insieme, la dedizione al bene comune; non potrà rimanere indifferente agli atteggiamenti e alle disposizioni, alle “abitudini del cuore” che i cittadini portano nella vita pubblica. Dovrà trovare il modo di contrastare quelle concezioni della vita buona che si limitano all’aspetto privato, coltivando le virtù civiche.” Il mercato, la disponibilità di tecniche di manipolazione genetica, la meritocrazia: sono tutti aspetti della nostra civiltà che a diverso titolo hanno dei limiti etici. Nei confini che perciò ne vanno tracciati si profila una possibile politica del bene comune e della solidarietà. Obiettivo primario sarebbe allora “ricostruire l’infrastruttura della vita civile”. Una politica di impegno etico.
Contro la perfezione
Se la scienza prende il sopravvento sull’etica, ne va dell’idea stessa di umanità.
La possibilità di scegliere il donatore per una fecondazione artificiale che abbia determinati requisiti (una coppia lesbica costituita da due donne entrambe sorde richiese un donatore che avesse la sordità nell’albero genealogico genetico), la possibilità di clonare il proprio defunto animale domestico, questi sono esempi di come la manipolazione genetica crei dei problemi etici. Che consistono nel cercare di sostituire una propria idea di perfezione alla naturale casualità della lotteria genetica. Ovvero di utilizzare la manipolazione genetica per migliorarsi. Che sia la possibilità di accrescere la muscolatura o la memoria o di predeterminare il sesso del nascituro, ciò implica che la genetica non tanto servi a curare o prevenire una malattia, ma che diventi uno strumento di una discutibile etica della perfezione da raggiungere. Lo stesso gene in effetti che ripara un danno muscolare, può rendere più efficiente un muscolo sano. Ma è invece giusto che i nostri successi sportivi dipendano da una combinazione di talento e sforzo e non da una manipolazione delle nostre prestazioni.
La lezione etica è quella di accettare il gioco della vita nella consapevolezza dei propri limiti e delle proprie imperfezioni. Accettare i propri figli come un dono e non come un progetto di perfezione. Essere aperti a ciò che è imprevedibile. Si deve guarire la malattia, ma non si possono aumentare per accumulo la salute e la felicità. Dei genitori verso i figli, l’amore che accetta si compensa con l’amore che trasforma. Il compito dei genitori è comunque quello di educare, piuttosto che di migliorare il patrimonio genetico.
Etica è la libertà che non pretenda di poter disporre arbitrariamente delle condizioni esistenziali da cui ognuno proviene. Che la competizione del mercato e del merito siano un ostacolo ad una giusta etica, questo è un problema, politico.
Quello che i soldi non possono comprare
Se stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita, contro questa direzione resistono due preoccupazioni: che così aumenti la diseguaglianza e che aumenti la corruzione. Se ogni cosa finisce per avere un prezzo (saltare una coda per esempio), ovviamente aumentano le difficoltà per chi è meno ricco. Ma c’è un altro elemento più sottile: “se trasformate in merci, alcune delle cose buone nella vita vengono corrotte o degradate”. “La corruzione non riguarda solo le mazzette e i pagamenti illeciti. Corrompere un bene, o una pratica sociale, significa degradarlo, valutarlo secondo parametri inferiori e inappropriati”. “L’obiezione dell’equità chiede conto della disuguaglianza che le scelte di mercato possono riflettere; l’obiezione della corruzione chiede conto dei comportamenti e delle norme che le relazioni di mercato possono danneggiare o dissolvere”.
“La salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici… sono questioni morali e politiche, non soltanto economiche”. Quale possa essere una giusta idea di vita buona, è un tema che non può essere esiliato dal dibattito pubblico. “Questo atteggiamento non giudicante nei confronti dei valori sta al cuore della logica di mercato e spiega gran parte del suo fascino. Ma la nostra riluttanza a impegnarci nell’argomentazione morale e spirituale, insieme con la nostra adesione ai mercati, ha avuto un prezzo elevato: ha svuotato di energia morale e civile il dibattito pubblico e ha dato un contributo alle politiche manageriali e tecnocratiche che affliggono oggi molte società”.
In generale “la corruzione consiste nel comprare e vendere qualcosa… che non dovrebbe essere in vendita”. La buona fede del pensiero economico deriva dall’assunto che ogni decisione derivi da un calcolo razionale di costi e benefici. Ma è proprio questo presupposto che mina la possibilità di una concezione etica e non solamente economica della vita.
Ci sono motivazioni che sarebbe improprio ridurre ad incentivi economici. E ci sono comportamenti immorali sanzionabili (esempio: inquinare), ma non per questo se ne può acquistare il diritto monetizzandolo.
