BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XI • Numero 41 • Marzo 2022
La funzione biologica del dolore
Se si guardano i bambini in un parco giochi, stando alla nostra esperienza, prima o poi uno di loro correrà e cadrà a faccia in giù a terra. Per un momento, è probabile che ci sia silenzio. Quindi il bambino si guarderà intorno, intravedrà il suo genitore e alla fine scoppierà in un pianto assordante. La sequenza del pianto di questo bambino non è casuale: è un segnale. Il genitore alza lo sguardo dal suo libro e si precipita immediatamente a consolarlo con parole e gesti teneri, dolci, affettuosi. Senza usare una parola, il bambino riesce ad attirare l’attenzione di qualcuno che può alleviare il suo dolore.
Al riguardo, possiamo chiederci, nell’ambito delle domande, in apparenza banali, che BIO propone abitualmente, perché esista il dolore. Invero, sembra essere onnipresente nella vita umana, ma la sua funzione biologica sarebbe più curiosa. Il dolore, però, stando a Jonathan Brooks e Irene Tracey, è diverso dalla pura nocicezione,1 cioè il processo di essere in grado di rilevare e allontanarsi da uno stimolo tossico. Il dolore, postulano questi ricercatori della School of Psychological Science dell’University of Bristol, non si registra semplicemente nella nostra consapevolezza come indicatore o segno di cose che dovremmo evitare nel mondo. Esso sarebbe un’esperienza in sé, qualcosa che sentiamo soggettivamente.
Stando alla ricerca della studiosa Mirjam Guesgenis, i nostri sentimenti interni di dolore esistono come parte di un mondo sociale esterno attraverso l’espressione.2 Di fatto, lei segnala che noi umani accettiamo prontamente la nostra capacità di comunicare i nostri sentimenti non verbalmente3 e sappiamo che ci sono risultati utili, come il conforto, nel farlo. Invece, quando si tratta del modo in cui soffrono gli animali non umani, gli studiosi sono stati sorprendentemente riluttanti a considerare che sia qualcosa di più di un semplice sottoprodotto di essere feriti. Considerare lo scopo del dolore come una sorta di segnalazione o comunicazione emotiva tra animali solleva, ragionevolmente, lo spettro dell’antropomorfizzazione.
Eppure ci sono studiosi che sostengono che ci sono molte prove che confermano che l’impulso non umano di mostrare dolore abbia un valore comunicativo profondo e intrinseco, come sostiene la Guesgenis.4 Si prenda ad esempio, il belato piagnucoloso degli agnellini oppure lo squittire dei cuccioli di topo, per fare arrivare le loro madri per pulirli e leccarli.5 O il modo in cui i topi squittiscono e si contorcono per avvicinare un compagno di gabbia smarrito documentato dalla ricerca.6 Quell’attenzione e il comfort ridurrebbero, forse al minimo, quanto sia grave o stressante un infortunio, un fenomeno noto come buffering sociale.7 Gli agnellini sottoposti a una procedura dolorosa con la madre8 o il fratello gemello9 nelle vicinanze sembrano essere meno agitati degli agnelli lasciati da soli; i topi sperimentano qualcosa di simile, come documenterebbe la ricerca degli italiani Laura Gioiosa, Flavia Chiarotti, Enrico Alleva e Giovanni Laviola.10
Non che trasmettere dolore provochi sempre una risposta premurosa. I topi, a volte, scappano, come segnala Virginia Morell,11 dalle immagini di facce di topi addolorati, potenzialmente perché vedere il dolore dei simili sarebbe troppo angosciante per loro. Allo stesso modo, è noto che gli agnelli danno una testata ai loro coetanei addolorati,12 forse per impedire loro di attirare attenzioni indesiderate da parte dei predatori.
