BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno X • Numero 38 • Giugno 2021
Il cambio di paradigma nella gestione della nostra presunta “autenticità”
La sofferenza quotidiana, o piuttosto quelle condizioni o quei sentimenti provocati da circostanze difficili che sorgono nella vita di tutti, è qualcosa con cui noi umani lottiamo dai tempi più remoti della specie, almeno da 130.000 anni.1 Negli ultimi decenni, però, assistiamo a un drastico cambiamento nel modo in cui affrontiamo la questione. In passato, una persona che stava attraversando un periodo di difficoltà poteva, ad esempio, tenere un diario o frequentare un terapista oppure un padre spirituale ma, oggi, ciò che potremmo convenire nel chiamare “psicologico” è stato sostituito da ciò che potremmo denominare “biochimico”. Abitando in un mondo gestito da quest’ultimo paradigma analitico della sofferenza quotidiana, invece di trattare i nostri sentimenti, il nostro stato d’animo oppure il nostro pensiero, come accadeva durante il dominio del paradigma umanistico, prendiamo una pillola per curare il nostro cervello. Si tratta, in breve, di una visione nella quale, indottrinati nell’idea di una presunta naturale perfezione umana, bisogna farmacologizzare ciò che, istituzionalmente e culturalmente, si ritiene chimicamente sbilanciato nel cervello.
Le difficoltà scolastiche o per prestazioni insufficienti al lavoro, le sofferenze per una perdita o le delusioni per come si sta svolgendo la propria esistenza sono considerate, al giudizio degli algoritmi fornitori di significati nel capitalismo della sorveglianza, come uno squilibrio nel cervello da essere risolto con mezzi chimici. Una tale tendenza è ciò che documenta Joseph E. Davis, sociologo e ricercatore su questioni che riguardano l’identità, nel suo studio Chemically Imbalanced: Everyday Suffering, Medication, and Our Troubled Quest for Self-Mastery (2020)2. Quest’approccio si è increspato nelle nostre conversazioni sociali e culturali e ha influenzato il modo in cui noi, come società, immaginiamo noi stessi, o piuttosto la nostra identità, e immaginiamo ciò che costituisce una buona vita. Davis avverte, però, che ciò che immaginiamo come una rivoluzione neurologica, in cui la sofferenza diventa un problema meccanicistico, avrebbe conseguenze preoccupanti e intrappolanti. Egli sostiene che allontanandoci da una visione interpretativa e significativa di noi stessi ostacoliamo le nostre possibilità di maturità psicologica e di apprendere altre importanti interpretazioni di noi stessi e delle condizioni sociali in cui viviamo.
Distanziandoci da una visione soggettiva e interpretativa di noi stessi e delegando sempre di più ad una sorta di tassonomia, stimata e quotata come scientifica, che ci classifica secondo principi di espressione iconica, quasi racchiudendoci in una semiotica che ci riduce ad un segno caratterizzato da un rapporto di somiglianza da cui risultano analogie o parallelismi con l’oggetto di scambio con cui ci identifichiamo nella gestione del nostro presunto sé e, di conseguenza, nella gestione della nostra presunta “autenticità”.
Sebbene si potrebbe argomentare criticamente, come fa il filosofo Gordon Marino3, che nel nostro mondo di “selfie, social media branding e gestione del proprio profilo su LinkedIn e Facebook il punto essenziale non sia chi siamo ma chi sembriamo di essere, i consulenti delle corporation ci informano, nelle pagine dell’Harvard Business Review, che “il termine” autenticità sarebbe diventato una parola d’ordine tra i leader organizzativi. In effetti, l’autenticità è “ormai onnipresente nel mondo degli affari, sui blog personali e persino nelle riviste di stile.” Secondo gli interpreti della Harvard “Tutti vogliono essere autentici.”
