Semplificando brutalmente l’irriducibile complessità della questione, si potrebbe supporre che, da una parte, la posizione creazionista e, dall’altra, la visione evoluzionista costituiscano le polarità di un continuum interpretativo circa l’origine della specie umana e delle nozioni etiche che ne derivano circa chi siamo noi uomini e cosa ci competerebbe, eticamente, come modello ideale del vivere, sia in quanto singoli che in quanto collettività. Eppure, queste estremità interpretative avrebbero una visione comune pertinente la nostra condizione gregaria, sostenendo, entrambe, che non siamo solo io, te e tutti quelli che conosciamo ma che i cittadini del mondo avrebbero obblighi etici verso una cerchia più ampia dell’umanità, come tuttora nella contemporaneità sostiene il filosofo Peter Singer.[1]
La nostra consapevolezza di un’appartenenza ad una cerchia sempre più larga della nostra famiglia e parentela è testimoniata da ogni processo di analisi di qualunque manufatto o oggetto che sia stato rinvenuto e che rimanda sempre ad una dimensione relazione della specie. Deposizione che troviamo coerentemente nell’arte e nella letteratura. Un esempio eloquente e sintetico di appartenenza ad un mondo molto largo nella letteratura moderna lo troviamo in prossimità dell’apertura di A Portrait of the Artist as a Young Man (1916), quando l’alter ego di James Joyce, Stephen Dedalus, apre il risguardo del suo libro di testo di geografia ed esamina ciò che vi aveva scritto:
Stefano Dedalus
- Clongowes Wood College
- Sallins
- Contea di Kildare
- Irlanda
- Europa
- Il mondo
- L’universo
Forse una buona parte di noi, senza dubbio, ricorderà di aver scritto un indirizzo esteso simile da bambini, seguendo la logica di questa serie di luoghi sempre più grandi. Le ultime due voci nell’elenco di Dedalus sarebbero, ovviamente, ridondanti in qualsiasi indirizzo reale. Solo un alieno che manda una cartolina a casa da un altro universo penserebbe di aggiungerli. Quest’indirizzo esteso ci rammenta che, perfino da bambini, siamo, intuitivamente, tutti, in un certo senso, “cittadini del mondo”. O almeno i suoi abitanti.
Eppure, da adulti, di solito non pensiamo molto al di fuori di ciò che ci circonda. In genere, è la nostra nazione a definirci geograficamente, e sono la nostra famiglia, gli amici e i conoscenti che, in ogni caso, dominano il nostro pensiero sociale e in qualche modo anche i sentimenti più intimi. Anche se pensiamo all’universo, lo facciamo da una prospettiva astronomica oppure religiosa e perfino in questo ultimo caso si perde quasi ogni aspetto relazionale.
Forse quest’assenza dell’altro potrebbe essere dovuta al fatto che siamo organismi focalizzati localmente, evoluti da scimmie sociali che andavano in giro in piccole bande.
Ne conseguirebbe che più le altre persone sono lontane da un punto di vista etnico culturale o meno visibili geograficamente, più risulta difficile preoccuparsi di loro. Addirittura, quando la televisione porta la notizia di migliaia di persone che muoiono di fame nell’Africa subsahariana, ciò che più ci colpisce profondamente è la notizia di un singolo atto di violenza in una strada vicina a noi oppure l’immagine surreale di un bambino caucasico con un orsacchiotto in una scena di un bombardamento anziché di un bambino yemenita morto in un bombardamento vestito a brandelli e senza nemmeno un giubbottino rosso.
Gli uomini come cittadini del mondo
Identificandosi con il pensiero del filosofo interessato all’etica applicata Nigel Warburton e non solo, si potrebbe sostenere che la vita sia sopportabile, in parte, perché possiamo resistere facilmente a immaginare l’entità della sofferenza in tutto il mondo. Se ci pensiamo, per la maggior parte di noi, quel pensiero circa l’entità della sofferenza nel mondo è, come sottolinea Warburton, spassionato e rimosso. È così, argomenta, che noi uomini viviamo come specie.
