Lipsia era assediata dall’esercito francese e proiettili di cannone cadevano sulla città come gocce di una pioggia infinita. Per sfuggire alle terribili esplosioni la famiglia Hahnemann, come tutta la popolazione della città, si era rifugiata nei sotterranei dei palazzi. Dopo parecchi giorni i viveri iniziarono a scarseggiare e Hahnemann, non potendo sopportare che moglie e figli fossero tormentati dalla fame, decise di salire ai piani superiori in cerca di cibo. Lo attendeva l’atroce visione di mura e soffitti crollati. La sua casa non esisteva più. Un vecchio si sarebbe aggirato tra quelle rovine, aveva il volto dalla pelle incartapecorita, le labbra avvizzite, gli occhi piccoli ma vivaci.
“Chi siete?” Avrebbe domandato Hahnemann.
“Ungaretti/ uomo di pena/” Avrebbe risposto l’altro.
“Come siete arrivato fin qua?”
“In agguato/ in queste budella/ di macerie/ ore e ore/ ho strascicato/ la mia carcassa/ usata dal fango/ come una suola.”
“Sapete cosa sta accadendo sulle mura della città?”
“Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie.”
“Abbiamo respinto l’assalto di quei maledetti francesi?”
“La memoria non svolge che le immagini/ E a me stesso io stesso/ Non sono già più/ Che l’annientamento nulla del pensiero/”
“Ci mancava solo che incontrassi un vecchio smemorato!” Avrebbe brontolato Hahnemann.
Un proiettile di cannone, colpendo l’edificio vicino, avrebbe gettato schegge e polvere ovunque. I due uomini, causa lo spostamento d’aria, sarebbero finiti a terra. “Dovete andarvene da qua!” Avrebbe gridato Hahnemann. “Non ho un posto dove nascondervi, né cibo per sfamarvi.”
Lentamente Ungaretti si sarebbe alzato e, mentre con una mano si toglieva la polvere dai vestiti, avrebbe mormorato mestamente: “Non ho voglia/ di tuffarmi in un gomitolo/ di strade. Ho tanta/ stanchezza/ sulle spalle.”
“Oh povero vecchio, che pena mi fate. Avete qualche amico da cui andare?”
Ungaretti avrebbe scosso la testa. “Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca digrignata/ volta la plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/”
“Maledetta guerra e maledetti noi!” Avrebbe gridato il medico tedesco. “Combattiamo, uccidiamo e moriamo senza sapere il perché, poi facciamo la pace, in attesa di ricominciare un’altra guerra ancora più terribile della precedente. Ditemi: Dio ci perdonerà questa pazzia?”
“Rincorro le nuvole/ che si sciolgono dolcemente/ cogli occhi attenti/ e mi rammento di qualche amico morto/ Ma Dio cos’è?”
“Siete ateo?”
“Sono un poeta/ un grido unanime/ sono un grumo di sogni/”
“Ma una qualche speranza deve esserci in fondo al vostro animo.”
“Mi vedo/ abbandonato nell’infinito/” Avrebbe mormorato Ungaretti con voce roca e disperata.
Allora Hahnemann avrebbe rovistato tra le macerie della sua casa. Dal mobile dei farmaci, sommerso da mattoni e calcinacci, avrebbe estratto una bottiglietta di vetro miracolosamente intatta. “ E’ tutto quello che vi posso offrire: dieci gocce al giorno di Conium maculatum.”
Il cannone improvvisamente interruppe la sua voce nera. Era l’alba e il nuovo sole toccava, con i suoi primi passi, le ferite lasciate da un’altra notte di guerra. Ungaretti inspirò l’aria che odorava di promesse e, volgendo lo sguardo verso la fronte luminosa del cielo, avrebbe esclamato: “M’illumino/ d’immenso.”
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