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8 Ottobre, 2024

Naomi Klein. Il mondo allo specchio

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Naomi Klein, nata nel 1970, è una giornalista canadese, divenuta molto famosa per il suo libro No Logo, pubblicato nel 2000 e divenuto un testo di riferimento del movimento No Global.

Branding

Risale, secondo l’analisi di Naomi Klein, agli anni Ottanta del secolo scorso la trasformazione del capitalismo in nome del branding. Teorici del marketing e del management delle grandi aziende concepirono l’idea che l’obiettivo strategico fosse, più che di produrre prodotti, di produrre marchi. La fabbricazione dei prodotti poteva essere appaltata sotto costo altrove, alla periferia del mondo globale, all’interno del quale invece diveniva preliminare proporre uno stile di vita nel quale il consumatore potesse riconoscersi. La pubblicità non era più semplicemente advertising, informazione commerciale, ma appunto branding, diffusione di un marchio. I prodotti non dovevano rimanere anonimi, ma attirare il consumatore per l’appeal del marchio che li contraddistingue.

Questa strategia ebbe una passeggera crisi una decina d’anni dopo, dato l’impatto di campagne pubblicitarie che puntavano soprattutto sull’offerta ad un prezzo ridotto, cioè sulla convenienza dei prezzi piuttosto che sul valore aggiunto dell’immagine. Ma le grandi aziende hanno saputo e voluto riposizionarsi per sfuggire alla concorrenza verso il basso, e rinforzare invece la premialità della seduzione della loro immagine e del loro marchio. Si è instaurata una schizofrenia tra umili venditori a prezzi bassi ed il glamour di marchi come stili di vita.

Questa evoluzione del capitalismo diviene sempre più invasiva. Ovunque guardiamo, rischiamo di trovarci rinchiusi in un cliché fatto di immagini pubblicitarie. “Ciò che mi ossessiona non è tanto l’assenza di spazio reale, quanto un profondo desiderio di spazio metaforico: liberazione, evasione, libertà senza confini.” Ogni stile di cultura alternativa diviene a sua volta un marchio, secondo la logica di mercato che già i situazionisti avevano evidenziato.

Tutto può diventare cool. Anzi i marchi sanno anche prendersi in giro. Fuori moda è di moda. “I tentacoli dei marchi raggiungono ogni minima fenditura della cultura giovanile, filtrano i contenuti dell’immagine del marchio non solo dalla vita di strada e dalla musica hip hop, ma anche da atteggiamenti come l’astrazione ironica.”

Ed il branding si è largamente insinuato anche nel mondo dell’istruzione, dove la gestione autonoma ha indotto Scuole ed Università a ricercare sponsor e supporto dalle aziende e dai loro marchi, a partire dal fatto che hanno cominciato esse stesse a comportarsi come aziende. “Le sponsorizzazioni sono un buon punto di partenza, ma le sinergie e i marchi che caratterizzano uno stile di vita sono la logica conclusione”.

Quella che ovunque viene chiamata sinergia è anche il groviglio indistinto, in nome del marchio, di legami tra settori ed industrie. Al branding piace la fluidità di una società liquida.

I marchi creano un mondo surrogato come una globale zona comfort. “La tremenda ironia di questi surrogati è che si stanno dimostrando estremamente competitivi rispetto alle loro controparti autentiche: i veri centri cittadini, le imprese commerciali indipendenti, la versione non disneyana degli spazi pubblici, le arti contrapposte ai prodotti culturali sinergizzati, la libera, per quanto disordinata, espressione delle idee”.

Ma lo stesso processo produttivo è stato trasformato ed alienato. Se occorre produrre marchi più che prodotti, la fabbrica viene negata e sostituita da Zone Economiche Speciali, luoghi di assemblaggio, modificazione e smistamento di merci in regimi fiscali speciali e con scarse garanzie per i lavoratori. È il volto globale del lavoro a cottimo e del caporalato, dato che la globalizzazione paradossalmente convive con una sommersa attività di subappalto e deregolamentazione del processo produttivo. “I lavori in fabbrica sono commissionati a terzi, quelli del settore tessile sono svolti sempre più spesso a domicilio, in ogni settore industriale contratti temporanei stanno sostituendo le assunzioni a tempo indeterminato”.

