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21 Dicembre, 2024

Il genoma punto di partenza di una performance

Il genoma sarebbe il punto di partenza di una performance che mettiamo in scena nel corso di una vita, non il blueprint che dobbiamo seguire. Artisti delle nostre vite! Le controverse proposizioni di Richard O. Prum

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XIII • Numero 52 • Dicembre 2024

 

L’idea che il gender sia una performance

Nella sua ispirata e discussa opera del 2023, Performance All the Way Down: Genes, Development, and Sexual Difference , l’ornitologo e biologo evoluzionista Richard O Prum1, sostiene l’idea che il gender2 sia una performance, rinforzando con questo sua tesi l’idea che gli individui non siano essenzialmente maschi o femmine. Questo concetto, decisamente trasformativo, che risale alla teoria femminista queer3 dagli anni novanta, avrebbe innescato rivalutazioni delle aspettative sociali e dibattiti non solo sul gender, ma anche sul sesso stesso, portando nelle aule universitarie e nella cultura popolare il dibattito riguardo cosa sia il sesso, cosa significherebbe e come possiamo, effettivamente, conoscerlo. Questa riflessione si rende ancora più opportuna perché la maggior parte della cosiddetta ricerca scientifica e biomedica degli ultimi settant’anni ha assunto e rafforzato un concetto binario di sesso biologico, sebbene alcuni studiosi, fuori dalla stessa cultura queer, sottolineino che maschio e femmina siano solo due risultati in un mondo ricco di diversità sessuale.

Con le sue trasformative argomentazioni, sostenute dall’euristica post-genomica, in Performance All the Way Down, Richard O. Prum porta il pensiero femminista in dialogo con la biologia, sostenendo che il binario sessuale non sia essenziale per i geni, i cromosomi o gli embrioni umani. Da questo punto di vista, si desumerebbe che i nostri genomi non sarebbero blueprint o progetti, algoritmi o ricette per la rappresentazione fisica delle nostre presunte essenze sessuali o destini individuali. Sotto quest’aspetto, Prum riferisce che quando si osserva la scienza, attentamente e senza incollarsi ai preconcetti, ci si accorge che l’espressione genica è un’azione materiale nel mondo, una performance attraverso la quale l’individuo regola e realizza il proprio divenire. In particolare, stando a quanto espone Prum, uno zigote fecondato matura in un organismo con tessuti e organi, controllo neurologico, difese immunitarie, meccanismi psicologici e comportamento sessuale e di gender attraverso un continuum performativo.

Questa complessa gerarchia di auto-attuazione riflette, stando all’euristica post-genomica utilizzata da Prum, l’auto-determinazione evolutiva di singoli geni, molecole, cellule e tessuti. Rifiutando la nozione di una divisione intrattabile tra discipline umanistiche e scienze, Prum invita a riconoscere che i contributi dei teorici queer e di alcune teorie femministe possono aiutare gli studiosi a comprendere il corpo umano in modi nuovi, fornendo intuizioni chiave su genetica, biologia dello sviluppo e fisiologia. Performance All the Way Down, insieme ad un’altra straordinaria opera di Prum, guiderà questa breve argomentazione circa la genetica, il gender e l’identità biologica, discussione che vuole essere un umile contributo divulgativo al manifesto di Philip Ball sullo stato dell’arte del racconto della biologia genetica molecolare, del quale ci siamo occupati in BIO 51

 

L’arbitrio femminile e il senso del bello con trapposti alla legge della lotta e al dominio del più forte

L’altra guida, in questa disertazione che cerca di introdurci all’idea che il genoma sarebbe il punto di partenza per una performance che mettiamo in scena nel corso della nostra vita anziché un modello che dobbiamo seguire, sarà un’altra opera di Richard Prum, The Evolution of Beauty. How Darwin’s Forgotten Theory of Mate Choice Shapes the Animal Worldand Us (2017)4.

Secondo la visione comunemente accettata della selezione naturale, perché un carattere si evolva è necessario che sia adattativo, che aumenti cioè la probabilità di sopravvivenza dell’individuo. Con uno scarto audace rispetto all’ortodossia dominante, Richard Prum ipotizza invece che alcuni tratti, soprattutto quelli coinvolti nel corteggiamento, siano frutto di scelte arbitrarie. In particolare, una specie manifesterebbe una preferenza per un certo carattere stimato bello e in base a quella preferenza uno dei due sessi, in genere quello femminile, effettuerebbe la scelta del partner. La prole della coppia erediterebbe così non solo il carattere ritenuto attraente, ma anche la preferenza. In effetti, nell’”Origine dell’uomo” Darwin aveva già delineato una visione puramente estetica della selezione sessuale ma i tempi non erano maturi. Per i suoi colleghi dell’epoca vittoriana l’idea che le preferenze femminili (l’immorale capriccio femminile, come veniva allora chiamato) potessero rappresentare una pressione selettiva determinante era inconcepibile all’epoca. Centocinquanta anni dopo, con indiscutibile autorevolezza, Prum conferisce nuova vita alla teoria rivoluzionaria di Darwin, ma si spinge oltre: spaziando tra biologia evolutiva, filosofia e sociologia, riscrive la teoria dell’evoluzione (che si tratti dell’evoluzione delle penne del pavone o di quella dell’orgasmo femminile), riscatta il ruolo della bellezza e del desiderio, e ci offre una nuova, affascinante storia naturale incentrata sull’arbitrio femminile e il senso del bello contrapposti alla legge della lotta e al dominio del più forte.

