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29 Marzo, 2025

L’animale umano è un animale di disturbo ed un’intelligenza artificiale non può pensare

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XIV • Numero 53 • Marzo 2025

 

L’intreccio: come l’arte e la filosofia ci rendono ciò che siamo, secondo il filosofo Alva Noȅ

La prima asserzione di questo titolo potrebbe risultare impertinente, in senso molto largo. La seconda, potrebbe essere considerata una contraddizione in adiecto1. Tuttavia entrambe le asserzioni possono intrecciarsi attraverso l’arte e la filosofia, che con la tecnica, ci renderebbero, stando a tanti altri filosofi, ciò che noi umani siamo. Certamente, l’argomento dell’intelligenza artificiale non appartiene del tutto al mio campo, ma la lettura critica, ossia la decostruzione delle realtà sociali contemporanee, costituisce un mio vincolo editoriale. In tal senso, cercando di svolgere le mie attribuzioni, leggendo The Entanglement: How Art and Philosophy Make Us What We Are2, libro del 2023, del professore di filosofia Alva Noȅ3, nonché direttore del dipartimento, presso l’Università della California a Berkeley, mi sono imbattuto in questo suo interpretativo ed apparentemente paradossale commento: – Nonostante tutte le promesse e i pericoli dell’Intelligenza Artificiale, i computer non riescono, evidentemente, a pensare. Pensare significa resistere, qualcosa che nessuna macchina fa!

Nonostante che l’argomentazione esperta, critica e, a volte, in apparenza, elogiativa circa l’intelligenza artificiale sia stata accolta in diverse occasioni in BIO, la mia simpatia per il professore Alva Noȅ, innanzitutto per il suo interesse nel continuare ad interpretare la natura umana, i limiti delle scienze naturali nella comprensione dell’essere umano e il ruolo essenziale dell’arte e della filosofia nel tentativo di noi umani di conoscere noi stessi, ho voluto condividere con voi, lettori, le riflessioni irreverenti del professore Alva Noȅ circa l’intelligenza artificiale.

 

Trasformazione culturale dei nostri mondi tramite l’uso di strumenti e di tecnologia

In un altro suo saggio sulla materia, proprio di ottobre dell’anno scorso Rage against the machine, mi sono ritrovato con la sua asserzione: i computer, in realtà, non fanno nulla! Oramai, il mio convincimento di condividere con voi, lettori, la visione di Alva Noȅ al riguardo, diventa per me trascinante. Nella sua esposizione i computer non scrivono, né giocano; non calcolano nemmeno! A questo punto della sua argomentazione, il suo pensiero si fa serio e specifica che la sua asserzione, che sostiene che i computer non farebbero nulla, non significa che noi umani non possiamo giocare con i computer, o usarli per inventare, o creare, o risolvere problemi. Tutti stiamo facendo esperienze che ci inducono a realizzare che la nuova Intelligenza Artificiale sta, inaspettatamente, rimodellando i modi di lavorare e creare, nelle arti e nelle scienze, nell’industria e nella guerra. A tale proposito, Alva Noȅ ci propone, categoricamente, che dobbiamo fare i conti con la promessa trasformativa e con gli azzardi o i rischi di questa nuova tecnologia. Ma, con buonsenso, suggerisce che dovrebbe essere possibile farlo senza soccombere a false affermazioni sull’intelligenza delle macchine.

Sotto questo aspetto, Alva Noȅ, presenta una domanda che lo porterà a stipulare qualcosa che, sono certo, infastidisce tanti. La sua ingegnosa domanda è quella di chiederci cosa potrebbe mai indurci a prendere sul serio il pensiero popolare che ritiene che questi dispositivi, di nostra invenzione, possano, effettivamente, capire, pensare e sentire, o che, se non ora, più tardi, potrebbero un giorno aprire i loro occhi artificiali e contemplare, finalmente, un mondo scintillante tutto loro. Una fonte di questa credenza potrebbe essere, naturalmente, la sensazione che, ora scatenata, l’intelligenza artificiale sia al di fuori del nostro controllo. Veloce, microscopica, distribuita e astronomicamente complessa, è difficile comprendere questa tecnologia, ma, e questo sarebbe il colpo di genio di Alva Noȅ, suggerire che per molti di noi umani sarebbe o, effettivamente, è allettante immaginare che i modelli di simulazioni chiamati intelligenza artificiale abbiano potere su di noi.

