BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno VII • Numero 27 • Settembre 2018
Scritto in collaborazione con Eugenia D’Alterio – biologa
L’auto-critica nella prospettiva evoluzionistica
Siamo i peggiori critici di noi stessi. Tale asserzione può essere intesa come un cliché, tuttavia, gli psicologi evoluzionisti continuano a studiare la nostra “naturale polarizzazione verso la negatività” [o NEGATIVITY BIAS],1 cioè quell’istinto, in tutti noi, che rende le esperienze negative più significative di quanto siano in realtà. In altre parole, l’ipotesi su cui si indaga è quella che postula che nell’evoluzione il nostro cervello si è strutturato dando più peso ai nostri difetti, errori e carenze rispetto ai nostri successi.2
L’auto-critica può incidere sulle nostre menti e sui nostri corpi. Può, anche, portare a pensieri ruminanti che interferiscono con la nostra produttività e può perfino influire sulla nostra salute stimolando i meccanismi infiammatori che portano a malattie croniche e accelerano l’invecchiamento.3 Questa, per fortuna, non sembra essere l’unica fine della storia. Ci sono modi per aggirare il nostro “favoreggiamento della negatività” e trasformare l’auto-critica in opportunità di apprendimento e consapevolezza di sé. Ma prima di suggerire qualche spunto di “redenzione”, cerchiamo di descrivere come si arriva ad essere così duri con noi stessi. Per prima cosa, dobbiamo pensare all’evoluzione che ne è stata la causa.
L’evoluzione: errore e sopravvivenza
Il nostro cervello è dotato da un meccanismo per monitorare la nostra mente e il nostro comportamento4 in modo che quando commettiamo errori, possiamo notarlo. Al fine di ricuperare, dobbiamo prima accertarci che si sia verificato un errore. Osservare, con senso di responsabilità, che abbiamo deviato dalle nostre aspettative o dai nostri obiettivi – sia che si tratti di aver mangiato troppo o di non aver completato la lista di cose da fare – non è necessariamente la stessa cosa di degradarci in una spirale di vergogna. In alcuni casi, però, come quando sono in gioco la nostra sicurezza o integrità fisica e/o morale, è fondamentale che il nostro cervello elabori, efficacemente, la differenza tra “bene” e “male”, così da portarci alle giuste lezioni dalle nostre esperienze.
Ma a volte, questo meccanismo di adattamento evolutivo, che assegna un valore negativo alle nostre esperienze e comportamenti che deviano da ciò che è utile alla sopravvivenza, può “irretirci” in cicli di rimuginazione inutile5 – come quando si giace a letto di notte ripetendo, inutilmente, un’interazione imbarazzante o ripetendo di nuovo quel piccolo refuso. È qui che entriamo nel lato dannoso e controproducente dell’istinto [o meccanismo] dell’auto-critica. Quel tipo di auto-critica che può avere effetti misurabili distruttivi, inclusi sintomi di depressione, ansia, abuso di sostanze, immagine negativa di sé e, in una svolta particolarmente viziosa, diminuzione della motivazione e della produttività.6 L’auto-critica che risulta da una forte introiezione dell’intensificazione dell’errore può portare le persone ad essere concentrate, esclusivamente, sul fallimento.7 Picchiarci per aver finito soltanto tre dei cinque elementi nella lista delle cose da fare ci rende meno sereni per finire gli ultimi due elementi eppure siamo “programmati” per cadere in quel modello.
Il bias negativo del nostro cervello opera in ogni ambito della nostra vita
Perché gli insulti, una volta scagliati contro di noi, rimangono nel nostro cranio, a volte per decenni? Perché alcune persone devono lavorare molto duramente per scongiurare la depressione? La risposta è, per lo stesso motivo per cui le campagne politiche centrate sulla denigrazione superano quelle positive. La cattiveria ha un impatto maggiore sul nostro cervello. E questo è dovuto alla “naturale polarizzazione verso la negatività” [NEGATIVITY BIAS] dello stesso: il nostro cervello è semplicemente “costruito” con una maggiore sensibilità a notizie spiacevoli. La parzialità [BIAS] è così automatica che può essere rilevata nella fase iniziale dell’elaborazione delle informazioni direttamente del nostro cervello.8
Prendiamo, per esempio, gli studi fatti da John Cacioppo.9 Nelle sue ricerche egli ha mostrato alle persone immagini note per suscitare sensazioni positive (ad esempio, una Ferrari o una pizza), immagini note per suscitare sensazioni negative (ad esempio, una faccia mutilata o un gatto morto) e immagini note per produrre sentimenti neutri (come, ad esempio, un asciugacapelli). Nel frattempo, egli registrava l’attività elettrica della corteccia cerebrale del cervello, corteccia che riflette la grandezza dell’elaborazione delle informazioni in atto. Il cervello, ha documentato Cacioppo, reagisce più fortemente agli stimoli che ritiene negativi. Infatti, quando sottoposta ad uno stimolo negativo, nella corteccia cerebrale c’è una maggiore ondata di attività elettrica. Pertanto, i nostri atteggiamenti sono maggiormente influenzati dalle notizie negative che dalle buone notizie. La nostra capacità di pesare input così fortemente negativi probabilmente si è evoluta per una buona ragione: tenerci lontani dal pericolo. Dall’alba della storia umana, la nostra stessa sopravvivenza dipende dalla nostra abilità nel schivare il pericolo. Il cervello, infatti, ha sviluppato sistemi che rendono inevitabile per noi non notare il pericolo e, quindi, sistemi che consentono, si spera, di rispondere ad esso.
