Note sulla gentilezza

5 Luglio, 2020
Tempo di lettura: 3 minuti

Provo sempre una certa esitazione, quando parlo o scrivo su temi sui quali non si può non essere d’accordo: il rischio della retorica è infatti sempre molto alto. Chi non tesserebbe le lodi della gentilezza? Scopro che c’è persino una Giornata Mondiale della Gentilezza; e mi preoccupo, perché quando si ritualizza qualcosa la si svuota sempre un po’ di significato (mi consolo perché la ricorrenza in questione è il 13 novembre, che è anche l’anniversario della mia laurea…).

Gentilezza delizia del genere umano

“La gentilezza è la delizia più grande dell’umanità”, scriveva nel II secolo Marco Aurelio, imperatore romano nonché filosofo stoico. In epoca contemporanea, dobbiamo all’approccio neo-stoico di Martha Nussbaum riflessioni imprescindibili sulla virtù della compassione. Una prima distinzione la farei dunque tra buone maniere, a rischio di formalismo e affettazione, e gentilezza come esito di una pratica filosofica che oltrepassi il precetto morale per raggiungere una posizione etica. In altre parole, dalla sfera dei regolamenti si approda alla sfera psicologica e filosofica. Intendiamoci, se osserviamo la pubblica maleducazione esibita per esempio nei dibattiti televisivi, non ultimi quelli che hanno visto virologi più o meno competenti fronteggiarsi come galli da combattimento, verrebbe da accontentarsi di un recupero di un po’ di garbo e di cortesia.

Gentilezza non è buonismo

Per non scadere in un “buonismo intellettualistico”, ci conforta anche il sostegno della scienza: da un trentennio, difatti, la scoperta da parte della scuola di Parma (Rizzolatti et al.) del gruppo di neuroni motori che si attivano di fronte ai comportamenti altrui, definiti significativamente neuroni-specchio, ha posto le basi per dare una copertura teoretica al fenomeno dell’empatia. Voglio riportare a questo proposito il pensiero di un Maestro della letteratura come il Premio Nobel turco Orhan Pamuk: “C’è una dote che hanno soltanto gli esseri umani: identificarsi col dolore, il piacere, la gioia, la noia degli altri; anche delle persone che non apprezziamo, perché identificarsi con qualcuno non significa essere d’accordo con lui”.

L’empatia nella sua forma più alta, dunque, non si limita a un rispecchiamento con chi la pensa come noi – il che si declinerebbe in definitiva come un esercizio narcisistico – bensì può allargarsi a un riconoscimento dell’umanità dell’altro. La gentilezza si configura così come perno di una nebulosa di sentimenti che vanno dalla solidarietà alla generosità, dall’altruismo alla compassione, dalla filantropia alla carità.

Empatia

Lasciamo parlare Donald Winnicott, uno dei massimi esponenti della psicoanalisi infantile del secondo Novecento: “Un indicatore della salute mentale è la capacità di entrare nei pensieri, nei sentimenti, nelle speranze e nelle paure di un’altra persona. E di concedere a un’altra persona di fare lo stesso con noi”. Sotto questo profilo, non pochi opinion-leaders contemporanei sembrerebbero privi di salute mentale… Per giungere a una gentilezza autentica, occorre riconoscere la piena soggettività dell’altro: operazione che non si può realizzare con la semplice buona volontà ma passa attraverso la completa accettazione delle contraddizioni, dei conflitti, delle ambivalenze, innanzitutto dentro sé stessi. In breve, per usare il linguaggio junghiano, è necessario venire a patti con la propria Ombra.

Con questo termine, Jung indica le inclinazioni e le caratteristiche inaccettabili e pertanto rimosse: il nostro lato oscuro. Nelle sue parole: “Pensare di non possedere l’Ombra è semplicemente un’idea infantile […] La luce che mi permette di conoscere completamente la mia psiche, inevitabilmente mi mette di fronte anche alla mia Ombra”. Se non riconosciuta, l’Ombra viene proiettata sugli altri, con esiti spesso distruttivi.

Incontrare la propria Ombra

Un esempio letterario in cui si descrive in modo estremo la scissione con la propria Ombra la si può trovare nel romanzo di Stevenson Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde (1886), in cui la mancata integrazione tra bene e male conduce a una patologica oscillazione tra le due facce dell’anima umana. Incontrare e integrare l’Ombra consente innanzitutto di accettare i propri limiti e di sviluppare un senso tragico: con il che intendo dire che si diviene più consci della sublime tragedia della condizione umana, universalmente esposta al dolore e alla mortalità e perciò stesso meritevole di amorosa compassione. La parola compassione è sovente equivocata, confusa con la pietà, così come i modi gentili sono talora visti come segno di debolezza.

Nel buddhismo, karuṇā, la compassione, è virtù centrale, allo stesso tempo causa ed effetto di una buona pratica: difatti non vi può essere compassione senza saggezza né saggezza priva di compassione. Si può comprendere come la gentilezza sia un frutto organico di un tale albero, tanto da ispirare al Dalai Lama un volume dal titolo, appunto, “Sulla gentilezza” (Solferino Editore, 2019). La gentilezza comporta sempre anche un certo grado di tatto: sia come capacità di possedere il senso dell’opportunità in ogni situazione, sia come capacità di entrare in con-tatto. A questo proposito, anche come contravveleno alla recente enfasi sul distanziamento sociale, concluderei con una citazione da Theodor W. Adorno: “Ancora più generalizzato della distanza tra le persone è il desiderio di eliminare tale distanza”.

 

 

1 commento

  1. Molto fondato e stimolante.
    L’approccio intellettuale non toglie “calore”..
    Grazie

    Rispondi

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