Paradossalmente, nelle interviste per il suo studio sociologico sulla sofferenza quotidiana nella nostra contemporaneità e sui nostri tormenti alla ricerca della padronanza di sé stessi, Joseph Davis segnala che lui ha riscontrato poco valore attribuibile all’idea di “essere autentici”. Allora, qual è la reale situazione al riguardo? L’autenticità sta svanendo come etica personale o è qualcosa che tutti vogliono realizzare? In realtà, entrambe le posizioni sono vere perché il significato di autenticità sta cambiando.
Capitalismo culturale e la società delle unicità
L’autenticità, che nella sua accezione moderna risale ai romantici della fine del XVIII secolo, di fatto, non ha mai avuto un unico significato. In gran parte del nostro uso quotidiano, il termine significa qualcosa di più o meno analogo al modo in cui parliamo di un oggetto che è autentico, come l’articolo autentico, non una copia o un falso. Pensiamo alle persone autentiche quando consideriamo che siano sé stesse, coerenti con una propria personalità, senza pretese e senza fingere. Ugualmente, pensiamo alle persone autentiche quando riteniamo che siano affidabili e degne di fiducia, generalmente resistenti ai capricci del momento o all’approvazione emotiva della folla. In altre parole, quando si dimostrano stabili e coerenti nel tempo e in diverse circostanze.
Come ideale etico, quale standard di ciò che sarebbe desiderabile essere, sia nel modo in cui ci relazioniamo con noi stessi che con gli altri, l’autenticità ha significato più che coerenza con sé stessi o mancanza di pretenziosità. Nella tradizione occidentale, essa riguarderebbe addirittura le caratteristiche della vita interiore che ci definiscono. Sebbene non esista alcuna “essenza” di autenticità, come osserva lo stesso Marino, l’ideale, seguendo la dottrina cristiana dell’anima individuale e speciale, è stato spesso espresso come impegno a essere fedeli a sé stessi, a ordinare la propria interiorità e vivere la propria vita in modo da dare un’espressione fedele alla propria individualità, ai progetti cari e alle convinzioni più profonde.
L’autenticità in questo senso etico, di radice religiosa, aveva un vantaggio critico, opponendosi e sfidando le pratiche utilitaristiche e le tendenze conformiste dell’ordine sociale ed economico convenzionale. La società erige idoli che la persona autentica deve superare. Trovare il proprio vero sé, vero come inteso da una psicologia intrisa dal cristianesimo, significa auto-riflessione, impegnarsi in una sincera stima di sé e cercare un’”autentica conoscenza di sé”, stando al filosofo Charles Guignon4, studioso del problema della conoscenza. In questa tradizione umanistica, “autenticità” significa fare proprie quelle verità o convenzioni che per noi umani contano in modo cruciale, come sottolinea il filosofo Charles Taylor,5 verità o convenzioni a cui sarebbe giusto e necessario essere fedeli. In questa comprensione, la svolta interiore, come la chiama Owen, non è fine a sé stessa ma un mezzo per la completezza personale e l’accesso a orizzonti condivisi di significato che trascendono il cosiddetto sé e contribuiscono a un mondo più ricco e più umano.
I significati di autenticità che riguardano la vita interiore stanno, però, ora svanendo. Non sono, come suggerisce Marino, e come ha sostenuto anche J Davis, coerenti o compatibili con il modo in cui la vita è generalmente vissuta oggi. Infatti, a parere di Davis esiste un significato alternativo, un’autenticità che è in armonia con i nostri tempi. Una modalità di autenticità che si può dire “tutti vogliono essere”, perché, accettando i termini di Davis, essa è la modalità in cui tutti dovrebbero essere o ci aspettiamo che siano.
Nel suo recente libro The Society of Singularities (2020)6, il teorico sociale Andreas Reckwitz sostiene che il nuovo “capitalismo culturale” che gestisce le nostre società contemporanee pone sempre più l’accento su ciò che l’establishment valuta come singolare e unico. Le società industriali dell’inizio del XX secolo producevano prodotti, città, soggetti e organizzazioni standardizzati che tendevano ad avere lo stesso aspetto, ma nelle nostre società tardo-moderne i guru del marketing e della moda hanno condotto ai consumatori a dare valore a ciò che appare e viene venduto come eccezionale. Oggetti, esperienze, luoghi, individui, eventi e comunità vengono stilizzati e impacchettati come “unici” e oltre l’ordinario industriale, rivendicando così una certa autenticità. In termini accademici politicamente corretti si dovrebbe dire che la logica dello standard della società industriale è stata sostituita [deus ex machina] dalla logica del particolare della tarda modernità.