 

Il codice genetico non sarebbe un codice, il DNA non sarebbe un linguaggio e il genoma non sarebbe un sistema informativo

In Who Wrote the Book of Life? (2000) la storica della scienza Lily Kay ha documentato come le metafore linguistiche in genetica si siano trasformate, durante la metà del XX secolo, da analogie descrittive in ontologie scientifiche, concetti o presupposti su cosa fossero realmente i geni e cosa facessero. Queste ontologie sono state trasformate da noi umani da metafore in concetti specifici e hanno, effettivamente, guidato la ricerca scientifica stessa.

Who Wrote the Book of Life? costituisce una storia dettagliata di uno degli episodi più importanti e grandiosi della cosiddetta scienza moderna, cioè la storia del presunto codice genetico (1953-70) raccontata dal nuovo punto di vista dell’alba dell’era dell’informazione e del suo impatto sulle rappresentazioni della natura, dell’ereditarietà e della società nel suo insieme. Basandosi su archivi, fonti pubblicate e interviste, Lily Kay riuscì a collocare il lavoro sul codice genetico, svoltosi tra il 1953 e il 1970 circa, all’interno della storia delle scienze della vita, dell’ascesa delle tecnoscienze della comunicazione (cibernetica, teoria dell’informazione e computer), dell’intersezione della biologia molecolare con la crittoanalisi e la linguistica e della storia sociale dell’Europa e degli Stati Uniti del dopoguerra.

Kay riuscì ad evidenziare la specificità storica nel processo mediante il quale il problema biologico centrale della sintesi proteica basata sul DNA era arrivato ad essere rappresentato, metaforicamente, come un codice informativo e una tecnologia di scrittura e, di conseguenza, come un libro della vita. Questa scrittura e lettura molecolare, puntualizza Kay, fa parte della produzione culturale dell’era nucleare, il cui potere sarebbe amplificato dalla risonanza teistica secolare della metafora del libro della vita. Tuttavia, come ha sottolineato la stessa Kay, queste sono solo metafore: analogie, non ontologie. Per quanto utili siano state, tali metafore, ha sottolineato Kay, avevano i loro limiti epistemologici. Utilizzando analisi del linguaggio, della crittologia e della teoria dell’informazione, Lily Kay riuscì a sostenere, in modo convincente, che, tecnicamente parlando, il codice genetico non sarebbe un codice, il DNA non sarebbe un linguaggio e il genoma non sarebbe un sistema informativo, obiezioni che erano state sollevate dagli studiosi in materia già negli anni ’50.

Pertanto, la sua ricostruzione storica e le sue analisi servono anche come critica dell’ormai antiquato biopotere genomico. La testualità genomica era diventata un fatto della vita, una metafora letteralizzata, sosteneva Kay, poiché i progetti sul genoma umano promettevano nuovi livelli di controllo sulla vita attraverso il meta-livello dell’informazione, vale a dire il controllo della parola (le sequenze di DNA) e la sua modifica e riscrittura. Ma Lily Kay ci mostrò come i limiti umilianti di queste metafore scritturali rappresentino anche una sfida alla padronanza testuale e materiale del presunto libro genomico della vita.

 

Artisti delle nostre vite

In un articolo popolare su Scientific American del 1955, all’alba dell’era della genetica molecolare, il fisico George Gamow scrisse: “Paragonando una cellula vivente a una fabbrica, possiamo considerare il suo nucleo come l’ufficio del manager e i cromosomi come gli schedari in cui sono archiviati tutti i piani di produzione e i modelli”. Nel maggio 2023, quando Eric Green, direttore del National Human Genome Research Institute degli Stati Uniti, annunciò il Pan Genoma Umano, appena rilasciato, come una raccolta di genomi che rappresenta lo spettro della diversità umana in aggregato, Gamow lo descrisse, indubitabilmente, come fornitore di una visione in espansione del modello del DNA dell’umanità.

Quasi 30 anni dopo, però, come espone Richard Prum, nel suo saggio di gennaio di questo 2024, Artists of our own lives, il modello genetico è solo un esempio del ricco vocabolario linguistico del genoma. Tuttavia, la visione ortodossa in materia ancora propone che la produzione di proteine ​​dal DNA, chiamata espressione genica, comporterebbe la trascrizione del codice del DNA in RNA messaggero, seguita dalla sua traduzione nella sequenza di amminoacidi che creano una molecola proteica. Questa vecchia idea di progetto predefinito, puntualizza Prum, implicava, per di più, che i geni codificassero la forma e la funzione generale del corpo e che le differenze evolutive da questi piani codificati fossero perturbazioni o errori attorno a un progetto precedente o a un’intenzione evoluta. Chiaramente, ci segnala Prum, l’idea del blueprint o progetto genetico rafforzava l’idea che le risposte a tutte le domande biologiche interessanti risiedessero nei nostri geni e che altre linee di ricerca fossero indirette o banali.

Da quando Gamow coniò l’idea del modello genetico, tuttavia, gli studiosi della materia hanno imparato una quantità sbalorditiva di informazioni non date alle stampe sulla regolazione evolutiva e fisiologica dell’espressione genica. Nel 1980, ad esempio, Christiane Nüsslein-Volhard ed Eric Wieschaus individuarono diverse classi di geni completamente nuove nei moscerini della frutta Drosophila che in seguito si scoprì che regolavano lo sviluppo in tutti i corpi animali multicellulari, dagli umani ai granchi ferro di cavallo. La loro individuazione diede inizio a una nuova era di ricerca esplosiva nella biologia molecolare dello sviluppo e vinsero il premio Nobel per la fisiologia o la medicina. Ora sappiamo, come opportunamente puntualizza Richard Prum, che lo sviluppo embrionale degli organi complessi e le caratteristiche anatomiche dei corpi animali implicano conversazioni molecolari dettagliate tra cellule e tessuti attraverso le quali cellule e gruppi di cellule stabiliscono le loro identità, raggiungono le loro complesse morfologie e organizzano le loro relazioni spaziali e fisiologiche. Sebbene le cellule attingano a risorse genomiche in questo processo, sono le molecole, le cellule, i tessuti e gli organi del corpo gli agenti attivi nel loro sviluppo materiale, come ci riporta Prum nel suo ultimo saggio.