Tuttavia questo fascino seducente, stando ad Alva Noȅ4 non è una novità. La storia della tecnologia, dalla preistoria ad oggi, è sempre stata quella dei modi in cui siamo trascinati dagli strumenti e dai sistemi che noi stessi abbiamo creato5. Si pensi, soltanto, ai percorsi che abbiamo creato camminando. Oppure al fatto che ad ogni strumento corrisponde un’abitudine, ovvero un modo automatizzato di agire ed essere. Dall’umile matita alla macchina da stampa fino a Internet, sostiene Alva Noȅ, la nostra azione umana è, in parte, determinata dalla creazione di paesaggi sociali e tecnologici che, a loro volta, trasformano ciò che possiamo fare e che, di conseguenza, sembrano, o minacciano di governarci e controllarci.

Eppure, sottolinea Alva Noȅ, una cosa è apprezzare i modi in cui creiamo e ricreiamo noi stessi attraverso la trasformazione culturale dei nostri mondi tramite l’uso di strumenti e di tecnologia, un’altra è mistificare la materia muta messa al lavoro da noi. Se c’è intelligenza nelle vicinanze di matite, scarpe, accendini, mappe o calcolatrici, è l’intelligenza dei loro utilizzatori e inventori. E il digitale non è diverso, afferma.

Per lo studioso Alva Noȅ, tuttavia, c’é un’altra origine del nostro impulso a concedere intelligenza a dispositivi di nostra invenzione, oltre al fascino allettante di soccombere sotto gli strumenti creati da noi stessi. Quest’altra ragione è per lui quella che nella nostra argomentazione merita attenzione. Si tratta della tendenza di alcuni scienziati a dare per scontato ciò che può essere descritto solo come un’immagine, selvaggiamente semplicistica, della vita cognitiva umana e animale. Si affidano, senza controllo, a concezioni unilaterali, anzi, inconsistenti, dell’attività umana, dell’abilità e del conseguimento cognitivo. La sostituzione surrettizia (usando una frase di Edmund Husserl) di questa versione sottile e cremosa dell’intelligenza al lavoro, stando ad Alva Noȅ, è una sostituzione che risale ad Alan Turing e alle origini stesse dell’Intelligenza Artificiale, vale a dire alla mossa decisiva nel trucco di prestigio.

A tale riguardo, Alva Noȅ, segnala che ciò che gli scienziati sembrano aver dimenticato è che l’animale umano è una creatura di disturbo. O come scrisse il filosofo della biologia Hans Jonas nella metà del XX secolo: “L’irritabilità è il germe, e per così dire, l’atomo dell’avere un mondo …” Alva Noȅ suggerisce, per comprendere questa smania umana, di immaginare che in noi c’è sempre, per così dire, un sassolino nella scarpa. Ed è questa irritabilità o smania ciò che ci muove, ci gira, ci orienta a riorientarci, a fare le cose in modo diverso, così che possiamo andare avanti. Nella sua interpretazione dell’attività umana, sono l’irritazione e il disorientamento la fonte della nostra preoccupazione. In assenza di disturbo, non c’è nulla: niente linguaggio, niente giochi, niente obiettivi, niente compiti, niente mondo, niente cura e, di conseguenza, sì, niente coscienza.

 

Un’intelligenza artificiale non può pensare? – Il contributo di Turing e la risposta critica di Alva Noȅ

Torniamo alla nostra prima domanda – Le macchine possono pensare? Turing liquidò questa cosa come troppo insignificante per meritare una discussione. In effetti, invece di provare a creare una macchina che potesse pensare, si accontentò di progettarne una che potesse essere considerata un sostituto ragionevole di un pensatore. Ovunque nel lavoro di Turing, l’attenzione è rivolta all’imitazione, alla surrogazione e alla sostituzione. Renderci conto del significato di quest’affermazione è imprescindibile per capire l’apparente leggerezza con cui in questa argomentazione si ripete che l’intelligenza artificiale non può pensare.

