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29 Settembre, 2024

Legami sociali e benessere: perché aiutare gli altri ci fa stare meglio

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È domenica mattina, state preparando la colazione e vi accorgete di aver finito il latte. Una volta, avreste bussato alla porta del vicino per chiederne un po’. Oggi, più probabilmente, oltre a non sapere che faccia abbia il vicino, aprirete un’app di consegna a domicilio e magicamente qualcuno, che non conoscerete mai, che per voi non avrà mai un nome, vi porterà, senza badare a sole, pioggia, caldo o neve, il latte alla porta in meno di mezz’ora. Questo cambiamento, apparentemente innocuo, nasconde una profonda trasformazione sociale.

La comodità che la tecnologia ci offre sta silenziosamente erodendo il tessuto delle nostre comunità, privandoci di quelle interazioni spontanee che un tempo formavano il cuore pulsante dei nostri quartieri. Ma a quale costo per la nostra salute mentale e fisica? In un’epoca in cui la solitudine è diventata un’epidemia silenziosa, è cruciale esaminare come questo distacco dalla comunità stia influenzando il nostro benessere. Studi recenti rivelano un quadro preoccupante di isolamento crescente, ma offrono anche una speranza: riscoprendo il potere dei legami umani, potremmo non solo migliorare la nostra salute, ma anche rivitalizzare il senso di appartenenza che sembra essersi perso nel rumore della vita moderna.

I dati indicano che durante la pandemia, le reti di contatti degli americani si sono ridotte e il tempo dedicato alla socializzazione è diminuito tra il 2003 e il 2020. Secondo un’indagine del 2021 del Survey Center on American Life, gli americani si affidano meno agli amici rispetto al passato. Solo il 16% degli intervistati ha dichiarato che si rivolgerebbe prima a un amico in caso di problema personale, rispetto al 26% nel 1990. L’era moderna delle app ci offre molte soluzioni pratiche: tutte le nostre necessità possono essere soddisfatte, in ogni momento e in ogni luogo, con un semplice tocco sullo schermo e una carta di credito abilitata. Dal cibo consegnato a domicilio, dalle consulenze mediche online, alle lezioni di yoga virtuali, fino ad arrivare allo smart working… potremmo non uscire mai di casa, vivendo in un mondo dove la comodità regna sovrana, come la solitudine. Questa immediatezza, tuttavia, ha un costo nascosto e non ci riferiamo a quello meramente economico.

Mentre risolviamo i nostri problemi quotidiani senza dover interagire faccia a faccia con altre persone, come osserva Xuan Zhao, ricercatore di psicologia presso l’Università di Stanford, stiamo involontariamente costruendo muri invisibili attorno a noi. La facilità con cui evitiamo l’interazione umana diretta sta lentamente erodendo la nostra capacità di creare e mantenere legami sociali significativi, privandoci di quelle esperienze condivise che un tempo arricchivano le nostre vite e rafforzavano il senso di comunità. Evitare la comunità non solo è contrario alla nostra natura umana, ma può anche essere dannoso per la nostra salute.

Le radici evolutive della cooperazione umana: da necessità di sopravvivenza a pilastro della nostra natura

Nel cuore della natura umana si cela una storia antica quanto la nostra specie stessa: la storia della cooperazione. Questo viaggio nel tempo ci porta indietro di milioni di anni, fino agli albori dell’umanità, rivelando come la nostra capacità di collaborare e formare legami sociali non sia un lusso moderno, ma una necessità evolutiva profondamente radicata nel nostro DNA. La nostra capacità di cooperare e socializzare risale a oltre 3,5 milioni di anni fa, agli australopitechi, uno dei primi ominidi. Quando queste creature si allontanarono dalle foreste pluviali verso ambienti più aridi e ricchi di predatori, la sopravvivenza dipendeva dalla vita in grandi gruppi, spiega Peter Richerson, biologo e professore emerito dell’Università della California.

Gli australopitechi impararono a collaborare con individui non imparentati per sopravvivere. Queste reti sociali permisero lo sviluppo di strategie e armi per formare gruppi in grado di respingere predatori pericolosi. Con l’evoluzione verso il bipedismo, il parto divenne più complicato e pericoloso, incentivando le madri a collaborare durante il parto, sostiene Lesley Newson, biologa evoluzionista. Le madri si aiutavano a vicenda dicendosi: “Tirerò fuori il tuo bambino se tu tirerai fuori il mio”.

Sarah Hrdy, antropologa evoluzionista, ritiene che la cooperazione si estese anche alla crescita dei bambini. I primi esseri umani si affidavano a una rete di supporto familiare allargata, non solo alla madre, per l’allevamento cooperativo, un comportamento unico tra i primati. Questa cooperazione permetteva ai bambini di imparare a osservare e socializzare con membri del gruppo non familiari, ponendo le basi per la cooperazione.