Sotto questo aspetto, risulta impossibile sottovalutare, come ci segnala Prum, quanto siano state rivoluzionarie e inaspettate le scoperte di Nüsslein-Volhard e Wieschaus. Sui percorsi di segnalazione molecolare intercellulare e sull’ampia omologia dei geni regolatori dello sviluppo, in tutti i phyla degli animali multicellulari, era stato previsto dagli otto decenni precedenti di ricerca genetica ed evolutiva. Fino alla scoperta di questi geni e della loro funzione, nessuno sapeva che gli stessi modelli evolutivi e segnali molecolari erano stati riutilizzati nello sviluppo di così tanti tipi di cellule e parti del corpo diversi in così tante specie.

L’idea del modello o blueprint genetico e la sua sottostante definizione cibernetica di comunicazione, come fedele scambio di informazioni, hanno impedito ai ricercatori di vedere il corpo per quello che è realmente: non il prodotto di un algoritmo, ma un divenire sociale complesso e molecolarmente in rete. È tempo, come riferito nel precedente numero di BIO, seguendo la narrazione di Philip Ball sullo stato dell’arte del racconto della biologia, di sostituire l’idea del modello o blueprint genetico alla luce della biologia evolutiva contemporanea. Al riguardo, Richard Prum si interroga su quale concetto alternativo potrebbe comunicare la complessità necessaria e promuovere una ricerca scientifica produttiva. Dal suo punto di vista, una soluzione sorprendentemente produttiva non proviene dalla cibernetica, dall’informatica o dalla teoria degli algoritmi, ma dalle discipline umanistiche, della filosofia del linguaggio e della teoria femminista queer.

Secondo l’idea del blueprint o progetto, il corpo è stato la realizzazione materiale di un progetto anatomico e fisiologico preesistente, codificato a livello molecolare. In questa prospettiva, l’espressione genica costituiva ciò che il filosofo del linguaggio del XX secolo J L Austin chiamava un atto linguistico rappresentazionale (o constativo), vale a dire un’espressione che descriveva, o si riferiva, a qualcosa nel mondo, come la frase “Il cappello di mia madre è sul tavolo”. Al contrario, Austin riconosceva anche gli atti linguistici performativi o affermazioni che eseguono azioni nel mondo, come il voto di matrimonio “Lo voglio” o la sfida “Scommetto cento euro che il Napoli vincerà stasera”. A questo proposito, Prum ci ricorda che la differenza tra discorso rappresentativo e performativo è più della differenza tra sostantivi e verbi. I verbi possono riferirsi o descrivere azioni, ma il discorso performativo è azione, azione nel mondo sociale.

Negli anni ’60 e ’70, l’idea di Austin, secondo cui il linguaggio poteva descrivere e agire nel mondo, ebbe un profondo impatto sulla letteratura comparata, sulla critica letteraria e sulle discipline umanistiche, giocando un ruolo chiave nella filosofia e nell’analisi letteraria. Inaspettatamente, lo stesso concetto, suggerisce Prum, ha avuto il potere di alimentare oggi una rivoluzione metaforica nella genetica molecolare, nella biologia dello sviluppo e nella biologia evoluzionistica.

Anche una considerazione casuale renderebbe chiaro che l’espressione genica non creerebbe una rappresentazione materiale di un progetto o blueprint. Al riguardo Prum specifica che l’espressione genica costituisce piuttosto un’azione, un’azione materiale da parte della cellula. L’espressione genica crea conseguenze materiali. Gli enzimi catalizzano le reazioni molecolari. Gli ormoni circolano, sistemicamente, nel flusso sanguigno e si legano a recettori co-evoluti, espressi solo da alcune cellule. Le molecole di segnalazione paracrine si diffondono da una cellula all’altra e allo stesso modo si legano ai recettori co-evoluti sulle membrane di altre cellule vicine. Dopo il legame, i segnali endocrini e paracrini possono avviare cascate di cambiamenti regolatori genetici all’interno di quelle cellule. I fattori di trascrizione si legano o meno ai siti promotori o potenziatori co-evoluti sul DNA, portando alla sovra-regolazione o alla soppressione dell’espressione dei geni a valle, puntualizza Richard Prum.

In breve, seguendo il ragionamento di Prum in Performance All the Way Down: Genes, Development, and Sexual Difference l’espressione genica sarebbe performativa, non referenziale. Dunque, il corpo non sarebbe la rappresentazione di un progetto genetico o di un algoritmo. Piuttosto, l’individuo biologico usa il suo genoma nella creazione di sé stesso, del suo corpo materiale. E poiché le azioni di tutti questi geni dipendono da molti altri partecipanti molecolari e cellulari a monte e a valle, i geni non sono, e non possono essere, le cause vere e proprie del corpo materiale e delle sue variazioni. In un’eco di Immanuel Kant, l’organismo costituirebbe la causa del proprio sviluppo e della propria omeostasi.

Nell’interpretazione di Prum, da nessuna parte le conseguenze della performatività di Austin sono state indagate in modo più elaborato e applicate con forza radicale come nella disciplina femminista della teoria queer, un campo della filosofia e della critica letteraria che esplora la natura e le conseguenze delle differenze individuali di genere, sesso e identità di gender. In questo campo diversificato, la teoria queer della performatività del gender avrebbe, effettivamente, una rilevanza specifica e produttiva per la genetica, così come per la biologia dello sviluppo e dell’evoluzione.