Per capire il pensiero del filosofo Alva Noȅ circa l’intelligenza artificiale, esaminiamo concisamente il contributo di Turing alla matematica. Stando alla descrizione di Noȅ una macchina di Turing è un modello formale dell’idea informale di computazione, vale a dire, l’idea che alcuni problemi possano essere risolti meccanicamente seguendo una ricetta o un algoritmo. Si pensi, a mo’ di esempio, alla divisione lunga6. Quale sarebbe, in breve, il contributo i Turing? Turing propose di sostituire la nozione familiare della divisione dei polinomi (divisione lunga) con un analogo più preciso. La considerazione di Noȅ riguardo se una data funzione sia computabile nei termini di Turing, risulta per lui una questione matematica, una questione a cui Turing avrebbe fornito i mezzi formali per rispondere rigorosamente. Ma, e questo costituisce il punto sociologico del filosofo Noȅ, se la computabilità nei termini elaborati di Turing serva a catturare l’essenza della computazione, come la intendiamo intuitivamente e se, di conseguenza, sia una buona idea effettuare la sostituzione, queste non sarebbero questioni che la matematica può decidere. In effetti, presumibilmente, perché sarebbero di per sé troppo insignificanti per meritare una discussione, Turing le avrebbe lasciate ai filosofi, sostiene Noȅ.

Nell’interpretazione di Alva Noȅ, Turing, con il suo stesso spirito antifilosofico, avrebbe proposto di sostituire la domanda insignificante: Le macchine possono pensare? Con la domanda su cui, empiricamente, si può prendere una decisione, vale a dire le macchine possono superare quello che è diventato noto come il test di Turing? Ma, per comprendere una tale proposta, Noȅ sostiene che si debba guardare al test, che Turing chiamò il gioco dell’imitazione.

 

Il test del gioco dell’imitazione di Turing

Seguendo la breve descrizione fornita da Alva Noȅ, il gioco dovrebbe essere giocato da tre giocatori: un uomo, una donna e una persona il cui gender non ha rilevanza. Ad ognuno viene assegnato un compito distinto. Il giocatore di gender non specificato fa l’interrogatore con il compito di capire quale degli altri due sia l’uomo e quale sia la donna. Il compito della donna è di fungere da alleata dell’interrogatore, quello dell’uomo far sì che l’interrogatore faccia un’identificazione errata. Il punto consiste nell’esplorare se il sostituire una macchina a un giocatore abbia qualche effetto sul tasso di successo. Descritto così, potrebbe sembrare, ed effettivamente essere, un divertente intrattenimento per adulti, anche se già Turing sosteneva che con tale impostazione il test del gioco dell’imitazione sarebbe stato troppo facile. Anche oggi, quando gli esperimenti di gender sono all’ordine del giorno, non sarebbe così difficile, nella maggior parte delle circostanze, classificare le persone in base al gender, in base all’aspetto superficiale. Quindi, Turing propose di isolare l’interrogatore in una stanza, limitandone l’accesso agli altri per porre domande. Inoltre, affinché i toni di voce non potessero aiutare l’interrogatore, le risposte avrebbero dovuto essere scritte o, meglio ancora, dattiloscritte. La soluzione ideale, stando a Turing, sarebbe stata quella di avere un telescrivente che comunicasse tra le due stanze.

Tornando al punto dell’argomentazione, Alva Noȅ si chiede cosa ci potrebbe insegnare l’Imitation Game [il gioco dell’imitazione] di Alan Turing sull’intelligenza delle macchine? Ma già al suo tempo Turing stesso si interessò alla domanda e alla sua risposta. Turing, in ogni modo, aveva già riformulato la domanda in questo modo – Cosa accadrebbe se una macchina assumesse la parte [dell’uomo] in questo gioco? L’interrogatore deciderebbe in modo sbagliato, con la stessa frequenza quando il gioco si svolge in questo modo rispetto a quando si svolge tra un uomo e una donna? Ma stando ad Alva Noȅ, queste domande non fanno che sostituire la nostra domanda originale: – Le macchine possono pensare?