Gli psicologi affermano che la nostra evoluzione spiega perché il rifiuto sociale e l’isolamento siano dolorosi. I circuiti cerebrali che elaborano il dolore emotivo si basano sugli stessi circuiti del dolore fisico. In un esperimento, i partecipanti che venivano esclusi da un gioco virtuale provavano dolore fisico. Il dolore dell’esclusione sociale serve come segnale per correggere la situazione, spiega Gaurav Suri, psicologo e neuroscienziato computazionale.

Il piacere di aiutare e ricevere aiuto

Nel tessuto della vita quotidiana, i gesti di aiuto reciproco e i legami sociali non sono semplici cortesie, ma veri e propri pilastri del nostro benessere. La scienza moderna sta gettando nuova luce su ciò che le culture antiche hanno sempre saputo intuitivamente: il potere curativo della comunità. D’altra parte, aiutare e avere legami sociali ci fa sentire meglio. Le ricerche indicano che uno degli indicatori più importanti di una buona salute mentale è la percezione di avere una rete di sicurezza sociale su cui contare, indipendentemente dal fatto che la si utilizzi.

Quando permettiamo a qualcuno di intervenire, alleviamo una parte del nostro stress cognitivo, creando spazio per superare lo stress, spiega Razia Sahi, ricercatrice presso il Logic of Emotion Lab dell’Università di Princeton. Anche quando non c’è una soluzione concreta, il sostegno e la convalida possono essere benefici. Parlare di un problema può aiutare a rivalutare la situazione e a ridurre l’intensità emotiva dell’episodio, aggiunge Suri. I benefici sono anche fisici. Secondo la ricerca di Sahi, le persone riferiscono di aver provato meno dolore durante un’esperienza stressante se tenevano la mano di un partner.

Numerosi studi collegano i legami sociali alla longevità. Ad esempio, nelle zone blu, dove molte persone vivono fino a 90 o 100 anni, gli anziani spesso riferiscono di un forte senso di comunità e scopo. In particolare, a Okinawa, in Giappone, i moai sono gruppi affiatati che forniscono supporto finanziario e risorse condivise. Questi gruppi migliorano la fiducia, rendendo più facile chiedere aiuto, spiega Christal Burnette, portavoce del Centro di ricerca sulla longevità di Okinawa.

Il valore dell’aiuto reciproco

Dallo studio emerge un ulteriore dato interessante: il semplice atto di chiedere aiuto assume una complessità inaspettata. Vanessa Bohns, psicologa sociale della Cornell University, evidenzia come questa richiesta possa essere percepita come emotivamente rischiosa, alimentando il timore di compromettere relazioni esistenti. Questa apprensione spiega in parte la crescente preferenza per servizi a pagamento e app di gig-work, che secondo Zhao non solo risolvono problemi pratici, ma soddisfano anche bisogni psicologici di controllo e competenza. Tuttavia, questa tendenza comporta un costo nascosto: la perdita di opportunità per atti spontanei di gentilezza e la costruzione di legami sociali più profondi.

Sorprendentemente, la ricerca di Zhao e Nicholas Epley rivela un divario tra le nostre percezioni e la realtà: le persone sono generalmente più disposte e felici di aiutare di quanto crediamo. Questo dato è supportato da una recente meta-analisi che conferma la persistente propensione degli americani a cooperare con gli estranei. Epley sottolinea un aspetto fondamentale spesso trascurato: l’atto di aiutare non beneficia solo chi riceve, ma offre un profondo senso di scopo a chi dà. In questa prospettiva, evitare di chiedere aiuto non è solo una rinuncia personale, ma priva gli altri della gratificazione di sentirsi utili e connessi.

In questo secolo di algoritmi e automazione, dove siamo considerati solo piccoli consumatori cyborg e non esseri umani con sangue, vene, nervi e cuore, questo studio sui benefici dei legami sociali ci invita a riscoprire il potere curativo di un sorriso scambiato, di una mano tesa, di un gesto di gentilezza inaspettato, di un linguaggio pieno e non frammentato da emoji che falsamente ridono o piangono al nostro posto. Perché in quei momenti di vulnerabilità condivisa e forza reciproca, non stiamo solo aiutando o ricevendo aiuto: stiamo ricordando cosa significa essere umani.

Ogni atto di generosità, ogni richiesta di sostegno è un piccolo atto di ribellione contro l’isolamento, un faro  in un mare di indifferenza. E in questo scambio, in questa danza di bisogno e offerta, di fragilità e forza, riscriviamo la storia dell’umanità, un gesto alla volta. Perché alla fine, non è nelle nostre conquiste solitarie che troviamo il senso della vita, ma nella rete di connessioni che creiamo, nella comunità che costruiamo, nell’amore che condividiamo. 

“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te.”

(John Donne)

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