Eppure c’è una tradizione che risalirebbe al IV secolo prima della cosiddetta era cristiana e che ci incoraggia a vederci non come cittadini di uno stato o di una nazione ma come cittadini del mondo capaci di provare empatia e compassione. Stando agli studiosi in materia, questa tradizione sarebbe cominciata con l’eccentrico filosofo Diogene di Sinope (l’odierna Sinop è nella moderna Turchia). A volte noto come Diogene il Cinico, non dovrebbe essere confuso con il suo omonimo, Diogene Laerzio, il cui racconto della vita di Diogene il Cinico sarebbe il più completo che sia sopravvissuto. È noto che il nostro Diogene rinunciò alle ricchezze mondane, mendicava il suo cibo e dormiva in una specie di botte che faceva rotolare da un posto all’altro della città. Conosciuto come “il cane” (la parola greca ci ha dato il nome di “cinico”), defecava a teatro, si masturbava in pubblico e piegava la gamba per urinare su alcuni giovani che lo prendevano in giro abbaiandogli e lanciandogli ossa. Diogene era certamente un filosofo, anche se bizzarro, e come tale era rispettato. Oggi, un tale personaggio probabilmente lo vedremmo come un incrocio tra un comico satirico e un artista performativo senza fissa dimora.
Di fatto, si reputa che Diogene credesse nell’esprimere la sua filosofia attraverso azioni creative. Si ritiene che non solo dicesse alle persone cosa pensava ma che avesse anche cercato di dimostrare il suo pensiero. Al riguardo si racconta che una volta Platone insegnava a una classe di entusiasti studenti che l’uomo fosse “un bipede senza piume”, Diogene si sarebbe presentato brandendo un pollo spennato e gridando “Guarda, ti ho portato un uomo!” Platone lo definì un “Socrate pazzo”. Stando ai racconti sulla vita di Diogene si dice che fosse solito vagare per il mercato ateniese in pieno giorno, portando una lanterna accesa e affermando di cercare un uomo onesto, cosa che, ovviamente, non avrebbe mai trovato. Tra i racconti si elenca anche l’episodio alla visita che Alessandro Magno gli avrebbe fatto a casa sua, cioè nella botte in cui era solito dormire e gli chiese se c’era qualcosa che gli sarebbe piaciuto avere. Diogene avrebbe risposto alla persona ritenuta più potente del mondo di allora: “Sì, per favore, spostati, stai bloccando la mia luce solare”. Imperterrito, Alessandro avrebbe detto che se egli non fosse stato Alessandro, gli sarebbe piaciuto essere Diogene. Diogene avrebbe allora aggiunto: “Sì, e se io non fossi Diogene, piacerebbe anche a me essere Diogene”.
Gli studiosi e interpreti di ciò che sia stato Diogene reputano che lui avrebbe potuto essere il primo cinico, ma il cinismo di Diogene non sarebbe stata un’ondata di negatività e bile implacabili: a differenza dei cinici moderni, si ritiene che avesse una vena profondamente idealistica. Quando gli sarebbe stato chiesto da dove venisse, Diogene avrebbe detto che lui fosse “un cittadino del mondo”. La parola che avrebbe utilizzato sarebbe stata kosmopolites, da cui deriva il nostro “cosmopolita”, quindi, a rigor di termini, esprimeva fedeltà al cosmo pure se il termine sia solitamente tradotto come “cittadino del mondo”. Questo sarebbe suonato eretico per un greco antico perché per loro la forte fedeltà alla propria città-stato doveva essere la fonte della loro identità, sicurezza e rispetto di sé stessi.
Ma Diogene non sarebbe stato semplicemente uno che cercasse di disprezzare l’ortodossia e scioccare coloro che lo circondavano. La sua dichiarazione sarebbe stata piuttosto un segnale che prendesse la natura – il cosmo – come guida per la vita, anziché le leggi parrocchiali e spesso arbitrarie di una particolare città-stato. E tale cosmo, a parere suo, aveva le sue leggi. Piuttosto che schiavo delle usanze locali e dell’inchinarsi a quelli di alto rango, Diogene si sarebbe sentito responsabile nei confronti dell’umanità nel suo insieme. La sua lealtà sarebbe stata piuttosto verso la ragione umana, non inquinata da sciagurate preoccupazioni per la ricchezza e il potere. E la ragione, come Socrate sembrava di saper bene, sconvolgeva lo status quo.
Per molti potrebbe essere allettante vedere questo tipo di pensiero semplicemente come un’idea pittoresca ripescata dal museo della storia delle idee: una fantasia utopica. Il filosofo Nigel Warburton reputa, al contrario, che tale pensiero avrebbe un’importanza speciale per noi umani nel XXI secolo.