In effetti, in una tale ipotesi, Noȅ ci segnala che l’obiettivo dell’interrogatore non è proprio quello di smascherare il computer ma quello di smascherare i giocatori umani come aventi questo o quel gender (uomo o donna). Ma l’obiettivo di Turing, e il punto del gioco, sarebbe quello di esplorare se sostituire una macchina a uno dei giocatori abbia qualche effetto sul tasso di successo dell’interrogatore. Sarebbe, davvero, quest’ultima domanda, se ci sia o meno un effetto sui risultati, la domanda che viene proposta, provocatoriamente, da Turing, come intermediaria per argomentare se le macchine possano pensare o meno.

Invece di discutere, in modo attinente, puntualizza Noȅ, su cosa sia il pensiero, Turing immagina uno scenario in cui le macchine potrebbero essere in grado di entrare e partecipare a uno scambio umano significativo. La loro capacità di fare ciò, stabilirebbe, decisamente, che possono pensare, o sentire, di avere un’intelligenza come noi? Tuttavia, secondo Turing, queste sarebbero, esattamente, le domande sbagliate da porre. Ciò che Turing si spinge ad affermare è che le macchine migliorerebbero nel gioco, e si spinge fino ad azzardare una previsione: che entro la fine del secolo – scriveva nel 1950 – l’opinione generale istruita sarebbe stata cambiata, così tanto, che si sarebbe potuto parlare di macchine che pensano senza aspettarsi di essere contraddetti.

Tuttavia, sostiene Alva Noȅ, nonostante l’apparente ostilità di Turing verso la filosofia, rimane la possibilità di leggerlo come colui che cattura un’intuizione filosofica critica. In effetti, si domanda Turing, perché dovremmo aspettarci che le prove siano in grado di proteggere l’intelligenza delle macchine per noi, quando non svolgono quella funzione nei nostri normali rapporti umani? Alva Noȅ, filosofo e radicale, punta ancora ad una osservazione euristica più contundente, sostenendo che nessuno di noi ha mai scoperto o dimostrato che le persone intorno a noi nelle nostre vite pensino o sentano davvero. Lo diamo, semplicemente, per scontato. Stando a Noȅ, è questa l’osservazione che motiva la sua concezione del suo compito e non proprio quella di dimostrare che le macchine possano pensare. La posizione di Turing sarebbe piuttosto quella di integrare i computer nelle nostre vite in modo che la domanda, in effetti, scompaia o si “risponda” da sola. In ogni modo, Alva Noȅ, considera che non tutte le surrogazioni e le sostituzioni di Turing siano così, semplici, come sembrano e che alcune di esse siano decisamente fuorvianti.

Verso la gamification della vita: una delle eredità più inquietanti di Turing

Consideriamo, come consiglia Alva Noȅ, in primo luogo, il suggerimento pratico di Turing di sostituire il parlato con l’uso di messaggi digitati. Egli suggeriva che questo servisse a rendere il gioco impegnativo. Ma la sostituzione del testo al parlato avrebbe avuto un effetto completamente diverso: dare un minimo di plausibilità al suggerimento, altrimenti assurdo, che le macchine potrebbero partecipare. Per apprezzarlo, dobbiamo ricordare che una macchina di Turing costituisce ciò che in matematica viene chiamato un sistema formale. In un sistema formale, c’è un alfabeto finito e un insieme finito di regole per combinare elementi dell’alfabeto in espressioni più complesse. In un tale contesto, ciò che rende formale il sistema è che il vocabolario debba essere specificato solo in termini di proprietà fisiche e le regole devono essere formulate solo in termini di queste proprietà fisiche, vale a dire formali. Questo è, teoreticamente, il punto cruciale. A meno che non si possano specificare, formalmente, gli input e gli output, il vocabolario, non si può definire una macchina di Turing o una funzione calcolabile alla Turing, puntualizza Noȅ.