Questo sarebbe lo svantaggio di mostrare che si sta soffrendo: i segni che attirano gli amici potrebbero, ugualmente, attirare i nemici. Espressioni di dolore più sottili, come le espressioni facciali, potrebbero essere un modo per aggirare questo enigma. Stando ai ricercatori Stephanie C. J. Keating, Aurelie A. Thomas, Paul A. Flecknell, Matthew C. Leach, le smorfie trasmettono il messaggio a chi è vicino, senza essere immediatamente evidente a un predatore in agguato tra i cespugli. In effetti, molti degli animali che mostrano dolore sul viso, come conigli,13 topi o pecore, sono, effettivamente, animali da preda vulnerabili, come corroborato da Miriam Guesgenis.14
Ma perché gli animali non umani presterebbero attenzione agli altri che soffrono? La ragione più semplice, a parere di Eccleston e Crombez, è che il comportamento così anormalo da comandare una reazione;15 può essere considerato un semplice stimolo che si staglia sullo sfondo della quotidianità. L’altra spiegazione plausibile è che ci sia una certa utilità nel prestare attenzione al dolore di un altro. Proprio come gli animali guardano all’ambiente fisico per informazioni sulla posizione del cibo o sulle minacce, prestare attenzione all’ambiente sociale consente loro di raccogliere informazioni su scenari immediati, passati e futuri.
Ad esempio, se un animale si ferisce cadendo in una buca, altri animali possono imparare a evitare quel pericolo senza caderne loro stessi preda. Deducono un potenziale pericolo16 dall’espressione di disagio dell’altro, come suggeriscono Kavaliers, Colwell, e Choleris. Un certo numero di animali impara, come suggerisce la ricerca, osservando i loro coetanei che soffrono, tra cui scimmie rhesus,17 pesci zebra18, scoiattoli di terra19 e cani della prateria.20 Ad alcuni basta assistere al dolore solo una volta per imparare da esso.
La sofferenza degli animali non umani sarebbe anche essa una forma di comunicazione sociale
Se consideriamo che l’euristica proposta in questa breve argomentazione alla ricerca di nuovi sviluppi teorici e di applicazioni pratiche, abbia una qualche validità, allora possiamo interrogarci perché ci sia, in noi umani, una resistenza a valutare la sofferenza non umana come una forma di comunicazione. In qualche modo, si può argomentare, seguendo la studiosa in materia Abeda Birhane, che, in parte, tale riluttanza sia una sorta di sbornia della convinzione di René Descartes nella divisione tra mente e corpo,21 all’interno della quale agli animali non veniva accordata una mente. Ci sarebbe, anche, da prendere in considerazione il fatto che l’esperienza del mondo degli altri animali sia profondamente diversa dalla nostra. Conosciamo, ad esempio, il significato degli sguardi addolorati del nostro amico. Proprio perché abbiamo sofferto noi stessi e sappiamo che aspetto si ha quando si sta sofferente che possiamo capirlo all’istante. Ma il dolore degli animali ci sarebbe, infatti, più estraneo, di conseguenza è più difficile metterci nei loro panni.
Una terza ragione risiede nella nostra incapacità di cogliere i meccanismi e i possibili stati mentali dietro le risposte non umane. Sappiamo, come sostiene il ricercatore David Mellor dell’Animal Welfare Science and Bioethics Centre della Massey University in New Zealand, che alcune specie sono guidate dalla motivazione22 e che questo ha a che fare con la memoria sensoriale,23 emotiva e le aree di apprendimento del cervello, come puntualizzava il ricercatore in neuroscienze e psicobiologia Jaak Panksepp. In ogni modo, allo stato attuale della ricerca, stando a Mirjam Guesgenis, non ci è chiaro fino a che punto gli animali stiano valutando, attentamente, una situazione e prendendo decisioni.
Il comportamento del dolore è stato a lungo spiegato in termini evolutivi o adattativi come un modo per un animale di scappare, guarire e, quindi, sopravvivere. L’esperienza sgradevole ed emotiva funger, come ha postulato al suo tempo Patrick Bateson, da allarme,24 segnalando alla creatura di interrompere ciò che sta facendo e di allontanarsi dalla situazione, come suggeriscono oggi i ricercatori Chris Eccleston e Geert Crombez.25 Comportamenti particolari, come leccare o strofinare, possono ridurre le sensazioni sgradevoli interferendo26, come postula il professore in neurofarmacologia A. H. Dickenson, con i segnali di dolore inviati al cervello, tanto da permettere all’animale di fuggire. Una volta al sicuro, sdraiarsi o proteggere l’area lesa potrebbe prevenire ulteriori danni o evitare di distruggere il tessuto appena restaurato, stando all’analisi di Loeser e Melzack.27 Se un animale impara ad associare quell’esperienza negativa con un particolare luogo, evento o stimolo, allora sentirsi ferito può aiutarlo a evitare situazioni pericolose in futuro, come hanno proposto i ricercatori Loeser e Melzack della genetica e neurobiologia dell’Universität Würzburg, in Germania.28
Se il dolore si è evoluto per essere comunicativo, ti aspetteresti che gli animali sociali mostrino più dolore di quelli solitari, perché hanno qualcuno con cui comunicare. Potresti anche aspettarti che la selezione naturale favorisca un comportamento onesto, piuttosto che manipolativo, poiché mostrare dolore rischia di rivelarti debole ai predatori.