Pertinenza del cosmopolitismo di Diogene oggi secondo Warburton
Per meglio collocare il cinismo o base filosofica del cosmopolitismo di Diogene, si consideri che questa corrente di pensiero si sarebbe evoluta in ciò che viene denominato, dagli studiosi in materia, lo stoicismo.[2] Di fatto, aspetti del cosmopolitismo di Diogene avrebbero trovato eloquenti e raffinati difensori romani in Seneca, Cicerone e Marco Aurelio. Ma sarebbe stato Gerocle [3], nel II Secolo, a fornire il modo più utile per comprendere il concetto di base. Nella sua interpretazione di cosa fosse l’uomo avrebbe descritto l’individuo come una serie di cerchi concentrici. Il sé individuale occuperebbe il centro, poi si troverebbe la famiglia immediata, poi la famiglia allargata, i vicini, le città vicine, la propria nazione e infine, sull’anello esterno, l’intera razza umana. Il compito davanti a noi umani, credeva Gerocle, sarebbe quello di portare questi cerchi sempre più stretti verso il centro. Stando all’interpretazione degli studiosi per Gerocle dovevamo passare da uno stato di quasi indifferenza per l’umanità nel suo insieme, a uno stato in cui l’umanità sarebbe stata una parte importante della nostra preoccupazione quotidiana.
Quest’immagine cattura nitidamente la questione per chiunque sia attratto dal cosmopolitismo. Come possiamo considerarci cittadini del mondo quando sembriamo così naturalmente attratti dal centro, come sé individuale, stando al modello di Gerocle? In effetti, la domanda retorica sembra pertinente: perché dovremmo voler portare al centro l’umanità tutta, gli altri, visto che sembra andare così contro le nostre inclinazioni naturali? Invero, alcune religioni ci hanno incoraggiato a pensare in modo cosmopolita per millenni, dicendo che sarebbe volontà di Dio che riconosciamo un creatore comune e un’umanità comune. Il cristianesimo non sarebbe il solo ad affermare l’uguaglianza degli individui e la necessità di amare tutti come sé stesso. Tuttavia, anche se i credenti si considerano cittadini del mondo, almeno quanto sudditi di Dio, non sarebbe proprio quello che si dovrebbe intendere per cosmopolitismo stando a Nigel Warburton.
Warburton non pensa manco che si possa essere propriamente cosmopoliti solo avendo una qualche forma di governo mondiale con le nazioni come stati federali piuttosto che entità indipendenti, governo mondiale che dovremmo realizzare il prima possibile per evitare le catastrofi di guerra, distruzione ambientale e povertà. Stando a lui, pochi cosmopoliti sosterrebbero seriamente questo come il modo migliore per raggiungere una pace duratura. Nella sua opinione, sarebbe già abbastanza difficile impedire l’auto-distruzione di un’Europa connessa, e sarebbe un pio desiderio immaginare che la transizione verso un governo mondiale possa essere raggiunta senza innescare terrorismo e guerre nel processo, forse come vediamo per l’appunto oggi nella misura in cui il gendarme del mondo non accetta di condividere un paradigma multilaterale nell’esercizio del potere. Warburton considera (nota ibidem) inoltre che pure se il governo mondiale fosse effettivamente realizzabile, non sarebbe qualcosa che molte persone vorrebbero vedere realizzato, visti gli effetti corruttori del potere.
Quale speranza allora per il cosmopolitismo? Grande speranza, a suo avviso. Non come un manifesto per un governo mondiale o un movimento di carattere religioso ma come una posizione filosofica che trasformerebbe la nostra visione, un punto di partenza per pensare al nostro posto nella Terra e nel Cosmo.
Note
[1] Peter Singer – Ripensare la vita. Il Saggiatore, Milano, 1994. Peter Singer è uno dei pensatori contemporanei più importanti nel campo dell’etica, definito “il più influente filosofo vivente” con le sue tesi, sempre polemiche e al centro di dibattiti, ha incrinato le certezze morali dell’uomo occidentale e messo pericolosamente in crisi la “vecchia etica”. Enrica Tullio lo descrive come personaggio scomodo ma altrettanto affascinante e carismatico, conosciuto al pubblico soprattutto come il “profeta della liberazione animale” nonostante le sue riflessioni non si fermino ai diritti degli animali ma abbraccino ampie problematiche nel campo dell’etica e in particolare dell’etica applicata, che vanno dal rispetto per l’ambiente, all’aborto, dall’eutanasia, all’etica politica, dalla cattiva distribuzione della ricchezza, alla responsabilità dei paesi ricchi verso il Terzo Mondo.
Prima parte continua…
[2] La dottrina e la tradizione che, rifacendosi ai principi di Zenone di Cizio (sec. III-II a.C.), considerava il cosmo come un ordine razionale e provvidenziale, identificando la vera felicità nella virtù, e la sapienza nella serena accettazione degli eventi e specialmente del dolore e della morte, la quale poteva essere volontariamente ricercata quale mezzo per l’affermazione della dignità e della libertà spirituale individuale. Perciò viene identificato come fortezza d’animo esemplare o addirittura eroica di fronte al dolore e alla morte.