Si può postulare, utilizzando lo stesso registro di Reckwitz, che una più ampia “rivoluzione dell’autenticità” abbia investito il mondo negli ultimi 40 anni e che la scala dei valori si sia spostata lontano da tutto ciò che sia standardizzato e regolare verso oggetti, immagini, servizi ed eventi che sono considerati unici e singolari. Si pensi alla moda del pane e alla birra cosiddetti artigianali, destinazioni di viaggio etichettate come fuori dai sentieri battuti, alle cosiddette diversità locali, ai profili online e playlist di Spotify, all’auto-monitoraggio e al lifelogging7, ai prodotti con “storie” e agli spazi con “atmosfere”. La lista è infinita, soprattutto tra le classi medie istruite nel mondo delle tecnologie dell’informazione. Un’enorme energia è ora diretta a far sembrare le cose “autentiche”, cioè particolari e distintive, distanti dal tipico, dall’ordinario, dal prodotto in serie. La cosiddetta “unicità” ha ottenuto uno status sociale e un valore propri.
La trasformazione dal capitalismo industriale a quello culturale, l’ascesa delle tecnologie digitali e della loro “macchina della cultura” e l’emergere di una nuova classe media urbana istruita nelle tecnologie dell’informazione costituiscono un potente motore per la diffusione di un’ideologia della singolarizzazione nel sociale. Nella tarda modernità, ciò che appare singolare viene valorizzato e trasporta gli individui a esperire emozioni, mentre ciò che rimane standard resta sullo sfondo e questo, stando ad alcuni studiosi, avrebbe profonde conseguenze sociali. Di fatto, come sostiene Reckwitz la società delle singolarità produce sistematicamente svalutazione e disuguaglianza. I mercati che vincono si prendono il tutto, la polarizzazione del lavoro, l’abbandono delle regioni rurali e l’alienazione della classe media tradizionale. L’emergere del populismo e l’ascesa di forme aggressive di nazionalismo che enfatizzano l’autenticità culturale del proprio popolo rivelano così l’altra faccia della singolarizzazione.
Nel capitalismo culturale “autenticità” diventa obbligo
L’alto status accordato a ciò che si ritiene sia singolare, sostiene Reckwitz, include le persone. Ad ogni persona è richiesto di distinguersi dalla massa per ottenere qualcosa di speciale e straordinario, aggiunge Joseph Davis. L’autenticità è diventata un obbligo. Reckwitz cattura questo enigma con il concetto paradossale di “autenticità performativa”. L’autenticità, in questo senso, è il modo di essere perché essere “qualcuno” significa sviluppare il cosiddetto proprio sé unico, la propria diversità dagli altri e la propria vita non intercambiabile. Essere soltanto nella media o ben adattato o senza un portafoglio coltivato di competenze speciali e qualità attraenti, costituisce, nella retorica del capitalismo culturale, un segno di fallimento – un segno di inautenticità – indipendentemente dalla propria vita interiore e dal singolare rapporto con sé stesso.
L’obbligo sociale dell’autenticità performativa risulta legato al successo economico e al prestigio sociale, il che significa – e questa costituisce un’ulteriore caratteristica paradossale – che la propria particolarità e autorealizzazione devono essere eseguite. Con questa psicopolitica a monte, affinché le persone possano distinguersi, devono cercare attenzione e visibilità e influenzare positivamente gli altri con le loro rappresentazioni di sé, le caratteristiche personali e la qualità della loro vita. In tal modo, devono fare molta attenzione che la loro performance non sia percepita come messa in scena. Per essere “autentici” – genuini – si deve dare l’impressione di essere semplicemente sé stessi. Lo sforzo deve apparire senza sforzo, altrimenti si ritorce contro.