 

La teoria queer della performatività del gender

Negli anni ’80, la filosofa femminista Judith Butler sosteneva che il gender non è sinonimo di sesso biologico, né un costrutto puramente sociale, ma un’azione sociale performativa da parte degli individui all’interno dei loro ambienti sociali. Di conseguenza, il gender sarebbe un insieme ripetuto di azioni sociali e un’espressione individualizzata attraverso il fare, un atto di auto-diventare. Nelle parole di Butler, la performatività di gender porta il doppio significato di teatrale e non referenziale.

In Bodies That Matter (1993) 5, opera in cui la nota filosofa Judith Butler6, sostiene che le teorie del gender devono tornare alla dimensione più materiale del sesso e della sessualità, vale a dire il corpo, la Butler ha anche avanzato la sua tesi che propone che la performatività è quel potere reiterativo del discorso7 di produrre i fenomeni che regola e limita. Nonostante sia un’affermazione sulla performatività di gender, sarebbe difficile, osserva Prum, trovare una descrizione più concisa e accurata dei meccanismi dell’azione genetica nello sviluppo corporeo.

Nei termini dei meccanismi dell’azione genetica nello sviluppo corporeo, l’esempio di Butler risulta divertente ed emblematico quando ci invita a dare un’occhiata alle nostre mani. La loro forma, le loro parti, le loro strutture, gerarchicamente interconnesse e le loro complesse modalità di funzionamento, riflettono tutte la propria storia individuale come animale vertebrato, mammifero, primate, scimmia, essere umano e figli dei nostri genitori. Le nostre mani incarnano anche aspetti specifici della nostra esperienza vissuta in un ambiente, forse come lavoratore manuale (calli), impiegato (intorpidimento del tunnel carpale), giardiniere del fine settimana (graffi di spine di rosa e terra sotto le unghie) o ricerca di un’estetica di genere specifica (unghie curate e smaltate). Le nostre mani potrebbero assomigliare a quelle dei nostri genitori in modi specifici, ma non abbiamo ereditato le nostre mani dalle mani dei nostri genitori. Piuttosto, come il gender di un individuo, ogni paio di mani è una realizzazione iterativa di questa complessa morfologia. In breve, i nostri corpi, nella prospettiva inaugurata da Christiane Nüsslein-Volhard e Erich F. Wieschaus vengono interpretati come iterazioni materiali. A questa prospettiva si è arrivati grazie alla rivoluzione scientifica avviata da Christiane Nüsslein-Volhard e Erich F. Wieschaus. In effetti, grazie al loro lavoro oggi intendiamo che i nostri corpi complessi si sviluppano attraverso lo scambio e la gestione di segnali intercellulari, in un elaborato discorso molecolare intercellulare.

Ma tornando all’asserzione di Butler in Bodies That Matter, nella quale afferma che la performatività è quel potere reiterativo del discorso di produrre i fenomeni che regola e limita, molti potrebbero chiedersi perché Lei parla del discorso. Infatti, nelle discipline umanistiche, il termine discorso descrive il modo in cui le modalità di comunicazione strutturata creano e limitano ciò che è possibile comunicare; quali tipi di comunicazioni avrebbero valore, significato o conseguenza; chi sarebbe autorizzato ad essere ritenuto un legittimo parlante o ricevente; come tali limitazioni contribuiscono a identità e confini.

Sotto quest’aspetto, Prum segnala che il concetto umanistico di discorso cattura il fatto che la segnalazione molecolare tra le cellule del corpo è altamente strutturata. La maggior parte delle cellule sono sia produttrici che ricevitrici di segnali chimici. Nell’interpretazione di Prum, le cellule sono, effettivamente, in grado di prestare attenzione a segnali specifici, o meno, a seconda delle proteine ​​recettrici che esprimono. Il processo di sviluppo da uno stato generalizzato di possibilità aperte, come una cellula epidermica embrionale, a uno stato di sviluppo specifico, come un capello, una ghiandola sudoripara o una cellula ungueale, implica l’individuazione di discorsi tra gruppi di cellule che interagiscono socialmente.

Un esempio tratto dalla vita quotidiana ci consente di immaginare questo processo di interazione in un modo semplice. Pensiamo a cosa succede quando un’adolescente si prepara per il weekend che la attende. Diciamo che mercoledì sera riceve un messaggio da un’amica con una proposta di andare a vedere un nuovo film il venerdì sera. Fantastico, potrebbe essere la risposta. Presto, altri amici vengono reclutati tramite altri messaggi per lo stesso progetto collaborativo o di destino evolutivo. Entro giovedì sera, tuttavia, dopo che il gruppo è cresciuto di dimensioni e si sono verificate altre interazioni durante la giornata scolastica, escono altri messaggi che esprimono problemi o alternative, tipo quel film fa schifo, quella tale non la sopporto e via dicendo. Oppure accade che i genitori di qualcuna saranno fuori città, quindi si sparge l’idea di organizzare una festa. Entro venerdì mattina, il gruppo sociale si è scisso, sono state immaginate diverse possibilità alternative, sono stati reclutati nuovi individui e ogni individuo deve decidere di intraprendere un’attività specifica, che esclude le altre. Parallelamente, i messaggi di gruppo si sono anche incanalati in discussioni separate con meno o nessun individuo sovrapposto. A scuola, venerdì pomeriggio, il preside fa un annuncio e ammonisce tutti gli studenti ad aver un miglior comportamento durante il weekend ed invia un’e-mail identica a tutti gli studenti. Quando arriva il venerdì sera, tutti i genitori di tutte le famiglie stanno inevitabilmente cercando di capire dove diavolo siano i loro figli.