Avere l’apparato supersensibile alla negatività incorporato nel cervello significa che la stessa polarizzazione verso la negatività [NEGATIVITY BIAS] è all’opera in ogni ambito della nostra vita in ogni momento. Quindi, non dovrebbe sorprendere sapere che ciò gioca un ruolo particolarmente potente nelle nostre relazioni più intime. Numerosi ricercatori hanno documentato che esiste un equilibrio ideale tra negatività e positività nell’atmosfera tra i partner.Sembra esserci una specie di termostato che opera nei matrimoni sani che regola automaticamente l’equilibrio tra positivo e negativo.10
Ciò che separa veramente le coppie soddisfatte da quelle che vivono in profonda miseria coniugale è un sano equilibrio tra i loro sentimenti e le loro azioni positive e negative. Anche le coppie che sono instabili e che discutono molto rimangono insieme bilanciando i loro frequenti argomenti con molte dimostrazioni di amore e (com)passione. E sembrano sapere, esattamente, quando sono necessarie azioni positive.11
Ecco la parte difficile. A causa del peso sproporzionato del negativo, l’equilibrio non significa un 50-50%. I ricercatori hanno accuratamente studiato la quantità di tempo che le coppie trascorrono sia combattendosi negativamente sia interagendo positivamente tra loro. Alla fine hanno potuto documentare che esiste un rapporto molto specifico tra la quantità positiva e negativa richiesta per rendere la vita di coppia soddisfacente per entrambi i partner. Tale rapporto magico è stato, secondo queste ricerche, cinque a uno. Cioè, finché ci sono stati cinque volte più sentimenti e interazioni positive tra i partner che sentimenti e interazioni negative, la coppia è rimasta stabile nel tempo. Al contrario, quelle coppie che si stavano dirigendo verso la dissoluzione del rapporto stavano facendo troppo poco sul lato positivo per compensare la crescente negatività tra loro.12
Altri ricercatori hanno trovato gli stessi risultati in altre sfere della nostra vita. Ciò che conta di più, in un rap- porto di circa cinque a uno, è la frequenza di piccoli atti positivi. Grandi esperienze positive occasionali, ad esempio, un compleanno, sono belle ma non hanno l’impatto necessario sul nostro cervello per scavalcare l’inclinazione verso la negatività. Inclinare la bilancia verso un rapporto equilibrato soddisfacente per entrambi i partner richiede frequenti piccole esperienze positive.
L’auto-compassione e la naturale polarizzazione verso la negatività
Cosa possiamo fare in una situazione che sembra un circolo vizioso: siamo evolutivamente predisposti ad essere critici inflessibili verso i nostri fallimenti eppure comportandoci in questo modo otteniamo l’effetto opposto a quello desiderato. una possibile soluzione, secondo Kristin Neff,13 sarebbe l’auto-compassione, cioè la pratica di essere gentili e di comprendere se stessi di fronte a un difetto o fallimento personale. la sua ricerca mostrerebbe che la barriera numero uno alla compassione di sé è la paura di essere auto-compiacenti e di perdere il vantaggio offertoci, inizialmente, dal meccanismo evolutivo dell’auto-critica [inflessibile] verso l’errore. la ricerca in materia sembra documentare, paradossalmente, che l’auto-compassione può portare a risultati più grandi di quanto l’auto-critica possa mai fare.14
In effetti, diversi studi hanno cercato di documentare che l’auto-compassione funziona come sostegno per la motivazione e il cambiamento positivo. in uno studio recente i ricercatori hanno fornito documentazione a favore dell’ipotesi che “l’auto-compassione porta a un maggior miglioramento personale, in parte, attraverso un’accresciuta accettazione”, e che concentrarsi sull’auto-compassione “stimola l’adattamento positivo di fronte ai rimpianti”.15 questo è, ovviamente, più facile a dirsi che a farsi. ma il nucleo dell’auto-compassione è quello di evitare di essere coinvolti nei nostri errori ed essere ossessionati da loro, fino al punto di degradarci, e aiutarci a sforzarci per lasciarli andare, così da poter passare alla prossima azione produttiva da un luogo di accettazione e chiarezza.