Il paradigma dell’autenticità performativa condivide con le concezioni più antiche e interiori di autenticità l’idea che ognuno di noi abbia il proprio modo unico di essere al mondo, concezioni di matrice cristiana, collegata all’idea dell’anima, oppure di matrice greca in riferimento all’idea del dèmone. Ma i concetti altrimenti divergono. L’ideale interiore mira a un modo di essere non finto e senza inganno dei sensi. Resiste alla coltivazione di un pubblico di followers, perché essere una persona “intera”, con una relazione non strumentale con sé stessi e gli con altri risulta, spesso, in contrasto con le esigenze della società. Il vantaggio sarebbe una vita più consapevole e riflessiva,8 ma c’è sempre il rischio di pagare un prezzo per vivere autenticamente in termini di minore riconoscimento sociale e successo esteriore. L’autenticità così intesa, si può dire con certezza, non è mai stata una “parola d’ordine tra i leader organizzativi” che divulgano i valori della psicopolitica dell’establishment.
Nella modalità esistenziale performativa che l’establishment richiede al consumatore cittadino, al contrario, questa tensione tra il sé e la società scompare. L’auto-elaborazione o elaborazione di sé stessi richiede ancora un esame di coscienza piuttosto comportamentale ma non necessariamente di tipo interiore oppure estetico (“la vita come opera d’arte”). Nell’elaborazione di un profilo performativo di sé stessi si rende necessario qualcosa di più simile a un inventario e alcune scuole di psicologia popolare e di autoaiuto in realtà raccomandano che il modo per conoscere sé stessi non sia attraverso la riflessione personale, ma convocando un focus group di coloro che hanno familiarità con la propria personalità, i propri desideri e talenti – “mi piace” e altri feedback sui social media servono a questo scopo. I tratti personali utili vengono coltivati in interazione con l’appropriazione di oggetti, esperienze, stili e identità insoliti o insolitamente combinati: una razza rara di cani, tecniche di cucina speciali, l’ermetica conoscenza dei marchi di scarpe da ginnastica, uno stile musicale insolito, un nuovo orientamento sessuale, e così via. Insieme, vengono utilizzati come base per comporre e curare la propria unica differenza. Ma questa differenza non ha significato o valore di per sé; essa raggiunge valore, conta come autenticità solo quando è socialmente riconosciuta come tale – come originale, interessante, complessa – e porta stima e successo tangibile.
L’identità performativa è un ulteriore volo nell’atomismo9 e lontano da fonti stabili di significato
Essere (o meglio, apparire) differente non è, ovviamente, un gioco a somma zero10, come sostiene J Davis. I mercati e le tecnologie digitali hanno notevolmente ampliato l’infrastruttura delle possibilità. L’impresa di apparire (o di essere) differente e unico, però, comporta una competizione per la scarsa attenzione. Tale gara richiede valutazioni e feedback continui e offre poca tregua. Come con le mode, c’è una pressione verso ciò che viene immesso in circolazione come nuovo e innovativo e ciò che era ritenuto unico un giorno potrebbe essere un luogo comune il giorno successivo. Anche se si ottiene un buon risultato con la performance di un giorno si deve essere flessibili, pronti a reinventare la propria differenza una volta che l’immagine che era stata appena costruita diventa scaduta, correndo costantemente il rischio di diventare poco appariscenti.
Date le forti differenze di entrambe le prospettive, possiamo vedere come l’autenticità possa essere contemporaneamente in declino nella modalità interiore e in ascesa nella sua modalità performativa. L’evidenza del declino dell’una potrebbe essere un segno dell’ascesa dell’altra. Alla luce dell’auge della modalità performativa quale totem del capitalismo culturale, si piò capire perché Marino consideri che l’autenticità nella modalità interiore si sta perdendo. Stando alle sue parole “ognuno è diventato il proprio pubblicista impudente”. Possiamo capire questa sostituzione dell’autenticità intesa in termini di vita interiore perché, come documenta Davis nelle sue interviste, la gente non pone più l’enfasi sulla necessità di introspezione e, contrariamente, si biasima, non proprio per essere troppo presa dalle superficialità della società, ma per non riuscire a soddisfare i suoi imperativi di successo. Stando a J Davis, nel concettualizzare la pratica del sé e la sua relazione con una buona vita e una buona società, i due modi sono quasi opposti allo specchio.