I messaggi di testo tra adolescenti funzionerebbero come quei segnali cellula-cellula (o paracrini). Gli annunci e le e-mail del preside agiscono come ormoni ampiamente trasmessi (o segnali endocrini). L’efficacia di entrambi nell’influenzare il comportamento di un adolescente specifico dipende da un equilibrio tra tutti i messaggi in arrivo, le loro relazioni con altri segnalatori e se qualcuno sta ascoltando. Ogni adolescente porta la propria reattività individuale a queste interazioni, ma nessuno è completamente libero dall’influenza sociale e le decisioni vengono prese in comune con molti altri in associazioni o cricche con idee simili. In sintesi, sostiene Richard Prum, i discorsi molecolari, altamente strutturati, portano allo sviluppo di identità cellulari con morfologie distinte, confini anatomici e funzioni fisiologiche. Sotto quest’aspetto Prum segnala che l’ammissione e l’esclusione di determinati segnali dipendenti dal contesto consentono a gruppi di cellule di co-organizzarsi in tessuti e organi del corpo coerenti, anatomicamente annidati e funzionalmente integrati. Di conseguenza, ciò le permette di enunciare che essere un neurone specifico, una cellula muscolare o una cellula epatica è sempre preceduto dall’istituzione discorsiva di un’identità cellulare nella collaborazione sociale con altre cellule.

È tempo di abbandonare il progetto genomico e abbracciare il nostro corpo performativo

In questa nuova descrizione dell’espressione genica di Richard Prum, che si potrebbe sintetizzare con il suo Performance All the Way Down, naturalmente, le cellule intraprendono azioni materiali attraverso la loro espressione genica, morfologia e funzioni. Diventare un tipo specifico di cellula significa, in questa prospettiva teorica, esprimere determinate proteine ​​strutturali, mattoni e malta, se vogliamo, di quel tipo di cellula. Ma la maggior parte dei geni coinvolti nello sviluppo sarebbero in realtà coinvolti nella regolazione dei discorsi intercellulari e intracellulari che contribuiscono alla decisione di diventare un tipo di cellula specifico e di esprimere le proteine ​​strutturali appropriate. Quindi, l’obiettivo primario dei discorsi molecolari durante lo sviluppo sarebbe quello di regolare e limitare il processo stesso. In definitiva, l’espressione è performativa, in base al dialogo e alle necessità, e non tramite codice o algoritmo.

Di conseguenza, stando a Richard Prum, è tempo di abbandonare il progetto genomico e abbracciare il corpo performativo, i nostri corpi performativi. L’espressione genica sarebbe, seguendo quest’euristica, azione all’interno del milieu sociale diversificato e anatomicamente strutturato dei trilioni di cellule del corpo umano. Forse, una delle conclusioni più radicali che si desumono da quest’euristica è Il genoma non è la causa del corpo, ma un insieme di risorse lessicali, derivate storicamente, da utilizzare da parte delle cellule e dei tessuti del corpo nella loro realizzazione discorsiva del sé. In breve, siamo performance fino in fondo.

Con il suo accattivante e intellettuale sapore, il termine performativo è recentemente passato dall’oscurità della teoria queer al gergo contemporaneo e alla critica anti-woke. Ma le connotazioni popolari del termine nel senso di falso, inautentico, superficiale o solo per spettacolo non comunicano il suo significato originale di espressione non rappresentativa come azione sociale. In effetti, poiché siamo performance fino in fondo, non c’è nient’altro che siamo veramente. Quindi, la performatività non implica inautenticità; implica individualità messa in atto in un ambiente attraverso il discorso sociale.

In Bodies That Matter, Judith Butler sostiene che le teorie di gender devono tornare alla dimensione più materiale del sesso e della sessualità: il corpo. Butler offre una brillante rielaborazione del corpo, esaminando come il potere dell’egemonia eterosessuale formi la materia dei corpi, del sesso e del gender. Butler sostiene che il potere opera per limitare il sesso fin dall’inizio, delimitando ciò che conta come sesso praticabile. Inoltre, ci invita ad affrontare la questione della politica citazionale, dalla quale, in qualità di curatore di queste argomentazioni di BIO, non posso sottrarmi. In effetti, la politica citazionale è costituita dalle regole, dalle pratiche, dalle convinzioni e dai principi con cui determiniamo il modo in cui mappiamo, pubblicamente, la genealogia dei nostri pensieri e della nostra ispirazione. A dire il vero, sono molto più di semplici menzioni perché determinano il modo in cui le nostre discipline valutano il nostro lavoro e ci valutano come studiosi.

Nel nostro paradigma di pensiero attributivo o causale possiamo accogliere la domanda riguardo a chi è il soggetto di questa performance continua? Butler ha scritto che la performatività implica l’agenzia, vale a dire la capacità di reattività dell’auto-determinazione e della soggettività. Allo stesso modo, la performatività del corpo significa che gli ormoni, le molecole di segnalazione cellula-cellula e i loro recettori, i fattori di trascrizione e i loro siti di legame, le cellule, i centri di segnalazione, i tessuti e le ghiandole avrebbero tutti una reattività auto-determinante [agenzia] evoluta, ovvero una capacità di azione che è subordinata alla precedente storia di selezione delle loro funzioni. A tale proposito Butler segnala, in particolare, che un ormone non può indurre nessuna cellula a fare nulla. Per essere ricettiva a qualsiasi segnale ormonale, una cellula deve prima esprimere il corrispondente recettore co-evoluto per quell’ormone. Quindi, nel pensiero di Butler, le cellule avrebbero l’agenzia [reattività autodeterminante] di sviluppo per sintonizzarsi o escludere i segnali molecolari prodotti da altre cellule e ghiandole all’interno del corpo. La partecipazione attiva e ambientalmente contingente di centinaia di tipi di cellule allo sviluppo e alla fisiologia del corpo costituirebbe la prova della loro agenzia [reattività autodeterminante] evoluta, e non di un progetto codificato nei loro genomi condivisi.

