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8 Gennaio, 2022

Da Manzoni al Covid-19 (prima parte)

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Proviamo a rileggere qualche passo dei Promessi Sposi che ci introduce sia una riflessione sull’attuale pandemia sia ci illustra il percorso della medicina verso due fondamentali scoperte: l’esistenza dei batteri e l’esistenza del sistema immunitario. Nel capitolo 3, siamo nell’autunno del 1629, la peste fa il suo ingresso nel milanese e Alessandro Manzoni (Milano 1785 – Milano 1873) nota: “Al primo annunzio della peste [n.d.r. il tribunale di sanità] andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non meno portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.”

Facile ci viene il parallelismo con i ritardi del Governo cinese nel comunicare la pandemia, nell’inspiegabile ritardo dell’OMS nel proclamarla, i ritardi del Governo italiano nel prendere provvedimenti, le resistenze di alcune regioni ad applicarle e Ie negazioni, le incertezze degli altri Stati con il racconto del Manzoni che riprendiamo: “Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò per prima [n.d.r. la peste] e altre circostanze della persona e del caso: e infatti nell’osservare i principi di una vasta mortalità […] nasce una non so quale curiosità di conoscere quei primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che facciano trovare in essi, e nelle particolarità, peraltro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.”

Anche qui in Italia si è perso altro tempo alla ricerca del così detto paziente zero invece di occuparsi di apprestare percorsi alternativi agli ospedali, provvedimenti generali di isolamento, strumenti abbondanti di diagnosi di massa che avrebbero potuto guidare in maniera efficace i confinamenti selettivi, come, con grande successo, hanno provveduto a fare la stessa Cina, Taiwan e la Corea del Sud.

Era chiaro, da tempo, che le ricorrenti, drammatiche, epidemie di peste erano dovute a qualcosa che si attaccava; questo qualcosa sfuggiva completamente alla comprensione umana e pur provvedendo a misure sostanzialmente analoghe a quelle attuali per il Coronavirus la ricerca di ciò che si attaccasse era affidata a ragionamenti, concatenazioni su antiche teorie dove allignava e prosperava l’antico delirio delle unzioni: “Pescavan nei libri, e, purtroppo ne trovavan in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacido, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza.” Le conseguenze erano state torture ed esecuzioni dei supposti untori e di streghe e, molto interessante, dei sospetti che dimostravano di non aver paura del contagio perché, si sosteneva, ne erano padroni e fautori.

In ogni tempo coloro che mostrano in vario modo di non partecipare ad una mentalità, un delirio, una fobia o comunque ad un convincimento collettivo sono stati e vengono visti come una minaccia, un pericolo; il loro atteggiamento viene percepito come un atto di accusa ad uno stato d’animo i cui padroni sanno di essere nel falso, nell’assurdo. L’essere smascherati è intollerabile; all’epoca si trattava di untori, ai tempi d’oggi di irresponsabili, incoscienti, delinquenti, meglio ancora: dei malati di mente.

“D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i sogni dei dotti; come disastrosi del pari ne eran gli effetti”. Classico il ragionamento di Don Ferrante che, aristotelicamente, negando il contagio, lo attribuiva agli influssi astrali: “E così si prese la peste e morì prendendosela con le stelle come gli eroi del Metastasio”. Gli astri e gli untori saranno soppiantati dalla scoperta dei batteri.

Ma ora rivolgiamoci all’altro pilastro che regge, in medicina, l’arco dialettico della clinica: il sistema immunitario.

Renzo e la peste
Renzo al lazzaretto

Nel Capitolo 33 incontriamo Renzo Tramaglino che, già emigrato fortunosamente nella Repubblica Veneziana, si era preso la peste, ne era guarito e quindi può decidere di ritornare al paese natio alla ricerca di Lucia. Lo può fare perché era chiaro a tutti che prendere la peste due volte fosse praticamente impossibile. Seguiamo brevemente il Manzoni: “I pochi guariti della peste privilegiata. Una gran parte dell’altra gente languiva o moriva; e quelli che erano stati fin’allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore […] che, tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Quegli altri all’opposto [n.d.r. i guariti] giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri d’un’epoca del medioevo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni accomodati anch’essi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a zonzo e alla ventura, in mezzo ad una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci.”

