Un blog ideato da CeMON

13 Agosto, 2024

Pavel Florenskij e il reale come rete di ritmiche connessioni

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER

Ogni lunedì riceverai una ricca newsletter che propone gli articoli più interessanti della settimana e molto altro.
Tempo di lettura: 6 minuti

[et_pb_section admin_label=”section”]
[et_pb_row admin_label=”row”]
[et_pb_column type=”4_4″][et_pb_text admin_label=”Text”]

Pavel Florenskij (1882-1937) è la fulgida prova di come si possa trovare in Russia una declinazione della spiritualità platonico-cristiana non incentrata sul negativo, su ciò che è male ed è peccato, come nella linea che va da Lutero a Kant; ma sulla presenza del mondo spirituale come emanazione di ciò che è bene e santo. Da un lato l’ascesi di sottrarsi al mondo materiale, dall’altro la discesa e la manifestazione come emanazione della luce della grazia. “Non c’è niente di misterioso che non divenga evidente, e viceversa tutto ciò che è evidente nasconde in sé un mistero”.

 

Le Porte Regali

Nell’arte delle icone, quelle immagini non sono una mera rappresentazione allegorica del sacro, ma simboli viventi, chiare manifestazioni della luce della gloria divina da cui discendono. “Procedendo dal reale all’immaginario, il naturalismo offre una rappresentazione illusoria della realtà, una vuota parvenza della vita quotidiana; l’arte inversa, il simbolismo, dà invece corpo in immagini effettive a un’esperienza altra , e ciò che offre si fa in tal modo sublime realtà.”

Uno degli apici della cultura dell’Occidente, il Rinascimento, è anche un tradimento ed una perversione della spiritualità, quale invece è conservata nell’arte orientale delle icone. “A cominciare dal Rinascimento, la pittura religiosa dell’Occidente è stata tutta un falso artistico, e pur predicando a parole la somiglianza e la fedeltà alla realtà, gli artisti, senza avere rapporto alcuno con quella realtà che avevano la pretesa e l’ardire di raffigurare, non ritenevano necessario prestare ascolto nemmeno alle scarne indicazioni della tradizione della pittura di icone – cioè della conoscenza di com’è il mondo spirituale – che la Chiesa cattolica impartiva loro. La pittura di icone è invece la fissazione delle immagini celesti”.

Da una parte la prospettiva ed il naturalismo dei colori, dall’altro lo spazio come emanazione della aurea luce di Dio. Quella del naturalismo è in effetti un’arte illusionistica, ci allontana dalla realtà fornendocene un’illusione. L’arte deve invece comprendere la vita nella sua fedeltà alla multispazialità e multitemporalità del reale. La realtà è un’idea, un campo di forze, una forma. “Le forme devono essere comprese secondo la loro vita”.

“Nel fiorire della preghiera dei più sublimi asceti, ripetutamente le icone sono state non soltanto la finestra attraverso cui vedere i volti su di esse raffigurati, ma anche la porta dalla quale questi volti entravano nel mondo sensibile.” Non fisiognomica ed interpretazione psicologica, ma il volto come porta regale dello spirituale che si fa sensibile. “L’arte non è psicologica ma ontologica, essa è in verità rivelazione dell’archetipo”.
“L’icona è la rammentazione del prototipo superno”, ci ricorda e ci restituisce alla spiritualità che è già presente. 

L’arte occidentale è mimetica e sensuale. “La pennellata a olio ambisce non a ricostruire l’immagine, ma a imitarla, a sostituirla con sé stessa; non a razionalizzare, ma a sensualizzare, a creare un’immaginazione che colpisca i sensi ancor più di quanto succede nella realtà.” Se poi l’iconoclastia protestante ha virato piuttosto sulla essenzialità geometrica dell’incisione, lo ha fatto in nome di una libertà di coscienza che è però anche rifiuto della tradizione, ed è pertanto un altro modo di sostituire un’impostura ed un inganno al fulgido rilucere dell’idea di Dio. “Il pensiero protestante è un inebriamento per sé stessi che va predicando una sobrietà imposta con la forza».
“Per dirla in breve, la pittura di icone è una metafisica dell’essere: non una metafisica astratta, bensì concreta. Mentre la pittura a olio è oltremodo adibita a trasmettere il dato sensibile del mondo, e l’incisione il suo schema razionale, la pittura di icone esiste come manifestazione visiva dell’essere metafisico di quanto da essa è raffigurato.”

Florenskij rivendica al Cristianesimo orientale ed alla sua arte delle icone una superiore concezione della spiritualità, rispetto al Cristianesimo occidentale, sia pure nelle sue ben differenti forme del Cattolicesimo e del Protestantesimo. “Noi non siamo affetti dalla superbia protestante – kantiana, che non vuole accettare nemmeno da Dio il succo pieno e la vita del mondo solo perché il mondo ci è dato , ci è donato, è creato per noi e non da noi.” E nondimeno: “Noi non neghiamo la verità dei colori, la verità cattolica, anche se nella sobrietà spirituale i colori stessi si spiritualizzano, si fanno più trasparenti, più puri, sono pervasi di luce e, abbandonando ogni terrenità, diventano simili alle pietre preziose, a questi coaguli di raggi planetari.” L’arte delle icone si nega anche il chiaroscuro, il gioco di luce ed ombra. “Nella pittura l’artista vuole cogliere l’oggetto come qualcosa di per sé reale e contrapposto alla luce; attraverso la sua lotta con la luce – ovvero attraverso le ombre, con l’aiuto delle ombre – l’oggetto rivela allo spettatore sé stesso, come realtà. Nella concezione che ne ha la pittura, la luce è soltanto il pretesto dell’autorivelazione delle cose. Per il pittore di icone, al contrario, non c’è realtà oltre alla realtà della luce stessa e di ciò che essa produce.”