Quando ci lasciamo prendere dal pensiero auto-referenziale accade che possiamo rispondere con rimuginazione, preoccupazione, senso di colpa o auto-giudizio poiché si attivano le reti cerebrali auto-referenziali.16 Quando lasciamo andare quel chiacchiericcio mentale e ci addolciamo, queste stesse regioni cerebrali si calmano.17 lo sviluppo di un approccio di auto-compassione e di lasciare andare però si avvia soltanto con la pratica dell’auto-compassione.
Tre passi verso l’auto-compassione
Un primo passo verso l’auto-compassione,18 suggerito da studiosi come Richard Davison, Daniel Goleman, Judson Brewer, Kristin Neff e Sharon Begley, è quello di provare un nuovo approccio al pensare a noi stessi, cioè di impegnarci a trattare noi stessi gentilmente, lasciando andare l’auto-critica e mettendoci comodi con noi stessi. In breve, il primo passo è quello di praticare l’auto-compassione.
Per rinforzare “il muscolo dell’auto-compassione” il neuro scienziato Judson Brewer suggerisce qualsiasi tipo di pratica che ci aiuti a rimanere nel momento e a notare come ci si senta quando si è in preda all’auto-critica flagellante, comparando quanto ciò è doloroso rispetto ad essere gentili con noi stessi. Una delle pratiche più portabili e basate sull’evidenza per notare i nostri pensieri e imparare a lasciarli andare è la meditazione.19 La meditazione di consapevolezza implica ancorare la nostra attenzione sul respiro come strumento per rimanere presenti senza perderci nei giudizi, nelle storie e nelle ipotesi.20
Un’altra modalità suggerita dagli studiosi per interrompere la spirale dell’auto-critica spietata è quella di concentrare le nostre energie su qualcosa di esterno a noi di cui possiamo prendercene cura e che possa aiutarci a stabilire una prospettiva e un senso di significato al di là di noi stessi. Questo volontariato può contribuire a sollevare le voci negative che assordano la nostra testa.21
Il secondo passo verso l’auto-compassione è saper accogliere il nostro comportamento auto- critico con gentilezza. Se il nostro inflessibile sé auto-critico ci dice che non abbiamo alcun valore dovremmo avviare la nostra risposta promemoria che ci dice che stiamo facendo del nostro meglio e che tutti facciamo errori.
Ma è il terzo passo, secondo il Dr. Brewer22, che è molto importante se si vuole rendere sostenibile la svolta a lungo termine: compiere uno sforzo consapevole e cosciente per riconoscere la differenza tra come ci si sente quando si è coinvolti nell’autocritica e come ci si sente quando si può lasciarla andare. È qui che si inizia ad hackerare il sistema di apprendimento basato sulla ricompensa, secondo Brewer.23
Una parte del nostro cervello, chiamata corteccia orbito-frontale24, è, secondo il Dr. Brewer, sempre alla ricerca del “BBO – THE BIGGER BETTER OFFER / l’offerta migliore e più grande”. Nella corteccia orbito-frontale si effettuano operazioni decisionali a basi fisiologiche. In quest’area del cervello si effettuano operazioni di confronto del tipo “X o Y”, e se Y è più piacevole o meno doloroso, quest’area imparerà ad andare d’accordo con Y.
Pensiamo in questo modo: quanto meglio ci si potrebbe sentire a prendere fiato, dopo aver commesso un errore, piuttosto che rimproverarci? Questo è il fulcro dell’essere gentili con noi stessi: esercitiamoci su come ci si sente a trattare se stessi come si potrebbe trattare un amico. La sostituzione della compassione all’auto-abuso richiede pratica fino a che diventa un’abitudine regolare.25
Quindi, la prossima volta che ci troviamo sul punto di sprofondare in una spirale di commiserazione, pensia-mo a come ci comporteremmo compassionevolmente con un amico che si trovasse nella nostra situazione e cerchiamo di imparare ad introiettare questo comportamento. Facciamolo fino ad osservare che rispondiamo alla ricompensa derivata dall’auto-compassione.
- Hara Estroff Marano. Our Brain’s Negative Bias. Why our brains are more highly attuned to negative news. In Psychology Today. Published June 20, 2003 – last reviewed on June 9, 2016.