Oggi sappiamo che quei guariti avevano gli anticorpi per la Yersinia pestis. La prima traccia scritta dell’esistenza di un sistema di difesa dell’organismo risale al 430 a.C.; parliamo della guerra tra Sparta e Atene, della celebre peste del Peloponneso (vi morì lo stesso Pericle) che decise della sconfitta di Atene contro Sparta; peste che, ad onta delle eccellenti descrizioni di Tucidide e dei medici ippocratici dell’epoca, estensori di anamnesi di inarrivabile precisione oltre che di perpetuo prestigio letterario, ha offerto ai numerosi studiosi che vi si sono accaniti un insuperabile  scoglio diagnostico.

Tucidide-460-395-A.C.
Tucidide-460-395-A.C.

Scrive Tucidide: “Il male non colpisce due volte la stessa persona”; in questo modo lo storico sottolinea lo strano fenomeno, con la particolarità di non invocare spiegazioni di umori o di influssi astrali ma con un implicito e onesto non si sa: novità culturale non da poco. Non si poteva chiedere di più a Tucidide influenzato, come tutti i medici greci, dalle più che millenarie conoscenze mediche mesopotamiche, dove, si ricercavano spiegazioni sulle cause dei morbi con cure ed esorcismi specifici per ogni demone (ne enumeravano circa 6000), il tutto incrociato con la posizione degli astri, il volo degli uccelli e il fegato degli animali sacrificati a scopo diagnostico [1]. Le cose non cambiano molto per circa 3000 anni.

Si cita un processo a Londra del 1424 in cui un chirurgo viene condannato dal tribunale per mal pratica dopo una denuncia di un paziente operato al pollice con esito insoddisfacente; il giudice nomina tre chirurghi come consulenti che, dopo un attento studio del caso, scrivono una relazione: “un miracolo che quel paziente fosse ancora vivo […] nel giorno dell’operazione la luna aveva un colore del sangue e si era in acquario, che notoriamente è una costellazione molto malevola”. Inoltre, il chirurgo aveva commesso un errore ancora più grave, avendo sottoposto a salasso pre-operatorio il paziente in un momento sbagliato dell’anno. Il giudice dà ragione al paziente.

Vesalius Fabrica

Oltre un secolo dopo, siamo nella facoltà di medicina di Bologna (tra le più antiche e prestigiose) precisamente nel 1544: Andrea Vesalio (Bruxelles 1514 – Zante 1564) nome celebre della medicina dell’epoca, tiene una lezione nella sala settaria dell’università gremita di colleghi; oggetto della lezione la dissezione accurata del cadavere per dimostrare la scoperta del sistema venoso. Ne seguì una dotta ed accesa disputa su chi avesse più meriti verso la medicina tra Ippocrate, Galeno, Aristotele e così via; sconsolato da tanto spreco intellettuale, Vesalio, abbandonò l’aula [2]. Nei secoli seguenti, le cose non cambiano molto. Al centro delle terapie c’era sempre il famigerato salasso, con vittime illustri come il cardinale Richelieu, G. Washington, Raffaello Sanzio e così via, mentre il Re Sole ci andò vicino ma riuscì a sopravvivere. Nel Seicento le ricorrenti epidemie di peste cessarono [3] ed a inizio Settecento il terribile vaiolo prese il tragico testimone di sterminatore di un’umanità indifesa estendendosi epidemicamente verso l’Ottocento. Contemporaneamente tra alternanze e contraddizioni, si afferma in medicina un nuovo criterio, l’esperimento sostituisce il ragionamento speculativo basato su teorie non comprovate dai fatti e questo anche quando l’esperimento contraddiceva le idee e il senso comune dell’epoca.