In questo intreccio di arte, religione e filosofia è ad una profonda comprensione della verità e del suo rivelarsi che Florenskij invita: “È questa la particolare caratteristica della verità: avere una grande superiorità rispetto all’immagine, ma non essere in contrapposizione né in contraddizione con essa”.

L’autoevidenza invece della coscienza meramente razionale non è in grado di cogliere l’autentica esperienza della vita ed il suo incontro con ciò che è altro e la trascende.

 

Ho contemplato il mondo come un insieme

Già rinchiuso in un gulag staliniano, alcuni mesi prima di essere fucilato nel 1937 Florenskij scrive al figlio in una lettera: “Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione”. Una continua dialettica del pensiero, un’epifania del carattere intuitivo e spirituale della verità nelle intersezioni tra filosofia, religione, matematica, fisica, biologia, teoria dell’arte, etica.

A Florenskij è sempre e da diverse prospettive interessato come “ciò che veramente esiste si contrappone alla mera apparenza; ciò che è ontologicamente consistente all’effimero”.
Il reale è inteso da Florenskij come una rete di ritmiche interconnessioni tra ciò che esiste a livello di micro- e di macro-cosmo (Lubomir Zack, uno studioso di Florenskij, ha ben evidenziato questo aspetto).

“Il mormorio del mare è un’orchestra di un’infinità di strumenti. C’è un suono che è simile a questo mormorio quanto a ricchezza e che sorge anch’esso dalle viscere dell’essere. È la trina dei ritmi che si inseguono e si scavalcano l’uno con l’altro quando cadono le gocce – ancora gocce! – nelle caverne in cui l’acqua cola dalle volte e dalle pareti. E anche in quei ritmi si odono altri ritmi, e ancora una volta all’infinito.”

La complessità del reale è straordinariamente evidente nella vita. “La vita è infinitamente più ricca delle definizioni razionali e perciò nessuna formula può contenere tutta la pienezza della vita. Quindi nessuna formula può sostituire la vita stessa nella sua creatività, nella sua capacità di produrre il nuovo a ogni momento e in ogni luogo”. La complessità spiega la realtà della vita, e la vitalità della realtà. “La realtà è viva, in essa non v’è nulla di esteriore, di convenzionale, nulla che non incarni in sé l’intuizione dell’interno. In ogni minima parte si schiude l’interno, la sua profondità misteriosa, la sua perfezione affascinante e generatrice di gioia. Tutto esprime l’intero e l’intero è davvero nel tutto, e non accanto a esso”. La conoscenza deve instaurare una relazione viva, vitale e concreta con ciò che conosce. Bisogna imparare ad ascoltare empaticamente. “Noi conosciamo una cosa non perché la vediamo, la udiamo, la fiutiamo e la tocchiamo, ma al contrario: se vediamo, udiamo, fiutiamo e tocchiamo, è perché già prima conosciamo la cosa, cogliendola (anche se inconsciamente o al di sopra della coscienza) nella sua autenticità e nella sua realtà diretta”.

Il realismo di Florenskij poggia evidentemente sulla fede in Dio. “Dio è attorno a noi, presso di noi, ci circonda”. “La scienza del prossimo futuro deriverà interamente dall’idea di creazione e di Forza Sovrannaturale, che penetra ogni cosa e ogni cosa rende viva.”

 

Verità come ethos

Utilizziamo in conclusione di nuovo un titolo di un saggio di Lubomir Zack su Florenskij. Verità come ethos.

Florenskij si è sempre voluto opporre alla concezione riduzionista e frammentaria del mondo propria del positivismo e del marxismo.
Dal punto di vista ontologico e metafisico, non vi è per Florenskij che un unico mondo. Ma dal punto di vista etico rimane il dualismo della continua ricerca a potersi ulteriormente perfezionare.

L’Amore è la via della conoscenza della Verità. Amare significa lasciarsi guidare dalla Verità, è un totale affidarsi dell’uomo alla Verità, che è quella della Trinità di Dio. L’uomo porta in sé questa immagine di Dio-Trinità, e ad essa deve informare la sua personalità e la sua attività auto-edificatrice.

La dialettica trinitaria, che il Cristianesimo d’Oriente fu da principio più restio ad accettare, ritrova nella teologia ortodossa di Florenskij nuova forza propulsiva dello spiritualismo oggi ispirato al Cristianesimo.

[/et_pb_text][/et_pb_column]
[/et_pb_row]
[/et_pb_section]