Per attrarre investimenti, “i governi dei Paesi poveri offrono agevolazioni fiscali, normative flessibili e la disponibilità di forze militari capaci e ansiose di soffocare qualsiasi agitazione operaia”. Naomi Klein ha analizzato per esempio la zona industriale di esportazione di Cavite, nelle Filippine. Una sorta di sobborgo industriale futuristico dove tutto è ordinato, dove si trovano quasi invisibili più di 200 fabbriche, i cui lavoratori vivono in baraccopoli limitrofe o in annessi dormitori.

“La transitorietà connaturata alle zone di libero scambio è solo l’estrema manifestazione dell’abbandono del mondo del lavoro da parte delle aziende, fenomeno questo che si sta ormai verificando a ogni livello industriale”.

Egualmente risultano precarizzati i settori della vendita al dettaglio e dei servizi (nella ristorazione). Tanto più che un elemento sempre più determinante di questo nuovo capitalismo è la vendita online, dietro cui ci sono comunque altre forme di sfruttamento. Fornire un salario dignitoso non è un onere delle aziende. I lavoratori vengono per così dire presi in prestito, come è inteso il lavoro interinale. Vengono assunti lavoratori giovani, precari e meno onerosi. Ad un giovane al di sotto dei trent’anni viene offerto un lavoro come un’esperienza sottopagata o come un apprendistato non retribuito, immaginando che egli non abbia necessità di mantenersi. Una trasformazione in ogni caso del terziario in un ghetto sottopagato.

O comunque il largo impiego di una flessibilità che è una cinica leva di profitto, una fonte di ricchezza per i top manager, ma anche una ragione di precarizzazione come sfruttamento. “Ciò che risalta da questa tendenza di collegare la remunerazione dei dirigenti con le performance di Borsa è una cultura aziendale così malata che i lavoratori spesso devono essere licenziati o sottopagati perché i capi possano ricevere un compenso”.

L’utopia ideale di una società in cui ognuno possa essere free agent, agente di se stesso e dipendente di nessuno, mal cela il fatto che, veicolato dall’egemonia dei marchi, si è fatto strada un capitalismo non sostenibile.

Una Rivoluzione ci salverà?

Del 2014 è il libro di Naomi Klein intitolato This changes everything. Capitalism vs the Climate, tradotto in italiano con il seduttivo titolo Una rivoluzione ci salverà. Perchè il Capitalismo non è sostenibile.

“Di fronte ad una crisi che minaccia la sopravvivenza della nostra specie, tutta la nostra cultura continua a fare quanto ha provocato la crisi, però con uno sforzo in più”. Nelle maniere più diverse, di fronte ai segni della crisi ecologica incombente distogliamo lo sguardo: “neghiamo la realtà della crisi in tutta la sua forza perché temiamo che finirebbe per cambiare tutto. Ed è proprio così”.
Ma – suggerisce Naomi Klein – la buona notizia è che adottare alcuni radicali cambiamenti potrebbe essere entusiasmante.

“Ho iniziato a vedere gli svariati modi in cui il cambiamento del clima potrebbe diventare una forza catalizzatrice per una trasformazione generale positiva”. Nessun argomento migliore: “Per chiedere la ricostruzione e il rilancio delle economie locali, per bonificare le nostre democrazie dall’influenza corrosiva delle corporation […] per investire nelle infrastrutture pubbliche […] per riprenderci la proprietà di servizi essenziali come l’energia e l’acqua […] per aprire i confini ai migranti in fuga a causa degli impatti climatici”.

È compito di una cultura progressista, secondo Naomi Klein, sottrarre i temi della crisi ecologica ad un’ennesima elitaria dottrina autoritaria dello shock, e farne invece un costruttivo shock del popolo, un agente radicale di cambiamento“. Abbiamo di nuovo l’occasione di proporre politiche che migliorino drasticamente la vita della gente, che riducano il divario tra ricchi e poveri, che creino un enorme numero di buoni impieghi e che infondano un nuovo vigore alla democrazia partendo dalle fondamenta”.

