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22 Marzo, 2021

Il medico di fronte al dolore

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Il protrarsi della pandemia stimola riflessioni che dalla considerazione del momento attuale, centrate sul senso della salute e della malattia, si espandono a più ampie valutazioni di tipo sociologico. E dato che la limitazione di occasioni sociali amplia il tempo a disposizione in casa, la mia bulimia di lettrice trova pane per i suoi denti nell’offerta di libri che permettono di riflettere su questi temi. Ho letto recentemente  La Società senza dolore del filosofo tedesco-coreano Byung Chul Han, che analizza la reazione all’attuale pandemia focalizzando il rifiuto della sofferenza come chiave per capire come sia possibile che così tante persone possano aver accettato una privazione della libertà quale quella che sperimentiamo oggi. Han dice che oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore, che ha come conseguenza un’anestesia permanente. 

Un’anestesia permanente

E questo si estende all’ambito sociale, con una spinta al conformismo e la ricerca del consenso: la società dei like. Nella società questo comporta l’affermarsi di una democrazia palliativa, che si esprime nella mancanza di alternative, con una politica che manca di visione  e non sa realizzare  riforme incisive, che potrebbero far male, perché non ha il coraggio del dolore. La società della positività considera una sorta di diritto costituzionale  un’esistenza priva di dolore e il fatto che ognuno debba badare alla propria felicità isola l’essere umano e conduce a una spoliticizzazione e desolidarizzazione della società. Se la sopravvivenza assume valore assoluto, la paura della morte prevale sul senso della buona vita e sacrifichiamo tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta. Nella pandemia, la  società della sopravvivenza riduce la vita a un processo biologico che va ottimizzato. L’introspezione narcisistica e ipocondriaca  rende particolarmente sensibili al dolore: Han dice che sembra che le persone oggi soffrano della Sindrome della principessa sul pisello, “le crescenti aspettative nei confronti della medicina, associate all’insensatezza del dolore, fanno  sembrare insopportabili anche i dolori più insignificanti. Inoltre non disponiamo più di nessi di senso, di narrazioni istanze superiori o scopi che possano abbracciare il dolore e renderlo sopportabile.”

Il senso del dolore e della malattia

Come non condividere questa analisi? Descrive con lucidità quello che noi medici vediamo nei nostri studi e  fa capire come per noi omeopati le difficoltà maggiori, spesso non vengano genericamente da chi è contro l’omeopatia, ma dalle aspettative  dei pazienti, che applicano anche al rapporto con l’omeopata questo schema che pervade la nostra società. Intendiamoci bene, non intendo dire che il medico omeopata non si interessi al dolore dei suoi pazienti, ma lo sforzo maggiore che ci troviamo a fare nella lettura della sintomatologia è proprio quello di dare un senso, di far capire che certi sintomi sono funzionali a qualcosa e che il nostro fine deve essere quello di superarli non sopprimendoli, ma muovendo dall’interno le risorse della persona: e questo può comportare delle fasi di aggravamento, di ritorno di vecchi sintomi, che vanno rispettati perché parti di un percorso. Ecco, questa secondo me è la parola chiave: percorso. E in questo mi discosto dal pensiero di Han. Lui vede il dolore come un valore: “tutto ciò che è vero è doloroso, il dolore è realtà, articola la vita, dobbiamo al dolore il senso dell’esistenza”, fino a parlare di poetica del dolore, di dolore come forza di gravità dell’esistenza umana. Io credo che al dolore non vada attribuito un valore salvifico, ma che lo si debba collocare nell’ottica di un dinamismo che caratterizza la vita: certamente un dolore fisico, come anche un dolore psichico, sono la spia di qualcosa che va capito, e in questo ha un valore maieutico, ma può anche essere  semplicemente la spia di un dinamismo perché non siamo macchine e dobbiamo convivere con variazioni e alterazioni che possono essere anche dolorose.  Certe volte serve anche un atteggiamento di leggerezza rispetto a certi sintomi, sia fisici che psichici: il ruolo del terapeuta può essere proprio quello di aiutare a capire che cosa va ulteriormente approfondito e che senso ha, ma anche che cosa invece  va lasciato fluire. Quando la pressione sociale è pervasiva come in questo momento storico, il ruolo di noi medici è ancora più importante, ma anche più difficile.

1 commento

  • Bernanos nel suo celebre ” dialogo delle carmelitane ” fa dire ad una delle sue protagoniste ” che c’è un dolore utile e un dolore inutile “. Il primo è sempre avanzamento, stazione di un percorso e presa di coscienza che contribuisce alla conoscenza di sé stessi e della verità; in quest’ottica si può dire che il dolore sia salvifico perché ci restituisce la memoria e il destino che accompagnano l’anima; da questo punto di vista il dolore è fonte di grazia. Altra cosa è il dolore inutile, esso ha sempre un’origine demonica, o perché frutto di superbia o perché generato dalla disperazione e dal risucchio del nulla, condizioni entrambe che presuppongono gelosia e odio dell’essere.
    Pertanto credo che il medico competente una volta portato discernimento tra le due facce del dolore, debba aiutare il paziente alla conoscenza di se stesso mediante la cura di sé, ristabilendo l’unità armonica dell’anima e del corpo.

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