- Divya Kannan & Heidi M. Levitt. A Review of Client Self-Criticism in Psychotherapy. Journal Of Psychotherapy Integration, vol. 23, No. 2, 166-178,2013.
- Ibidem
- Ibidem
- Divya Kannan & Heidi M. Levitt. A Review of Client Self-Criticism in Psychotherapy. Journal Of Psychotherapy Integration, vol. 23, No. 2, 166-178,2013.
- Theodore A. Powers, Richard Koestner, David C. Zuroff, Marina Milyavskava & Amy A. Gorin. The Effects of Self-Criticism and Self-Oriented Perfectionism on Goal Pursuit. In Personality and Social Psychology Bulletin. June 1, 2011, vol. 37, Issue 7, pp. 964-975.
- Hara Estroff Marano. Our brain’s negative bias. Why our brains are more highly attuned to negative news. In Psychology Today. June 20, 2003 – last reviewed on June 9, 2016.
- Hara Estroff Marano. Our brain’s negative bias. Why our brains are more highly attuned to negative news. In Psychology Today. June 20, 2003 – last reviewed on June 9, 2016.
- John Cacioppo & William Patrick. Loneliness: Human Nature and the Need for Social Connection. W.W. Norton & Co, 2008. Elaine Hatfield , John T. Cacioppo, Richard L. Rapson. Emotional Contagion – Studies in Emotion and Social Interaction. Cambridge University Press, 1993.
- Ibidem
- Ibidem
- Kristin Neff Self-Compassion: The Proven Power of Being Kind to Yourself. Harper, 2015.
- Ibidem
- Theodore A. Powers, Richard Koestner, David C. Zuroff, Marina Milyavskava & Amy A. Gorin. The Effects of Self-Criticism and Self-Oriented Perfectionism on Goal Pursuit. In Personality and Social Psychology Bulletin. June 1, 2011, vol. 37, Issue 7, pp. 964-975.
- Judson Brewer. The Craving Mind: From Cigarettes to Smartphones to Love – Why We Get Hooked and How We Can Break Bad Habits. Yale University Press, 2017.
- Ibidem
- Daniel Goleman & Richard J. Davidson. Altered Traits: Science Reveals How Meditation Changes Your Mind, Brain, and Body. Penguin, New York,2017.
- Shahar B, Szsepsenwol O, Zilcha-Mano S, Haim N, Zamir O, Levi-Yeshuvi S, Levit-Binnun N. A wait-list randomized controlled trial of loving-kindness meditation programme for self-criticism. In Clinical Psychology and Psychotherapy, vol. 22, issue 4, pp. 346-56, 2015.
- Shahar B, Szsepsenwol O, Zilcha-Mano S, Haim N, Zamir O, Levi-Yeshuvi S, Levit-Binnun N. A wait-list randomized controlled trial of loving-kindness meditation programme for self-criticism. In Clinical Psychology and Psychotherapy, vol. 22, issue 4, pp. 346-56, 2015.
- Daniel Goleman & Richard J. Davidson. Altered Traits: Science Reveals How Meditation Changes Your Mind, Brain, and Body. Penguin, New York,2017.
- Judson Brewer. op. cit.
- Ibidem
- Ibidem
- Superficie inferiore del lobo frontale sovrastante le orbite oculari. Insieme alle altre aree della corteccia prefrontale, a quella orbito-frontale sono legate le capacità di prestare attenzione, di formulare programmi per il futuro, di iniziativa, di approfondimento del pensiero e il controllo di alcuni aspetti della personalità; essa svolge, soprattutto, una funzione di filtro attentivo, inibendo le informazioni e gli stimoli meno rilevanti per il compito in atto. Tale corteccia, inoltre, riceve informazioni nervose dal talamo dorso-mediale, dalla corteccia temporale, dall’area tegmentale ventrale, dal sistema olfattivo e dall’amigdala. La percezione gustativa dipende, molto probabilmente, dall’integrazione di molte informazioni (non solo gustative elementari, ma anche olfattorie, tattili, termiche ecc.) che avviene a livello dell’insula e della corteccia orbito-frontale. Essa svolge un ruolo nel controllo delle emozioni e della motivazione, per cui le lesioni di quest’area producono perdita delle inibizioni e dell’autocontrollo, e i pazienti diventano del tutto indifferenti alle conseguenze delle proprie azioni. A disfunzioni della corteccia orbitaria sono attribuiti anche disturbiemotivi, come il disturbo bipolare e il disturbo ossessivo-compulsivo.
- Kristin Neff. Self-Compassion: The Proven Power of Being Kind to Yourself. Harper, 2015.