Stando a Richard Prum, questo discorso circa l’agenzia o capacità soggettiva di reagire a livello molecolare e cellulare può sembrare stravagante, ma bisogna ricordare che, per quasi 50 anni, biologi e pubblico si sono sentiti perfettamente a loro agio con il concetto del gene egoista di Richard Dawkins. Prum sostiene al riguardo che tale egoismo, in questo contesto della reattività soggettiva molecolare e cellulare, significa, per l’appunto, che tale agenzia si sia evoluta per perseguire i propri obiettivi e interessi. Naturalmente, la tesi dell’agenzia dei geni è intellettualmente confortante per molti perché sembra rafforzare il potere riduttivo del modello genetico [genetic blueprint]. Ma l’agenzia o capacità di reagire evoluta dei geni non annulla o nega l’agenzia di proteine, siti di legame genico, cellule, tessuti e organi. La biologia performativa, che propone Prum richiede, a dir suo, di espandere quell’agenzia o capacità soggettiva di reagire per comprendere altre molecole biologiche, cellule, tessuti e organi, le entità che, in realtà, fanno tutto in biologia.

 

Il sesso individuale non costituisce un fatto scientifico essenziale su un uovo fecondato

Non sorprende che, data l’attenzione della teoria queer sulle variazioni del gender umano, la performatività dei nostri corpi materiali non abbia implicazioni più profonde che nella considerazione del sesso umano individuale. In ogni modo, come sosteneva la studiosa del potere, del sesso e del desiderio, in particolare, nella letteratura occidentale, Eve Kosofsky Sedgwick in Touching Feeling8, il punto è che la performatività è anti-essenzialista. E quest’anti-essenzialismo, già problematizza abbastanza la nozione del sesso come fatto di semplice tassonomia scientifica. Per di più, nella sua tesi, una volta riconosciuto il potere del discorso, che sia verbale, gestuale, testuale o molecolare, di creare e influenzare la realtà stessa, siamo costretti a renderci conto che tali discorsi non rappresentano, e non possono rappresentare, alcuna essenza individuale precedente.

Quindi, possiamo dire che dalla prospettiva di Prum, Butler, Kay e Kosofsky Sedgwick il sesso individuale non è un fatto scientifico essenziale su un uovo fecondato, una cellula individuale o una combinazione specifica di cromosomi, geni o livelli ormonali. Come il corpo materiale stesso, il sesso individuale, le capacità anatomiche e fisiologiche di riprodursi in modi particolari e strutturati, è un divenire, una realizzazione individuale che si dispiega durante la vita attraverso il fare della vita. Lo sviluppo sessuale implica l’uso dei nostri geni, ma non sarebbe definito da essi. Al contrario, come sintetizza Prum, le funzioni di specifici cromosomi, geni, ormoni, molecole di segnalazione e recettori nello sviluppo sessuale umano sono ciascuna subordinate a molti altri attori, a monte e a valle, nel discorso molecolare/materiale incarnato dello sviluppo sessuale.

In particolare, Prum riferisce che il gene SRY, abbreviazione di Sex-determining Region on the Y, è stato definito innumerabili volte nella letteratura scientifica come l’interruttore principale della determinazione del sesso nei mammiferi. SRY viene considerato un fattore di trascrizione che si lega a un potenziatore a monte del DNA del gene SOX9, un altro fattore di trascrizione che, tra le tante funzioni nello sviluppo dell’embrione, potrebbe svolgere un ruolo nello sviluppo dei testicoli all’interno della gonade embrionale.

Tuttavia, aggiunge Prum, questo interruttore principale non costituisce il padrone di nulla. In effetti, SRY è un pasticcio! Riguardo la considerazione di SRY come pasticcio, Prum cita un articolo dal titolo ironico SRY: The Master Switch in Mammalian Sex Determination (2010). I suoi autori, i biologi dello sviluppo Kenichi Kashimada e Peter Koopman, nella nomografia del loro lavoro sperimentale di ricerca descrivono SRY come un gene fragile e parzialmente debilitato in uno stato degradato. In un altro articolo in materia referito da Prum intitolato SRY and the Hesitant Beginnings of Male Development (2007), nell’abstract della pubblicazione gli autori i ricercatori Juan Carlos Polanco e Peter Koopman scrivono che nei mammiferi, SRY (gene della regione Y che determina il sesso) sarebbe il regolatore principale della determinazione del sesso maschile. La scoperta di SRY nel 1990 avrebbe dovuto fornire la chiave per svelare la rete di regolazione genica alla base dello sviluppo dei testicoli. Curiosamente, non è stato ancora scoperto alcun gene bersaglio della proteina SRY e i meccanismi con cui media le sue funzioni di sviluppo sono ancora sfuggenti. Ciò che risulta chiaro, concludono, è che invece del gene robusto che ci si potrebbe aspettare come pilastro dello sviluppo sessuale maschile, la funzione di SRY sarebbe appesa a un filo sottile, una situazione che ha profonde implicazioni biologiche, mediche ed evolutive.

Sotto quest’aspetto della funzione di SRY Prum chiarisce che come il tropo dell’ego maschile fragile, lo sviluppo molecolare dei testicoli dei mammiferi sembra essere intrinsecamente precario. Tutta questa ansia biomedica sull’impotenza molecolare dell’interruttore generale sessuale dei mammiferi deriverebbe dai volumi di dati reali che documentano i numerosi ostacoli che SRY deve superare per svolgere la sua semplice e singolare funzione: accendere il gene SOX9 nella gonade in via di sviluppo, puntualizza Prum.  Per di più, aggiunge, dopo la trascrizione, gli RNA messaggeri SRY devono prima essere stabilizzati dall’isoforma proteica WT1+KTS finché non possono essere tradotti in una proteina. Quindi, la proteina SRY deve essere fosforilata in un punto, acetilata in un altro e legata ad altre due proteine ​​chaperone, calmodulina e importina-β, prima di poter entrare nel nucleo cellulare. Una volta lì, deve slegare calmodulina e importina-β, quindi legarsi a una specifica sequenza di amminoacidi ACAA nel solco minore del DNA a monte di SOX9 e piegare il DNA a un angolo di 60˚° – 85° per attivare l’espressione di SOX9.

