A volte sbagliamo proprio nel tentativo di fare del nostro meglio. Nel tentativo di proteggere i propri figli dai mali del mondo, alcuni genitori finiscono per esercitare un controllo eccessivo che lascia tracce profonde, ben oltre l’infanzia. Non si tratta soltanto di un’impressione o di una generalizzazione sociologica: oggi la ricerca neuroscientifica comincia a dimostrare che certe forme di accudimento iperprotettivo, in particolare da parte della madre, sono associate ad alterazioni nella connettività cerebrale anche in individui adulti sani.
Il controllo genitoriale come trauma
Per decenni il concetto di trauma infantile è stato associato quasi esclusivamente a forme evidenti di abuso o negligenza. Ma la letteratura recente ha cominciato a includere anche esperienze relazionali più sottili, come l’ipercontrollo da parte dei genitori. Questo comportamento, definito da un’interferenza persistente sull’autonomia emotiva e cognitiva del bambino, sembra in grado di indurre un vissuto costante di minaccia e vulnerabilità. E se i sintomi psicologici erano già noti — ansia, depressione, alterata regolazione emotiva — oggi è possibile osservarne anche le tracce nel cervello.
Lo studio: come il cervello reagisce al controllo eccessivo
I ricercatori hanno condotto uno studio su 71 giovani adulti sani, sottoponendoli a una valutazione tramite elettroencefalogramma (EEG) in stato di riposo. L’obiettivo era analizzare la connettività funzionale tra le principali reti cerebrali coinvolte nei processi cognitivi ed emotivi, note come “triple network”: la default mode network (DMN), la salience network (SN) e la central executive network (CEN).
Attraverso l’analisi EEG, i ricercatori hanno rilevato un incremento anomalo della connettività in banda theta tra due nodi cruciali di queste reti: l’insula anteriore destra (AI) e la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra (dlPFC). L’insula è nota per il suo ruolo nell’elaborazione di stimoli salienti – interni ed esterni – e nell’anticipazione delle minacce; la dlPFC è invece coinvolta nella regolazione cognitiva, nel decision-making e nella pianificazione delle azioni.
In questo senso, un legame rafforzato tra queste due aree potrebbe riflettere una tendenza del cervello a prepararsi costantemente a gestire stimoli percepiti come potenzialmente pericolosi, anche in assenza di reali minacce.
Il controllo materno si scrive nelle onde theta
Un aspetto cruciale emerso dallo studio è che questa anomalia nella connettività funzionale era associata esclusivamente al controllo materno, e non a quello paterno. La specificità del dato è coerente con precedenti ricerche (Adenzato et al., 2019) che già avevano osservato un’alterazione funzionale cerebrale correlata unicamente alla componente materna del controllo genitoriale.
Inoltre, l’attività anomala riscontrata si manifestava nella banda theta, una frequenza non dominante durante lo stato di riposo. È noto infatti che un’eccessiva sincronizzazione theta in condizioni di riposo è stata associata in passato a diversi disturbi psicopatologici (Perrottelli et al., 2021), suggerendo che la tendenza all’ipercontrollo materno possa lasciare una sorta di “firma” neurofisiologica, visibile anche in soggetti non clinici.
L’eredità? Più allerta, meno serenità
La connettività SN-CEN alterata potrebbe rappresentare un meccanismo di iperallerta interna, un adattamento inconscio a un ambiente percepito come imprevedibile o minaccioso. Un meccanismo che, sebbene utile in situazioni di pericolo reale, può risultare disfunzionale nella quotidianità, influenzando la regolazione emotiva, la gestione dell’ansia e le relazioni sociali.
Sebbene lo studio presenti alcune limitazioni – tra cui l’uso esclusivo di misurazioni self-report e l’analisi di un campione non clinico – apre nuove prospettive per comprendere come lo stile genitoriale incida sulla struttura e sul funzionamento cerebrale. In particolare, rafforza l’ipotesi secondo la quale il controllo genitoriale eccessivo – spesso escluso dalle categorie tradizionali del trauma – debba essere considerato una forma a sé di trauma relazionale, con effetti duraturi sul piano neurobiologico.
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