[3] Gerocle (II secolo d.C.) è stato un filosofo stoico. Si sa poco della sua vita. Aulo Gellio lo menziona come uno dei suoi contemporanei e lo descrive come un “uomo grave e santo”. Hierocles è conosciuto per un libro intitolato Elements of Ethics (greco: Ἠθικὴ στοιχείωσις), parte del quale fu scoperto come frammento di papiro a Hermopolis nel 1901. Questo frammento di 300 righe discute l’auto-percezione e sostiene che tutti gli uccelli, i rettili e i mammiferi dal momento della nascita si percepiscono continuamente e che l’auto-percezione è sia la facoltà primaria che la più basilare degli animali. L’argomento si basa fortemente su un concetto stoico noto come auto-proprietà o oikeiôsis, che si basava sull’idea che tutti gli animali si comporterebbero in modo auto-conservativo e non sarebbero solo consapevoli di sé stessi, ma sarebbero consapevoli di sé stessi in relazione ad altri animali. L’argomento di Hierocle sulla percezione di sé faceva parte del lavoro di base per un’intera teoria dell’etica. Alcuni altri frammenti degli scritti di Gerocle sono conservati da Stobeo. Il frammento più famoso descrive il cosmopolitismo stoico attraverso l’uso di cerchi concentrici rispetto all’oikeiôsis. Gerocle descrive gli individui come costituiti da una serie di cerchi: il primo cerchio è la mente umana, poi viene la famiglia immediata, seguita dalla famiglia allargata e poi la comunità locale. Poi viene la comunità dei paesi vicini, seguita dal tuo paese e infine l’intero genere umano. Il nostro compito, secondo Gerocle, sarebbe quello di attirare i cerchi verso il centro, trasferendo le persone nei circoli interni, rendendo tutti gli esseri umani parte della nostra preoccupazione.
Fonte: Hierocles, Frammenti etici di Hierocles conservati da Stobaeus, tradotto da Taylor, Thomas, Wikisource.come pubblicato in Taylor, Thomas, ed. (1822). Frammenti politici di Archytas e di altri antichi pitagorici.Chiswick, Regno Unito: Charles Whittingham. P. 75ss. Gerocle (II secolo d.C.) è stato un filosofo stoico. Si sa poco della sua vita. Aulo Gellio lo menziona come uno dei suoi contemporanei e lo descrive come un “uomo grave e santo”. Hierocles è conosciuto per un libro intitolato Elements of Ethics (greco: Ἠθικὴ στοιχείωσις), parte del quale fu scoperto come frammento di papiro a Hermopolis nel 1901. Questo frammento di 300 righe discute l’auto-percezione e sostiene che tutti gli uccelli, i rettili e i mammiferi dal momento della nascita si percepiscono continuamente e che l’auto-percezione è sia la facoltà primaria che la più basilare degli animali. L’argomento si basa fortemente su un concetto stoico noto come auto-proprietà o oikeiôsis, che si basava sull’idea che tutti gli animali si comporterebbero in modo auto-conservativo e non sarebbero solo consapevoli di sé stessi, ma sarebbero consapevoli di sé stessi in relazione ad altri animali. L’argomento di Hierocle sulla percezione di sé faceva parte del lavoro di base per un’intera teoria dell’etica. Alcuni altri frammenti degli scritti di Gerocle sono conservati da Stobeo. Il frammento più famoso descrive il cosmopolitismo stoico attraverso l’uso di cerchi concentrici rispetto all’oikeiôsis. Gerocle descrive gli individui come costituiti da una serie di cerchi: il primo cerchio è la mente umana, poi viene la famiglia immediata, seguita dalla famiglia allargata e poi la comunità locale. Poi viene la comunità dei paesi vicini, seguita dal tuo paese e infine l’intero genere umano. Il nostro compito, secondo Gerocle, sarebbe quello di attirare i cerchi verso il centro, trasferendo le persone nei circoli interni, rendendo tutti gli esseri umani parte della nostra preoccupazione.
Fonte: Hierocles, Frammenti etici di Hierocles conservati da Stobaeus, tradotto da Taylor, Thomas, Wikisource.come pubblicato in Taylor, Thomas, ed. (1822). Frammenti politici di Archytas e di altri antichi pitagorici.Chiswick, Regno Unito: Charles Whittingham. P. 75ss.
Articolo pubblicato su BIO Retroscena – Medicina costruzione sociale nella post-modernità – Anno XI – Numero 42 – giugno 2022