Tuttavia, chiarisce Prum, ognuno di questi eventi può essere interrotto. Stando a lui, lo si desume dall’euristica relativa all’indagine genetica di individui che sono stati cresciuti come ragazze ma che inaspettatamente non hanno mai raggiunto la pubertà e sono stati trovati individui XY senza testicoli. Gli ostacoli molecolari che SRY affronta nello svolgimento della sua funzione non sono onesti handicap progettati dall’evoluzione per garantire che solo i migliori embrioni diventino maschi. Piuttosto, ognuno di questi eventi si è evoluto per compensare un’altra nuova e deleteria mutazione sorta in SRY durante la sua lunga storia evolutiva sul cromosoma Y solitario e non ricombinante. Sotto quest’aspetto, Prum sostiene che ogni singola compensazione barocca per i problemi funzionali di SRY diventa un’altra dipendenza contingente e discorsiva che porta a opportunità sempre più ricche per l’origine di differenze evolutive nel sesso incarnato. Stando a lui, la precarietà di SRY dimostrerebbe che l’evoluzione stessa sarebbe generativamente queer.

Prum precisa, inoltre, che molte altre ricerche circa le differenze nello sviluppo sessuale umano dimostrano che SRY non è né necessario né sufficiente per lo sviluppo dei testicoli o per l’istituzione della mascolinità anatomica. La biologia molecolare dello sviluppo dimostra che il sesso non è un fatto scientifico riguardante uno zigote, una cellula, un gene o una qualsiasi combinazione cromosomica. Niente può, in questa nuova euristica, determinare o definire il sesso individuale se non il suo conseguimento. Il sesso individuale è un divenire. Per parafrasare Simone de Beauvoir, a livello molecolare, cellulare e culturale, essere una donna (o un uomo) significa esserne diventati uno.

Le implicazioni di tutto questo sono, ovviamente, profonde. Le differenze nello sviluppo sessuale tra gli individui, comprese quelle che spesso vengono definite condizioni intersessuali, nella prospettiva euristica di Prum, non sarebbero esempi di un binario sessuale andato male, ma la prova che non esisterebbe un binario sessuale individuale in primo luogo. Un’altra implicazione ancora più radicale è che se il sesso individuale non è un’essenza geneticamente definita, un fatto intrinseco e indispensabile inciso nei nostri genomi, allora non esiste un’essenza sessuale individuale da abbandonare o da adottare attraverso l’esperienza trans. Né esiste un’essenza sessuale da difendere all’interno dell’esperienza cis9. Da questo punto di vista, tutti i nostri corpi sessuali sarebbero rappresentati attraverso un processo individualizzato di divenire performativo. Prum precisa in modo radicale che questo è ciò che significa vivere in un corpo. L’esperienza trans sarebbe solo un divenire più complicato.

 

La biologia performativa

Per Butler come per Prum, la performatività dei nostri corpi si estende oltre gender/sesso a ogni aspetto della nostra biologia. Nonostante gli sforzi decennali della ricerca del Progetto Genoma Umano per ridurre la complessità e la diversità umana ai nostri genomi, come abbiamo riferito con il lavoro di Philip Ball in BIO 51, Richard Prum ci segnala che la scienza continua a riconfermare l’importanza della nostra individualità. Sotto quest’aspetto Prum propone una tesi piuttosto radicale, in particolare, quando afferma che, basato sull’euristica attuale in materia, si può postulare che tutti i nostri tratti diversi e complessi, dall’intelligenza e dalle capacità atletiche, linguistiche o musicali al nostro rischio di malattie complesse, come cancro e infarto, sarebbero meglio compresi come aspetti dei nostri sé performati. Come lui riferisce, gli input genetici su tali tratti complessi sono altamente diversificati, coinvolgendo interazioni tra molte rare varianti di molti geni. Di conseguenza, se i biologi identificassero tutte le varianti genetiche ereditarie che influenzerebbero il rischio di infarto, potremmo spiegarne meno del 10 percento. Quest’ereditarietà mancante dimostra che noi umani siamo estremamente variabili geneticamente. Ciò significa che i contributi genetici al proprio rischio di infarto o cancro sono il risultato di interazioni gene per gene per gene … che sono virtualmente uniche per ciascuno di noi. Le conseguenze di queste miriadi di varianti genetiche si manifestano precisamente nei modi complessi in cui sviluppiamo individualmente i nostri complessi divenire discorsivi. Attraverso l’enorme sforzo per scoprire il modello genetico umano universale, inclusa l’edizione Pan genomica più recente, la scienza ha invece rivelato la nostra schiacciante e ostinatamente persistente individualità umana.