A questo punto il filosofo Noȅ, cosa fondamentale, ci avverte che non è possibile specificare formalmente gli input e gli output del linguaggio umano ordinario. A tale proposito ci ricorda che il discorso è un movimento caldo e affannoso che si svolge sempre con gli altri, nel contesto e sullo sfondo di bisogni, sentimenti, desideri, progetti, obiettivi e vincoli. Il discorso è, quindi, attivo, sentito e improvvisato. Ha più in comune, segnala ironicamente Noȅ, con la danza che con gli SMS. E questa segnalazione si rivela tremenda nella sua semplicità. Siamo così a casa, oggigiorno, sotto il regime della tastiera che non ci accorgiamo nemmeno dei modi in cui il testo nasconde la realtà corporea del linguaggio. E questo vuole dire che la gamification7 della vita è una delle eredità più sicure e più inquietanti di Turing.

Sebbene il discorso non sia formalmente specificabile, il testo, nel senso di messaggio di testo, lo è. Quindi, il testo può fungere da proxy computazionalmente trattabile o manipolabile per uno scambio umano reale. Filtrando tutte le comunicazioni tra i giocatori tramite la tastiera, in ordine di rendere il gioco più difficile, Turing effettivamente, e in realtà, spiega Noȅ, questo sarebbe un gioco di prestigio, spazza sotto il tappeto quello che il filosofo Ned Block ha chiamato il problema degli input e degli output.

Ma la sostituzione del messaggio di testo con il parlato non è l’unico gioco di prestigio all’opera nell’argomentazione di Turing. L’altro, sostiene Aval Noȅ, sarebbe introdotto ancora più subdolamente. E questo gioco sarebbe la sostituzione tacita dei giochi con uno scambio umano significativo. In effetti, ribadisce Alva Noȅ, la gamificazione8 della vita costituisce una delle eredità più sicure e più inquietanti di Turing.

Il problema, considera Alva Noȅ, è che Turing dava per scontata una comprensione parziale nonché distorta di cosa siano i giochi. Dal punto di vista computazionale, i giochi devono essere formalmente trattabili e devono essere strutture cristalline di intelligibilità, mondi virtuali, dove le regole limitano ciò che si può fare e dove valori non problematici (punti, obiettivi, il punteggio) e criteri stabiliti di successo e fallimento (vincere e perdere) siano chiaramente specificati.

Eppure, sostiene Noȅ, chiarezza, regimentazione e trasparenza ci danno solo un aspetto di cosa sia un gioco. In qualche modo Turing e i suoi successori tendevano a dimenticare che i giochi sono anche delle competizioni, campi di prova e saremmo proprio noi ad essere messi alla prova e saremmo noi i cui limiti verrebbero esposti, o i cui poteri e debolezze sarebbero messi in mostra sul campo da kickball, o sul campo quadrato. Un bambino che gioca a scacchi a livello competitivo può soffrire di un’ansia così estrema da essere nauseato. Quest’espressione viscerale non è un epifenomeno accidentale, un esterno senza alcun valore essenziale per il gioco. No, i giochi senza vomito – o almeno quella possibilità viva – non sarebbero affatto riconoscibili come giochi umani.

Tutto questo, sostiene Alava Noȅ per dire che i veri giochi sono molto più di quanto sembrano quando li osserviamo, come fece Turing, attraverso la lente del regime della tastiera. Il che non significa negare che possiamo, e lo facciamo, modellare in modo utile aspetti del gioco in modo computazionale.

 

 

Noi umani non siamo semplicemente degli esecutori

Ecco il risultato critico che, stando ad Alva Noȅ, sfugge a Alain Turing: noi esseri umani non siamo, semplicemente, degli esecutori, in particolare, giocatori, le cui azioni, almeno quando abbiamo successo, sono conformi a regole o norme. Siamo degli esecutori la cui attività è sempre, almeno potenzialmente, luogo di conflitto. Gli atti di riflessione e critica di secondo ordine appartengono alla performance di primo ordine stessa. Questi sono intrecciati e con la conseguenza che non puoi mai escludere, dal puro esercizio dell’attività stessa, tutti i modi in cui l’attività sfida, ritarda, impedisce e confonde. Suonare il pianoforte, ad esempio, quell’altra tecnologia della tastiera, significa combattere con la macchina, combattere contro di essa.