Le considerazioni riportate in questo breve sunto sono idee che devono essere sottoposte a ulteriori verifiche sperimentali. Si può certamente asserire che nessuna delle potenziali spiegazioni adattive per il comportamento del dolore si escluda a vicenda; è, semplicemente, che gli studiosi della materia, probabilmente, non hanno considerato adeguatamente la teoria della comunicazione. Prendere sul serio il dolore come una sorta di segnale sociale significa, davvero, sbarazzarsi del vecchio pensiero cartesiano e considerare gli animali più che piccole scatole nere, che rispondono agli input nei loro circuiti biologici. Infine, come ogni argomentazione decostruzionista di BIO Educational Papers, anche l’intenzione di questa, riguardante le manifestazioni del dolore negli animali non umani, è quella di suscitare alcune intuizioni relative al divario tra la complessità fenomenica della biologia e le semplificazioni in materia, volute dal bio-potere a sostegno di una bio-politica ancora, a dir poco, disumanamente cartesiana.
______________Note _________________
1 Jonathan Brooks and Irene Tracey. From nociception to pain perception: imaging the spinal and supraspinal pathways. Journal of Anatomy. 207(1): 19–33, Jul. 2005
2 Mirjam Guesgenis. Animal pain is about communication, not just feeling. In AEON, 15 June 2018
3 Jessica Tracy, Daniel Randles, Conor M Steckler. The nonverbal communication of emotion, In “Current Opinion in Bahavioral Sciences. June 2015
4 Miriam Guesgenis. Op. cit. 15 June 2021
5 Claire-Dominique Walker, Kristin Kundreikis, Adam Sherrard and Celeste C. Johnston. Repeated neonatal pain influences maternal behavior, but not stress responsiveness in rat offspring. In “Developmental Brain Research”, Vol. 140, Issue 2, pages 253-261, 16 February 2003
6 Dale J. Langford, Alexander H. Tuttle, Kara Brown, Sonya Deschenes, David B. Fischer, Amelia Mutso, Kathleen C. Root, Susana G. Sotocinal, Matthew A. Stern, Jeffrey S. Mogil & Wendy F. Sternberg. Social approach to pain in laboratory mice. In “Social Neuroscience”, Vol. 5, Issue 2, pages 163-170, 2010
7 Il buffering sociale sarebbe il fenomeno per cui la presenza di un individuo familiare riduce o addirittura elimina le risposte indotte da stress e paura, esisterebbe in diverse specie animali e sarebbe stato esaminato nel contesto della relazione madre-neonato oltre che negli adulti. Sebbene sia un effetto ben noto, i meccanismi biologici che ne sono alla base, così come il suo impatto sullo sviluppo, non sono ben compresi. Questi ricercatori forniscono una revisione delle prove del buffering sociale e materno della reattività allo stress nei primati non umani e alcuni dati suggeriscono che quando la relazione madre-bambino viene interrotta, il buffering materno sarebbero compromesso. Questa evidenza sottolinea il ruolo fondamentale che l’assistenza materna gioca per un’adeguata regolazione e sviluppo delle risposte emotive e allo stress dei primati. Le interruzioni del legame genitore-bambino costituiscono esperienze avverse precoci associate a un aumentato rischio di psicopatologia. Il maltrattamento infantile sarebbe un’esperienza devastante non solo per gli umani, ma anche per i primati non umani. Sfruttando questo modello animale naturalistico di caregiving materno avverso, i ricercatori cercano di dimostrare che un’assistenza materna competente sia fondamentale per lo sviluppo di attaccamento sano, comportamento sociale e regolazione emotiva e dello stress, nonché dei circuiti neurali alla base di queste funzioni.