Nella sua critica al disagio della postmodernità, The Ethics of Authenticity11, Taylor sostiene che la nostra cultura contemporanea dell’autorealizzazione e della scelta illimitata sia costruita, in parte, su modalità di autenticità “banalizzate” ed “egocentriche”. La modalità performativa è, semmai, un ulteriore volo nell’atomismo o disgregazione e lontano da strutture e fonti di significato stabili. Ma il problema è più profondo poiché la dimostrazione di “unicità” o, accettando i termini, di “essere speciale” è incorporata negli standard di successo. La modalità performativa o l’espressione di una personalità di alte prestazioni favorisce una forma distaccata di autoconsapevolezza che potenzialmente misura tutto in termini di valore strategico per visibilità, riconoscimento e ricompensa. E, conoscendo il gioco, si alimenta il senso scettico che le azioni di tutti gli altri portino un ulteriore intento manipolativo. In tali circostanze, il semplice discorso di essere noi stessi diventa, paradossalmente, una veste, dietro la quale ci modelliamo per essere catalogati nella scala dei valori mondani come qualcuno che conta.
A parere di Joseph Davis, la modalità performativa favorisce un profondo isolamento e un senso di insicurezza. Questa modalità cattura molti degli standard normativi rispetto ai quali le persone che lui ha intervistato si sono valutate e si sono trovate carenti: non erano abbastanza estroverse, abbastanza positive, non erano altamente performative, passavano dalla perdita o dalla sconfitta abbastanza velocemente, organizzando le loro relazioni intime abbastanza contrattualmente. Alla fine realizzavano che non erano “speciali” ma ordinari col timore di essere etichettati come “perdenti”. Quello che Davis ha trovato nelle sue ricerche conferma l’affermazione di Reckwitz secondo cui la richiesta di distinguersi e dimostrare il proprio valore è “un generatore sistematico di delusione” e ciò ci aiuta a spiegarci gli alti livelli di disturbo psicologico di oggi.
Taylor suggerisce che per affrontare modalità performative di autenticità e aprire uno spazio per considerare concezioni alternative dovremmo ricordare a noi stessi quelle caratteristiche della condizione umana che mostrano che le modalità performative, prima o poi, ci risultano vuote. Un punto di partenza, seguendo la guida Julian Baggini, potrebbe essere con il filosofo Søren Kierkegaard chi ci ricorda che la nostra condizione esistenziale si rivela a noi più chiaramente quando le nostre vite non sono al riparo, quando ci troviamo faccia a faccia con la nostra vulnerabilità, la nostra dipendenza, i nostri limiti e con l’apparente insensatezza di tutto ciò. Infatti, è proprio quando le circostanze mandano in frantumi la facciata che proponiamo agli altri quando il nostro sé profondo e crudo viene messo a nudo. Proprio qui è dove interviene Kierkegaard. Se vogliamo vivere in modo autentico, inteso nei termini dell’esistenzialismo, non esiste una guida più saggia.