Lady-Mary-Montague
Lady-Mary-Montague

Il vaiolo aveva cicli ben più brevi della peste, circa cinque anni, colpiva in maniera atroce specie i bambini, nati dopo l’ultima ondata, con mortalità complessiva che poteva arrivare al 60% della popolazione infantile. Un morbo orribile, che ricopriva il corpo di pustole suppuranti; i sopravvissuti ne uscivano sfigurati, a volte con lesioni gravissime agli occhi; un caposaldo della bellezza femminile diventa la pelle liscia, tanto diventa rara. Qui interviene un fatto veramente singolare: Lady Mary Montague, giovane nobildonna inglese, devastata dal vaiolo che le aveva portato via un fratello e la sua leggendaria bellezza, giunge nel 1716, col marito ambasciatore, a Costantinopoli ove, il morbo, non faceva paura. Le mamme mettevano il pus dei malati sulla pelle dei figli dopo aver praticato delle micro incisioni sulla pelle; il morbo ogni tanto dilagava e qualche bimbo moriva o restava deturpato, ma la stragrande maggioranza non prendeva più il vaiolo. Rientrata a Londra due anni dopo Lady Mary si rende paladina di questa metodica, detta variolizzazione, incontrando subito una forte avversione nella classe medica che boccia questa pratica ignota proveniente dal popolo Circasso e per di più dal disprezzato oriente; tre anni dopo, nel 1719, si ha una nuova ondata di vaiolo e Lady Mary fa sottoporre alla metodica la figlia, la principessa del Galles e tutta la casa reale e in seguito la nobiltà, i ricchi e infine le case reali e i nobili di tutta Europa. I poveri come al solito ne rimangono fuori. Si avviano i primi studi clinici in assoluto, con il confronto di dati accurati su malati e deceduti, con il risultato di accertare che, con la metodica circassa, il vaiolo uccideva al più il 5% dei soggetti contro una media epidemica precedente del 30% ma con picchi fino al 60% nei non trattati; in più i sopravvissuti non trattati, rimanevano gravemente sfigurati. Poche cose hanno danneggiato l’umanità come il pregiudizio ideologico; resistente a qualunque terapia e perdurante in ogni epoca questo fosco morbo del pensiero tutt’ora miete le sue numerose vittime; e lo può fare perché nascosto, pur nell’evidente accettazione comune, che se fosse individuato crollerebbe.

La variolizzazione, proveniente da un popolo considerato primitivo, continuava a non convincere la maggior parte dei medici in una con l’altra pratica: il chinino degli indiani americani che salvava dalla malaria, altro cronico flagello dell’umanità dalla notte dei tempi. Citiamo che Voltaire e molti intellettuali famosi si schierarono a favore di ambedue le pratiche terapeutiche.

Nel 1763 a Parigi la variolizzazione incontra un grosso problema: si ha una nuova crisi di vaiolo e due dei cento variolizzati muoiono gettando gli altri nello sconforto; i deceduti sono due ministri, parenti del re e membri della corte. Gli innesti erano stati fatti da Angelo Gatti (Ronta 1724 – Napoli 1798), docente di medicina a Pisa e medico di Luigi quindicesimo; il Professore toscano riscuoteva fiducia unanime grazie anche ai suoi metodi e alle sue terapie semplici, ben spiegate ai pazienti e prive di bizzarri ingredienti fortemente sgradevoli che si usavano al tempo; nonostante ciò, venne accusato dai colleghi della Sorbona (omo omini lupus, medicus medici lupior) sia di aver causato la morte dei due illustri pazienti sia di aver addirittura provocato l’epidemia. Il grave incidente di percorso fu però foriero di un salto di qualità nella metodica: si pose più attenzione ai danni e alla ricerca del pus più adatto, alla cura nelle incisioni cutanee (che qualche volta avevano provocato la sifilide), alla profondità dell’innesto e così via. Nel frattempo si era scatenata la tempesta; i professori parigini cavalcarono l’onda del panico popolare, si fecero pressioni sul re che scaricò la questione sul Parlamento che scaricò la questione alla Sorbona che la scaricò alla sua Facoltà di Medicina e Teologia (oggi sarebbero intervenuti procure della repubblica, AIFA, ministeri, trasmissioni televisive e un profluvio di connessioni sui mass media). La facoltà di medicina e teologia impiegò cinque anni prima di pronunciarsi, mentre tutta l’Europa era in attesa e il vaiolo faceva 1077 morti a Berlino e 60mila a Napoli; la sentenza fu: “la variolizzazione non è autorizzata, non è condannata, è tollerata”.