L’onnipervasività del pensiero economico, se apparentemente aumenta l’efficienza (da questo punto di vista regalare soldi è meglio di rischiare di fare un regalo indesiderato), tuttavia sottrae motivazioni ai nostri comportamenti e ci inibisce dal cercarle in valori ideali, nel senso di comunità, in una concezione etica del bene comune. La gratuità e l’altruismo di un attività è già un valore, che può motivare più di una blanda gratificazione in denaro.
L’etica può, almeno in alcuni casi, essere un sostituto dell’interesse personale? Anzi: si può ritenere che l’etica debba essere non una motivazione residuale dei nostri comportamenti, ma quella fondamentale?
“L’altruismo, la generosità, la solidarietà e lo spirito civico non sono come merci che vengono consumate dall’uso. Sono più come muscoli che si sviluppano e crescono più forti con l’esercizio. Uno dei difetti di una società guidata dai mercati è che lascia languire queste virtù. Per rigenerare la nostra vita pubblica occorre esercitarle più strenuamente.”
La Tirannia del merito
Nel 2020 Sandel ha pubblicato in saggio su La tirannia del merito, il cui sottotitolo What’s become of the Common Goodè stato tradotto nella edizione italiana Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti.
Nel contesto della pandemia – scrive Sandel – abbiamo ispirato i nostri comportamenti ad un misto di solidarietà e distacco. Una sorta di paradosso morale. Dietro il ci siamo dentro tutti insieme della pandemia, si nascondeva in effetti una netta differenza tra i vincitori il cui successo giustifica ogni privilegio, ed i perdenti che a loro volta sembrerebbero meritare di essere lasciati dietro. Una miscela tossica di tracotanza e risentimento, che alimenta i populismi.
“È difficile tener separata la misurazione del merito dal vantaggio economico. ”Ma forse, al di là della difficoltà a realizzarla, la meritocrazia costituisce un problema per il principio stesso sul quale si fonda“. Questa retorica delle opportunità è riassunta nella massima secondo cui coloro che lavorano sodo e giocano rispettando le regole possono salire “fin dove li porterà il loro talento”.
“In una società meritocratica… i vincitori devono credere di essersi guadagnati il successo grazie al proprio talento e al duro lavoro”. La meritocrazia consolida la diseguaglianza. Ma il disaccordo sul merito non riguarda soltanto l’equità, pone anche la questione della ricerca di un bene comune, che vada oltre il selezionare e il lottare.
Sono soprattutto i partiti di centro-sinistra a dover rivedere “il proprio modo tecnocratico e orientato al mercato di approcciarsi al governo”. La retorica dell’ascesa, dell’You can make it if you try, oggi suona falsa. E’ l’etica meritocratica stessa a dover esser messa in discussione. Un’idea di governo deve includere le virtù morali e civiche. Ed invece: se “la nostra versione tecnocratica della meritocrazia spezza il legame tra merito e giudizio morale”, allora “nel campo del governo, postula che merito significhi competenza tecnocratica”.
“La mobilità sociale non può più fare da compensazione alla disuguaglianza”. La tirannia del merito si unisce alla retorica della responsabilità e diventa una regola ingiusta. Ciò contro cui i nuovi poveri protestano è l’umiliazione di non avercela fatta, ancora più che l’ingiustizia di non averlo potuto fare.
“Questa ristretta visione morale nel concepire il merito e il bene pubblico ha indebolito le società democratiche in vari modi”. Un discorso pubblico sul bene comune deve esulare dai criteri di efficienza, economici o meritocratici. Ed il disaccordo morale e ideologico non può essere ricondotto solo al livello di istruzione, al confronto tra chi è intelligente e chi è stupido. La dignità di un qualsiasi lavoro va riconosciuta, l’istruzione e l’apprendimento non possono essere una prerogativa dei privilegiati, il fine della politica non può ridursi a quello del benessere dei consumatori o del generico e spesso iniquo aumento della ricchezza prodotta. C’è un benessere sociale, che dipende dalla coesione e dalla solidarietà. Le virtù civiche sono trasversali. Proprio per evitare che il posto del bene comune venga occupato “da espressioni aspre e autoritarie di identità e di appartenenza”, da “un nazionalismo intollerante e vendicativo”.
Occorre sottrarre il potere decisionale alle élite e ridarlo ai cittadini comuni, ridare spazio alla politica come persuasione oltre che come management, ridefinire nell’umiltà una civica uguaglianza di condizione. Ridare slancio alla democrazia, contro la tecnocrazia.