Epifanie che modificano la vita
Quando si tratta di vivere non è possibile uscirne vivi. Ma i pensieri degli altri possono aiutarci a vivere, per così dire, trasmettendo ciò che questi pensatori considerano sia più importante per l’uomo prima di morire. Søren Kierkegaard, Frederick Nietzsche, Jean-Paul Sartre e altre figure di rilievo dell’esistenzialismo hanno considerato che noi umani siamo, in fondo, esseri lunatici, suscettibili a una serie di battute d’arresto psicologiche, crisi di fede, voli di fantasia e altri alti e bassi emotivi. Piuttosto che comprendere gli stati d’animo difficili come afflizioni da trattare con farmaci, questo gruppo di pensatori, generalmente noti per l’appunto come esistenzialisti, credeva che tali sentimenti non solo offrissero occasione per fare esperienze durature sul vivere una vita di integrità ma, anche, scintilla per ispirare lo sviluppo psicologico e la trasformazione personale. Ascoltare Kierkegaard e gli altri sopracitati discorrere circa il modo di affrontare questi sentimenti difficili modella chi siamo, come agiamo e, in definitiva, il tipo di vita che conduciamo. Ascoltando loro ciò che emerge possono essere considerate epifanie che modificano la vita e, in alcuni casi, salvavita o semplici suggerimenti vitali per vivere con integrità, coraggio e autenticità in un’epoca sempre più caotica, incerta e inautentica.
______________Note _________________
1 La precisa datazione dei primi esemplari definibili sapiens, tradizionalmente posta a circa 130 000 anni fa, è stata spostata dalle scienze paleontologiche più indietro nel tempo, grazie a ritrovamenti nei tufi vulcanici della valle del fiume Omo in Etiopia. Per mezzo di tecniche basate sui rapporti fra gli isotopi dell’argon, alcuni reperti anatomicamente simili all’uomo moderno sono stati datati a 195 000 anni fa, con un’incertezza di ±5 000 anni. Nuove datazioni del 2017 su ritrovamenti rinvenuti nel 1961 nel sito archeologico di Jebel Irhoud in Marocco, sposterebbero l’origine dell’Homo sapiens a circa 300 000 anni fa. I. McDougall, F. H. Brown e J. G. Fleagle, Stratigraphic placement and age of modern humans from Kibish, Ethiopia, in Nature, vol. 433, n. 7027, 2005, pp. 733–736 & Ewan Callaway, Oldest Homo sapiens fossil claim rewrites our species’ history, in Nature, 7, 2017
2 Joseph E Davis. Chemically Imbalanced: Everyday Suffering, Medication, and Our Troubled Quest for Self-Mastery. University of Chicago Press, 2020
3 Gordon Marino. The Existentialist’s Survival Guide: How to Live Authentically in an Inauthentic Age. Harper Collins, 2018
4Charles Guignon. On Being Authentic. Routledge, 2004
5 Charles Taylor. Sources of the Self: The Making of Modern Identity. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press. 1989
6 Andreas Reckwitz. The Society of Singularities. Wiley, 2020
7 Una vita è una registrazione personale della propria vita quotidiana in una quantità variabile di dettagli, per una varietà di scopi. Il record contiene un set di dati completo delle attività di un essere umano. I dati potrebbero essere utilizzati per aumentare la conoscenza di come le persone vivono la propria vita.
8 Reckwitz rimanda al concetto socratico di “vita esaminata”, che dovrebbe portare, secondo quello che diceva Aristotele ad una “cittadinanza riflessiva”, cioè ad una cittadinanza che non segue schemi prefissati ma che cambia prospettive.
9 Dottrina filosofica per cui particelle materiali assolutamente indivisibili (atomi), qualitativamente uguali, aggregandosi e disgregandosi nel movimento universale, costituiscono la realtà e il suo divenire. L’atomismo è nato nella Grecia “ionica” (coste dell’attuale Asia Minore) probabilmente verso la fine del VII secolo a.C. Esso si profila in modo netto solo nel secolo successivo grazie Democrito. L’atomismo non si limita ad essere un’ontologia, ma ha sia in Democrito che in Epicuro dei risvolti etici molto importanti. Bisogna notare che il pluralismo ontologico espresso nel mondo ionico si oppone decisamente al monismo religioso di Senofane e al monismo metafisico di Parmenide.
10 In teoria dei giochi, un gioco a somma zero descrive una situazione in cui il guadagno o la perdita di un partecipante è perfettamente bilanciato da una perdita o un guadagno di un altro partecipante in una somma uguale e opposta.
11 Charles Taylor. The Ethics of Authenticity. Harvard University Press. 2018