8 https://appliedanimalbehaviour.com/article/S0168-1591(11)00120-1/fulltext
9 http://appliedanimalbehaviour.com/article/S0168-1591(14)00205-6/abstract
10 Laura Gioiosa, Flavia Chiarotti, Enrico Alleva, Giovanni Laviola. A trouble shared is a trouble halved: social context and status affect pain in mouse dyads. In PLOSE ONE, January 8, 2009
11 Virginia Morell. Rats see the pain in other rat’s faces. Findings is first to show rats read emotions. In Science”, 31 Mar 2015
12 Guesgen, Mirjam Johanna. The social function of pain-related behaviour and novel techniques for the assessment of pain in lambs: a thesis presented in partial fulfilment of the requirements for the degree of Doctor of Philosophy in Zoology at Massey University, Turitea campus, Manawatu, New Zealand, 2015
13 Stephanie C. J. Keating, Aurelie A. Thomas, Paul A. Flecknell, Matthew C. Leach. Evaluation of EMLA Cream for Preventing Pain during Tattooing of Rabbits: Changes in Physiological, Behavioural and Facial Expression Responses. PLOs One September 7, 2012
14 M.J. Guesgenis, N.J.Beausoleil M.Leach E.O.Minot M.Stewart K.J.Stafford Coding and quantification of a facial expression for pain in lambs. Behavioural Processes, Volume 132, Nov 2016
15 Eccleston C, Crombez G. Pain demands attention: a cognitive-affective model of the interruptive function of pain. Psychological Bulletin. 125(3):356-66, May 1999
16 Kavaliers, M., Colwell, D.D. & Choleris, E. Kinship, familiarity and social status modulate social learning about “micropredators” (biting flies) in deer mice. In “Behaviral Ecologu and Sociobiology”, 58, 60–71, 2005
17 Damon, Fabrice, Li, Zhihan, Yan, Yin, Li, Wu , Guo, Kun, Quinn, Paul C., Pascalis, Olivier, & Méary, David. Preference for attractive faces is species-specific. Journal of Comparative Psychology, Vol 133(2), May 2019, 262-271
18 Charlotte M. Lindeyer, Simon M. Reader. Social learning of escape routes in zebrafish and the stability of behavioural traditions. In “Animal Behaviour”, Vol. 79, Issue 4, pages 827-834, April 2010
19 JILL M. MATEO and WARREN GHOLMES. Development of alarm-call responses in Belding’s ground squirrels: the role of dams. In “Animal Behaviour”, Vol. 54, Issue 3, pages 509-524, September 1997
20 D.M.Shier, D.H.Owings. Effects of social learning on predator training and postrelease survival in juvenile black-tailed prairie dogs, Cynomys ludovicianus. In “Animal Behaviour”, Vol. 73, Issue 4, pages. 567-577, April 2007
21 Abeba Birhane. Descartes was wrong: ‘a person is a person through other persons’. In “AEON, 7 April 2021
22 David J. Mellor. Updating Animal Welfare Thinking: Moving beyond the “Five Freedoms” towards “A Life Worth Living”. In “Animals”, 6 (3), 21, 14 March 2016
23 Jaak Paksepp. Toward a cross-species neuroscientific understanding of the affective mind: do animals have emotional feelings? American Journal of Primatology. Vol. 73, Issue 6, pages 545-561, June 2021
24 Patrick Bateson. Assessment of pain in animals. In “Animal Behaviour”, Vol. 42, Issue 5, pages 827-839, November 1991
25 Chris Eccleston and Geert Crombez. Pain demands attention: A cognitive-affective model of the interruptive function of pain. In “Psychological Bulletin”, 125 (3): 356-66, June 1999
26 A. H. Dickenson, Editorial I: Gate Control Theory of pain stands the test of time, BJA: British Journal of Anaesthesia, Volume 88, Issue 6, Pages 755–757, 1 June 2002,
27 John D Loeser and Ronald Melzack. Pain: an overview. In “The Lancet”, Vol. 353, Issue 9164, pages 1607-1609, 8 May 1999
28 AyseYarali, Thomas Niewalda, Yi-chun Chen, Hiromu Tanimoto, Stefan Duerrnagel, Bertram Gerber. “Pain relief” learning in fruit flies. In Animal Behaviour”, Vol. 76, Issue 4, pages 1173-1185, October 2008