Butler, Kay, Prum e la nuova ricerca post-genomica propongono che la biologia abbia bisogno della teoria queer per comprendere il corpo nella sua complessa performatività individuale. Tutte le innovazioni più complesse e distintive degli esseri umani, le nostre intelligenze creative, le nostre personalità diverse, le nostre ricche capacità psicologiche e la nostra predisposizione al linguaggio, sarebbero esempi di novità evolutive performative. Allo stesso modo in cui la performatività di gender identifica il ruolo degli agenti nel nostro ambiente sociale nei nostri divenire di gender, la psicologia umana, l’intelligenza e la capacità linguistica sono tutte emerse attraverso un feedback coevolutivo tra i nostri cervelli in via di sviluppo e i nostri ambienti sociali sempre più complessi, che non possono essere codificati nei nostri genomi. Stando agli studiosi su cui si basa quest’argomentazione, le nostre esperienze sensoriali e soggettive non sono proiezioni di dati su algoritmi neurali ma azioni dinamiche intraprese da ogni individuo nell’interazione con il mondo. Più di ogni altro aspetto del fenotipo umano, la psicologia umana, la personalità e il comportamento sono esplicitamente performativi alla Austin, sono azioni nel nostro mondo sociale.

La comprensione performativa dei nostri corpi fisici e delle nostre menti fornisce un quadro concettuale unico e unificato per l’indagine e il dialogo simultanei tra scienza e cultura su evoluzione, biologia, genetica, psicologia, gender e sesso. Questo cambiamento nel pensiero scientifico, sostiene Prum, non sarebbe un adattamento alla cultura, ma piuttosto un miglioramento della comprensione scientifica di per sé. La biologia avrebbe bisogno della teoria queer per comprendere il corpo con una articolata epistemologia della sua complessità. Sebbene alcuni possano trovare ciò sorprendente, significa, semplicemente, che gli scienziati possono imparare la scienza da persone che non sono scienziati.

La biologia performativa stabilisce uno spazio intellettualmente queer nel cuore della genetica molecolare, della biologia dello sviluppo e della biologia evolutiva. Scientificamente, la biologia performativa richiede un rinnovato focus della ricerca biologica a tutti i livelli nel complesso processo gerarchico dello sviluppo e dell’evoluzione degli organismi, non solo sui geni. Ma questa rivoluzione metaforica richiederà un ripensamento fondamentale su come la biologia viene insegnata, ricercata e finanziata. La biologia performativa estende anche un invito a sviluppare nuove direzioni e priorità nella ricerca scientifica, da parte di nuove generazioni di ricercatori, concepite nel fatto che gli organismi sono complessi divenire individuali, non prodotti materiali di un progetto o blueprint. Infine, la biologia performativa stabilisce un percorso intellettuale affinché gli scienziati queer e trans e i loro alleati possano perseguire la ricerca scientifica in biologia molecolare, biologia dello sviluppo, biologia evolutiva e psicologia in modi che si collegano, personalmente e intellettualmente, alle loro esperienze vissute e alle loro identità.

 

  1. Richard O. Prum è un biologo evoluzionista e ornitologo.  William Robertson Coe Professore di Ornitologia, Ecologia e Biologia Evoluzionistica presso la Yale University, nonché capo curatore di zoologia dei vertebrati presso il Peabody Museum of Natural History dell’università
  2. Per gender si intende l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico. Introdotto nel contesto delle scienze umane e sociali per designare i molti e complessi modi in cui le differenze tra i sessi acquistano significato e diventano fattori strutturali nell’organizzazione della vita sociale.
  3. La  teoria queer  è una teoria  sociologica, incentrata sulla critica e il riesame dei concetti di  sesso  e  genere, emersa sulla scia delle tesi di  Michel Foucault,  Jacques Derrida  e  Julia Kristeva. La teoria queer mette in discussione la naturalità dell’identità di genere, dell’identità sessuale  e degli atti sessuali di ciascun individuo, affermando invece che esse sono interamente o in parte costruite socialmente, e che quindi gli individui non possono essere realmente descritti usando termini generali come “eterosessuale” o “donna”. La teoria queer sfida pertanto la pratica comune di dividere in compartimenti separati la descrizione di una persona perché “entri” in una o più particolari categorie definite particolarmente in modo binario.
  4. Richard O Prum. The Evolution of Beauty. How Darwin’s Forgotten Theory of Mate Choice Shapes the Animal World – and Us. Doubleday, 2017 / In it. L’evoluzione della bellezza. ADELPHI 2020
  5. Judith Butler. Bodies That Matter. On the Discursive Limits of Sex. Routledge, New York, 1993 / Corpi che contano. I limiti discorsivi del «Sesso». Feltrinelli 1996
  6. La prospettiva eterosessuale dominante nel fondare il modello di ciò che è “normale” e “naturale”, esclude ciò che è “diverso”, “innaturale”, e lo relega nella sfera dell’abietto. La lesbica e il gay, che non rientrano nel binomio dei due sessi culturalmente codificati, rappresentano un’alterità emarginata, antagonista e terrificante. Ma in questa “norma” eterosessuale possono aprirsi fratture o verificarsi slittamenti che consentono risignificazioni impreviste, non solo del maschile e femminile, dell’eterosessuale e omosessuale, ma anche delle appartenenze etniche e razziali, attivando un riassetto più dinamico, libero e democratico delle identità.
  7. Un discorso è una modalità di comunicazione linguistica mediante cui si parla o scrive. La definizione del termine varia a seconda dei campi di applicazione (antropologia, etnografia, medicina, cultura, letteratura, filosofia, biologia, ecc.). In semantica e analisi del discorso sarebbe la generalizzazione del concetto di comunicazione all’interno di tutti i contesti. Nel campo dei codici costituirebbe la totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in un determinato settore di pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso giuridico, discorso religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha definito il discorso come un ensemble de séquences de signes (un insieme di sequenze di segni). Per quanto riguarda il campo delle scienze sociali e delle scienze umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un pensiero che si può esprimere mediante il linguaggio.
  8. Eve Kosofsky Sedgwick. Touching Feeling: Affect, Pedagogy, Performativity. Duke University Press, 2023
  9. Il termine  cisessuale  (in inglese  cisgender) indica la persona la cui  identità di gender  corrisponde al  genere  e al  sesso  biologico assegnato alla nascita

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