Al riguardo il filosofo Alva Noȅ suggerisce un esempio contundente della sua visione della complessità della questione, sollecitandoci a pensare ad un pianoforte. Questo strumento, segnala Noȅ, è la costruzione e l’elaborazione di una particolare cultura musicale e dei suoi valori. Installa una concezione di ciò che è musicalmente leggibile, intelligibile, permesso e possibile. Un marchingegno fatto di circa 12.000 pezzi di legno, acciaio, feltro e filo, il pianoforte è un sistema quasi digitale, in cui i toni sono opera di tasti premuti, e in cui intervalli, scale e possibilità armoniche sono controllate dalla progettazione e dalla fabbricazione della macchina.

Il pianoforte, aggiunge Noȅ, è stato inventato, certo, ma non da te o da me. Lo incontriamo. Preesiste e sollecita la nostra sottomissione. Imparare a suonare significa essere modificati, costretti ad adattare la propria postura, le mani, le dita, le gambe e i piedi alle esigenze meccaniche del pianoforte. Sotto il regime della tastiera del pianoforte, ci viene richiesto di diventare noi stessi pianoforti meccanici, vale a dire estensioni della macchina stessa. Ma non possiamo e non lo faremo perché stando a lui Imparare a suonare, affrontare la macchina, per noi, significa lottare. È difficile padroneggiare le richieste dello strumento. Padroneggiare il pianoforte non significa solo conformarsi alle richieste della macchina. Significa respingere, dire di no.

Nell’interpretazione filosofica della questione, Noȅ suggerisce che la difficoltà che incontriamo di fronte all’insistenza, in questo caso della tastiera, sia piuttosto produttiva perché ci costringe a fare arte dalla difficoltà. Ci impedirebbe di essere pianoforti meccanici, ma sarebbe, esattamente, ciò che è richiesto se vogliamo diventare pianisti. Perché è il rapporto teso del musicista con la macchina e con la storia e la tradizione, che la macchina impone, che fornisce la materia prima dell’invenzione musicale. Nel pensiero di Alva Noȅ, musica e suonare accadono in quell’intreccio. Padroneggiare il pianoforte, come solo una persona può fare, non significa solo conformarsi alle richieste della macchina. Significa piuttosto respingere, dire di no, infuriarsi contro la macchina. E così, ad esempio, schiaffeggiamo, sbattiamo e urliamo. In questo modo, il pianoforte diventa non solo un veicolo di abitudine e controllo, un meccanismo, ma piuttosto un’opportunità di azione ed espressione. E, come per il pianoforte, così per l’intera vita culturale umana. Viviamo nell’intreccio tra governo e resistenza. Ci ribattiamo.

 

 

La discussione sull’intelligenza artificiale tende, inconsapevolmente, a presupporre una semplificazione unilaterale e sbrigativa dell’abilità umana e della vita cognitiva

Alva Noȅ, ci permette di approcciare la questione anche dalla gradazione del linguaggio. In effetti, se osserviamo, noi non parliamo solo, per così dire, seguendo ciecamente regole. Parlare costituisce un problema per noi e le regole, così come formulate, sono continuamente in palio e in discussione. Siamo sempre, inevitabilmente, e fin dall’inizio, costretti a confrontarci con quanto sia difficile parlare, con quanto siamo inclini a fraintenderci a vicenda, sebbene il più delle volte ciò avvenga in modo pratico e senza eccessivo stress. Parlare, come ci fa notare Noȅ, quasi inevitabilmente, significa mettere in discussione la scelta delle parole, esigere riformulazione, ripetizione e riparazione.