La pratica dell’innesto subì comunque una battuta d’arresto, restando volontaria per la popolazione e obbligatoria in alcuni eserciti come quello americano. Il Professore pisano non demorse, stabilì nuove modalità, semplificò le procedure e soprattutto – ammettendo qualche errore commesso -, pubblicò una nuova metodica di applicazione standardizzata con regole semplici da seguire per evitare i rischi maggiori e, cosa non da poco, propugnò che fosse messa nelle mani di chiunque dopo un opportuno addestramento; in questo modo costruì la base per lo sviluppo di una nuova figura sanitaria, il paramedico.

Nel frattempo, in Inghilterra, si avviava un importantissimo percorso dovuto al medico inglese Edward Jenner (Berkeley 1749 – Berkeley 1823) che, nel 1775, da Londra tornò nel paese natio con l’incarico governativo di effettuare la variolizzazione in tutta la contea; ottimo naturalista e grande osservatore, notò che ogni tanto i suoi innesti non attecchivano, non si sviluppava cioè la pustola reattiva nonostante che i pazienti stessi negassero di avere già avuto il vaiolo. Iniziò a registrare questi casi di resistenza e scoprì che i refrattari avevano avuto tutti qualche pustola sulle mani dovute ad un’altra forma: il vaiolo vaccino. Sono i contadini stessi a segnalare al medico londinese di essersi accorti molti anni addietro di questo “non ritorno” di pustole dopo il primo contatto con il vaiolo vaccino (molto, e non solo in medicina, si deve alla capacità di osservazione dei fatti nel popolo non acculturato; è stata una grande ricchezza, sembrerebbe però che questa attitudine preziosa si stia perdendo anche, pericolosamente, in medicina); Jenner impiegò venti anni di osservazione nella contea e accumulò molti altri casi: ebbe un’idea ma volle prima ben verificarla.

Nel 1796 una contadina, Sarah Nelmes, lo consultò per un’eruzione sulla mano; Jenner riconobbe il vaiolo vaccino e apprese dalla contadina che la sua mucca presentava quelle pustole sulle mammelle; qualche giorno prima una spina le aveva graffiato la mano dove ora era l’eruzione. Il medico capì che il vaiolo delle vacche sbarrava la strada a quello degli uomini ed era innocuo. Cercò con molta audacia una prova della sua ipotesi: innestò il pus della contadina sulla mano del figlio di otto anni del giardiniere, James Phipps, perché “non ha mai avuto il vaiolo, è robusto e in piena salute”. Jenner annotò che il veleno innestato provocò qualche pustola e poca febbre, poi James tornò in salute.

Edward-Jennar-vaccina-James-Phipps
Edward Jennar vaccina James Phipps

Tre settimane dopo Jenner lo contagiò con il vaiolo umano che non attecchì: era stata fatta un’importante scoperta. Fuori discussione l’audacia di Jenner; d’altronde, evidentemente, all’epoca, non si aveva sentore di avvocati, magistrati e assicurazioni, cioè della medicina difensiva. Con Jenner, che coniò il termine vaccino, si stabilizzò il concetto del non ritorno di un morbo ma non si cercò di provare ad applicare la metodica ad altre malattie epidemiche né si cercarono i meccanismi di attivazione di quello che si capirà essere il sistema immunitario, per scoprire il quale dovevano passare ancora molti anni.

Mirco Grmek, sommo storico della medicina, scomparso venti anni fa, poté scrivere: “E’ molto difficile per uno storico ammettere – e tutta la sua educazione si oppone- che la scoperta della vaccinazione contro il vaiolo di Jenner ha avuto più conseguenze per il destino dell’umanità di tutte le conquiste del suo contemporaneo Napoleone”.

Ad inizio Ottocento la scoperta dei batteri arrivò a maturazione dopo illustri precedenti.