Lo shock allo specchio

In un recente libro, Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio (2023), Naomi Klein ha voluto riflettere sullo spaesamento di uno shock, quello della pandemia di Covid, che ci ha visto tutti attori e non solamente spettatori di un disastro. Se “uno shock è il divario che si apre tra l’evento e le narrazioni disponibili per spiegarlo”, il mondo durante il lockdown è entrato in una vertigine che ne ha reso difficile un racconto critico. Lo shock si rifletteva allo specchio più che invitare ad un risveglio critico. “La diffusione di menzogne e complotti online è oggi così diffusa da mettere in pericolo non solo l’assistenza sanitaria pubblica ma anche la sopravvivenza della democrazia rappresentativa.”

A ciò si intrecciava, nella vita di Naomi Klein, il suo essere rigurgitata, dalla sua solitudine, nelle continue manifestazioni ed esternazioni di un alias, un Doppelgänger, una sua sosia, invero un’altra Naomi (Naomi Wolff) con la quale ad un certo punto cominciò, nella comunicazione dei social, ad essere sistematicamente scambiata. Naomi Klein è piuttosto caustica sull’altra Naomi: una scrittrice inizialmente femminista e autrice poi di post e libri nei quali si faceva fautrice di teorie del complotto fino anche a tesi negazioniste a riguardo del Covid; la parabola di una persona di sinistra e liberal che passa alla destra radicale e autoritaria. Espressione “dell’isteria antivax e del fascismo rampante”: questo il giudizio tranciante di Naomi Klein sull’altra se stessa, su Naomi Wolf che ha scelto di appartenere al Mondo Specchio, un mondo di comunicazione sociale uguale a quello rappresentativo della democrazia, ma deformato. Naomi Klein prende sul serio la sua doppelgänger, cerca di riconoscere che nella resa di un pensiero critico si insedia un pensiero duale e manicheo, che è essenzialmente fascista. Naomi Klein ha voluto esorcizzare e confrontarsi con la sua immagine riflessa, l’Altra da sé che diveniva leader di movimenti a suo modo di vedere forse ridicoli, chiacchiere sconclusionate ma la cui invasività deve essere presa sul serio.

“E, in breve, ho collegato tutto questo a un altro tipo di sdoppiamento, assai più pericoloso: la deriva ancestrale per cui razza, etnia e genere creano “doppi” che condannano intere categorie di persone marcate come nemico – da – combattere: Terrorista, Ladro, Puttana, Nero, che deve stare al suo posto.”

Dietro le nuove teorie complottiste o negazioniste c’è insomma, secondo Naomi Klein, il vuoto di una società che si specchia in un nemico immaginario: piuttosto che individuare ciò contro cui realmente sia possibile richiedere un cambiamento, e le reali motivazioni che debbono sostenerlo. Il Mondo Specchio ha assunto e stravolto le lecite critiche dei movimenti noglobal di sinistra, stravolgendole in un populismo reazionario e fascista. “Temi che erano i nostri cavalli di battaglia con il tempo avevano perso d’attrattiva. E ora venivano usurpati dai loro “doppi” deformati del Mondo Specchio.”

“Il punto è uscire da questa vertigine collettiva per arrivare, insieme, in un luogo decisamente migliore.”. Secondo quelle che erano le migliori aspettative per un mondo post-Covid.

E tuttavia, ciascuno di noi è diventato il brand di se stesso, in una forma universale di sdoppiamento. “Il self branding è un’altra forma di doppelgänger, una sorta di sdoppiamento intimo.”

Nel mondo virtuale si generano continuamente sosia di noi stessi. I nostri dati personali vengono estratti, venduti a terzi, proiettati in profili virtuali. La nostra memoria cache è il patto faustiano dell’era informatica. “Ora che le macchine ci hanno divorato, ingozzandosi di molti dei nostri modi di fare e delle nostre stranezze, sono in grado di creare repliche piuttosto credibili di noi stessi quasi all’istante”.

Più che innamorarci del nostro riflesso, dovremmo vivere un’esistenza dalla quale non aver bisogno di evadere.