Sotto questo aspetto Alva Noȅ, ci segnala che se immaginassimo una nostra conversazione con qualcuno, con i nostri soliti interlocutori – Cosa intendi? oppure – Come puoi dire questo? ci renderemmo conto che il nostro modo di parlare contiene al suo interno, fin dall’inizio, e come una delle sue modalità di base, le attività di critica e riflessione sul parlare stesso, che finiscono per cambiare il modo in cui parliamo e pensiamo. Non agiamo, come espone Noȅ, solo, per così dire, nel flusso. Il flusso ci sfugge e, al suo posto, conosciamo sforzo, argomentazione e negoziazione. E così cambiamo linguaggio nell’usare il linguaggio. In effetti, lui sostiene che questo sia propriamente un linguaggio, vale a dire un luogo di cattura e rilascio, impegno e critica, un processo. Stando a Noȅ, non possiamo mai escludere l’abilità, l’abitudine (quel genere di cose che le macchine vengono programmate, efficacemente, per simulare) dai modi in cui queste azioni, impegni e abilità vengono resi nuovi, trasformati, attraverso i nostri stessi atti di farli. Questi sforzi sono aggrovigliati. Ma per Alva Noȅ, questa è una lezione cruciale sulla forma stessa della cognizione umana.

Nella sua teoresi, se teniamo d’occhio il linguaggio, il pianoforte e i giochi, e se non perdiamo di vista quello che lui chiama groviglio, vale a dire i modi in cui andare avanti sarebbe aggrovigliato con tutto ciò che si rende necessario per gestire quanto sia difficile andare avanti! Allora diventa chiaro che la discussione sull’intelligenza artificiale tende, inconsapevolmente, a presupporre una semplificazione unilaterale e sbrigativa dell’abilità umana e della vita cognitiva.

La critica profonda di Alva Noȅ riguardo ai modelli linguistici di simulazione o più semplicemente l’intelligenza artificiale consiste nel chiarire che non sia corretta un’impostazione che presume che parlare sia qualcosa come la semplice applicazione di regole o che suonare il pianoforte sia solo una questione di fare ciò che il manuale istruisce. A tale riguardo Noȅ argomenta che immaginare utenti del linguaggio che non siano anche attivamente alle prese con i problemi del parlare, sarebbe come immaginare qualcosa, al massimo, il guscio o una parvenza della vita umana con linguaggio9. Sarebbe, in effetti, immaginare il linguaggio delle macchine (come gli LLM10). Il fatto rivelatore che ne deriva sarebbe che i computer sono usati per giocare ai nostri giochi; sarebbero progettati per fare mosse negli spazi aperti dalle nostre preoccupazioni. Non hanno preoccupazioni proprie e non creano nuovi giochi. Non inventano un nuovo linguaggio.

Per render più chiara la sua asserzione che l’intelligenza artificiale non pensa, Alva Noȅ, fa riferimento al filosofo R. G. Collingwood11 che nel 1924 notava che il pittore non inventa la pittura e il musicista non inventa la cultura musicale in cui si trova. E per Collingwood questo serviva a dimostrare che nessuna persona è completamente autonoma oppure una fonte di creatività divina ma che piuttosto siamo sempre, in una certa misura, riciclatori e campionatori e, nel migliore dei casi, partecipanti a qualcosa di più grande di noi. Ma questo, segnala Noȅ, non dovrebbe essere interpretato come una dimostrazione che diventiamo ciò che facciamo (pittori, musicisti, oratori) facendo ciò che, in particolare, fanno gli LLM, ovvero semplicemente formandoci su grandi set di dati. Noi umani non siamo solo formati. Abbiamo esperienza. Impariamo. E per noi, imparare una lingua, in particolare, non significa imparare a generare il prossimo token. Significa imparare a lavorare, giocare, mangiare, amare, flirtare, ballare, combattere, pregare, manipolare, negoziare, fingere, inventare e pensare. E, cosa fondamentale, non ci limitiamo a incorporare ciò che impariamo e a continuare; noi umani resistiamo sempre. I nostri valori sono sempre problematici. Non siamo semplicemente generatori di parole. Siamo creatori di significato. Non possiamo fare a meno di farlo e questo nessun computer potrebbe farlo.