Già Fracastòro (Verona 1478 – lncaffi 1553), padrone della più varia cultura cinquecentesca, basandosi su una costante culturale, la magistra experientia, e la ricerca delle cause materiali dei fenomeni nel De contagione et contagionis morbis et curatione (1546), enunciò la dottrina del contagio animato. L’importanza dell’assunto di Fracastòro consiste nel fatto che egli superava così l’imperante dottrina degli umori di Ippocrate ed espresse chiaramente l’idea che il contagio derivava da corpuscoli viventi (Seminaria prima) e trasmissibili da un individuo ad un altro. [4]

Lazzaro-Spallanzani-1729-1799
Lazzaro-Spallanzani-1729-1799

Ricordando che l’invenzione del microscopio nel 1600 aprì all’umanità un mondo immenso e tralasciando contributi minori, arriviamo al poliedrico genio di Lazzaro Spallanzani (Scandiano 1729 – Pavia 1799). Autore, tra l’altro, di importanti studi e scoperte di medicina e biologia. fu un convinto sostenitore dell’ovismo [5] e confutò le teorie ·sulle molecole organiche di Buffon. Dimostrò che i microbi sono nell’aria e non si generano spontaneamente perché la materia organica non si degrada se è bollita e poi sigillata in un contenitore. Mise a punto un metodo efficace per la sterilizzazione degli infusori e, nel 1765, con il Saggio di osservazioni microscopiche, dichiarò che la generazione spontanea è una chimera.

Pochi anni dopo arrivarono gli apporti del naturalista Agostino Bassi (Mairago 1773 – Lodi 1856) anch’esso con interessi culturali multiformi (zootecnia, pastorizia, patologia animale, vegetale e altro); qui ci interessa il suo più importante e classico lavoro di bacologia Del mal del segno, alcinaccio o moscardino (1835). Studiando la malattia del baco da seta dimostrò che l’agente eziologico era rappresentato da un fungo (Botrytis bassiana) i cui germi sono nell’aria, crescono e si moltiplicano sul baco vivo, che a sua volta infetta altri individui sani; fu una pietra miliare nella storia della microbiologia perché essa rappresentò la convalida della dottrina del contagio animato che si riallacciava alla splendida intuizione del Fracastòro già citato e che doveva raggiungere il culmine nelle ricerche di Pasteur e di Koch. Siamo così giunti all’alba della scoperta definitiva dei microrganismi a cui si aggancerà quella del sistema immunitario, completantesi così l’architrave portante della medicina. [continua]

Note

[1] Con ciò non si creda che la medicina mesopotamica fosse inefficace; sono stati rinvenuti, per esempio, crani databili almeno al 1500 a.C. con chiari segni di interventi chirurgici al cervello e, dal callo osseo ben formato, si deduce che i pazienti sopravvivevano agli interventi. Non abbiamo notizie sulle eventuali anestesie praticate. Di valore anche le acquisizioni sul rapporto tra salute ed alimentazione, ereditate dalla medicina greca ma di cui troviamo traccia anche nella Bibbia (Libro di Daniele: l’episodio dei prigionieri ebrei}.

[2] Tuttavia, ad onore della facoltà di Bologna, occorre ricordare che nella peste del 1630 ebbe la gestione completa della sanità nella zona e, applicando brillantemente tutte le cognizioni dell’epoca, riuscì a contenere la mortalità al 20%. Al confronto, la disastrosa condotta de/l’amministrazione lombarda della peste portò ad una mortalità a Milano valutata tra il 40% e il 50% della popolazione e, a Mantova, del 60%: ci sarà un mistero in Lombardia?

[3] Quasi nessuno ricorda più invece l’ultima vera e propria peste che colpì l’Italia limitatamente ad una parte del Regno delle Due Sicilie: la peste di Noja (l’attualeNoicattaro), in Puglia tra il 1815 e il 1816. Molto interessante e intelligente il confinamento e la militarizzazione del territorio da parte del re Ferdinando I di Borbone che portarono alla cessazione del contagio circa 6 mesi dopo.

[4]Fracastòro scrisse di astronomia, di filosofia, di poetica e di altre materie. La sua opera letteraria più famosa, scritta in eleganti esametri, è il poemetto latino “Syphilis sive de morbo gallico” (1530) sulla natura e la cura della lue venerea, la quale, dal nome del protagonista (il pastore Sifilo), punito con quella malattia per infedeltà al dio Sole, prese il nome di sifilide.

[5] Ovismo: In embriologia, teoria in voga dal 16 al 18 ° sec., che sosteneva la presenza, nell’uovo, dell’essere futuro preformato: vi si opponeva la teoria animalculista, che sosteneva la presenza dell’individuo preformato nello spermio.

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