 

  1. La locuzione latina contradictio in adiecto in italiano significa letteralmente contraddizione nell’attributo, ovverosia “contraddizione in termini”. Indica una formulazione di concetto di forma contraddittoria, in cui un attributo non sia compatibile in modo logico con il sostantivo che lo regge poiché il concetto classicamente legato a questo (al sostantivo) contiene già una chiara connotazione non coerente con la specificazione apportata dall’attributo. Ad esempio, nelle locuzioni “sfera cubica”, “animale inorganico”, o simili, la specificazione aggiunta dall’attributo collide con caratteri intrinseci del concetto che si lega al sostantivo.
  2. Alva Noȅ. The Entanglement: How Art and Philosophy Make Us What We Are. Princeton University Press, 2023
  3. Alva Noë è professore di filosofia presso l’Università della California, Berkeley, dove è membro del Center for New Media, dell’Institute for Cognitive and Brain Sciences e del Program in Critical Theory. I suoi numerosi libri includono Strange Tools; Art and Human Nature e Learning to Look; Dispatches from the Art World.
  4. Alva Noȅ. The Entanglement: How Art and Philosophy Make Us What We Are. Princeton University Press, 2023
  5. Alva Noȅ. Strange Tools: Art and Human Nature e Learning to Look: Dispatches from the Art World. Oxford University Press, 2001
  6. In matematica, la divisione dei polinomi detta anche divisione lunga è un algoritmo che permette di trovare il quoziente tra due polinomi, di cui il secondo di grado non superiore al grado del primo. È un’operazione che si può svolgere a mano, poiché separa il problema in varie divisioni tra monomi, facilmente calcolabili.
  7. Gamificazione o Ludicizzazione. Si tratta dell’inserimento di elementi tipici degli schemi di gioco competitivi come accumulo punti, superamento di livelli, acquisizione di status, ricompense, premi, ecc. in contesti non di gioco. La gamificazione, definita da Ian Bogost anche come exploitationware, sarebbe, in termini di struttura e metodo, un insieme di pratiche applicato agli ambiti più diversi con la finalità di aumentare i livelli di prestazione degli utenti di un sistema in base a parametri espliciti (punteggi e altro) e impliciti (il comportamento da implementare). È adoperata in maniera pervasiva nella progettazione e realizzazione di piattaforme digitali. Fonte: rivista anarchica anno 49 n. 437 ottobre 2019
  8. Esistono anche i cosiddetti giochi seri (serious game) che si propongono obiettivi diversi dal puro intrattenimento. I primi sono stati i simulatori di volo, per insegnare ai piloti a volare in un ambiente sintetico/artificiale. Non vi è settore che non sia già stato interessato da meccanismi di gamificazione: la gestione delle emergenze, la pianificazione di politiche cittadine, la politica stessa, l’educazione e altro ancora. Il meccanismo di base è semplicissimo: si trasforma ciò che viene descritto come un problema in gioco o, per meglio dire, in schema di gioco. La ripetizione di un’azione ritenuta corretta viene stimolata attraverso premi, crediti, accesso a un livello gerarchico superiore, pubblicazione di classifiche. Dal punto di vista normativo, invece di punire le infrazioni alle regole, si premia il rispetto delle regole. È una normatività totalmente piena e positiva, priva di dimensione etica, poiché il valore del comportamento, la sua assiologia, è determinata dal sistema, non dalla riflessione personale e collettiva sull’azione stessa. Fonte: rivista anarchica anno 49 n. 437 ottobre 2019
  9. Alva Noȅ. The Entanglement: How Art and Philosophy Make Us What We Are. Princeton University Press, 2023
  10. Un modello linguistico di grandi dimensioni, noto anche con l’inglese large language model è un tipo di modello linguistico notevole per essere in grado di ottenere la comprensione e la generazione di linguaggio di ambito generale.
  11. R. G. Collingwood. Speculum Mentis; or The Map of Knowledge (1924)

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