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14 Dicembre, 2024

L’intelligenza può essere concettualizzata come un’euristica a forma di ominide!

Non lasciatevi fuorviare dal titolo di quest’editoriale. Si tratta di un’argomentazione alquanto divertente, se ci guardiamo allo specchio con ironia!

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Tempo di lettura: 23 minuti

BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno XIII • Numero 52 • Dicembre 2024

 

Che cos‘è, esattamente l’intelligenza?

Parlando al bar, intuitivamente possiamo accettare che i bambini siano intelligenti e, forse, perfino i meravigliosi cani della razza border collie. Indubbiamente, in una conversazione del genere possiamo ugualmente negare, senza controversia, che i gamberi e le muffe melmose abbiano intelligenza. Si può anche discutere all’infinito quali tipi di uccelli possano essere considerati intelligenti. Ma, in realtà, non è possibile rispondere, metodicamente, a queste domande finché non abbiamo affrontato la questione di fondo, vale a dire cosa intendiamo, effettivamente, per intelligenza.

Al riguardo, Abigail Desmond,1 docente di biologia evolutiva umana presso l’Università di Harvard, con un dottorato di ricerca in archeologia paleolitica presso l’Università di Oxford e con una ricerca concentrata sull’intersezione tra tecnologia, biologia e cognizione, in particolare nella discendenza umana, ci avverte che le nostre menti umane ci impediscono di comprendere, veramente, i molti modi brillanti in cui gli altri organismi viventi risolvono i loro problemi. Dello stesso parere è Michael Haslam, archeologo che studia l’evoluzione dell’uso degli utensili negli animali umani e non umani e che lavora presso il sito neolitico, patrimonio dell’umanità, di Skara Brae nelle isole Orcadi, in Scozia.

Dunque, torniamo, come cifra del nostro impegno in BIO, ad un’argomentazione circa una nozione di utilizzo quotidiano, ma che uscendo dalla camera di eco dell’establishment, la nozione diventa problematica se la si tratta fuori dei paradigmi di pensiero convenzionale. Dunque, scusateci se vi domandiamo ancora perché chiamiamo pera il frutto del pero. In termini profani, l’argomentazione potrebbe iniziare con la domanda che cos’è, esattamente, l’intelligenza, come davvero abbiamo fatto. In tal caso, l’argomentazione è piuttosto nominalista, vale a dire che gira attorno alla definizione della nozione. Tuttavia, la discussione potrebbe avviarsi chiedendoci piuttosto chi o che cosa avrebbe, effettivamente, intelligenza. Oppure, ancora più accuratamente, cosa riteniamo come vita intelligente. Infatti, questa è la traiettoria di Desmond e Haslam nel loro saggio What is intelligent life? La domanda, indirizzata in questi termini, risulta ancora più pertinente in un contesto dove si parla ormai quotidianamente, come concetto ben compreso da tutti, di intelligenza artificiale.

Iniziamo ad affrontare il tema declinandolo nella domanda relativa a cosa avrebbe, in effetti, intelligenza, anche perché formulata in questi termini risulta più provocatoria in quanto apre alla possibilità a che non siamo solo noi, umani, ad averla. Vediamo di questo elenco, secondo  noi, cosa avrebbe davvero intelligenza. Le muffe melmose? Le formiche? I bambini di quinta elementare? I gamberetti? I neuroni? I banchi di pesci? La ChatGPT? Il border collie? Le folle? Gli uccelli? Tu ed io? Tutti i precedenti avrebbero intelligenza? Soltanto alcuni di quest’elenco ne hanno? Oppure, a rischio di sembrare eversivo: forse nessuno?

La domanda è perenne, spesso rispolverata di fronte a comportamenti animali precedentemente sconosciuti o a nuovi dispositivi informatici addestrati a fare cose umane e poi a farle bene. Pssiamo, intuitivamente, sentire la nostra strada da seguire, scegliendo, in particolare, di accettare che il border collie e bambini abbiano intelligenza. Potremmo scegliere di negare il possesso di intelligenza ai gamberetti e alle muffe melmose e potremmo, ugualmente, rimanere a discutere all’infinito sui diversi uccelli che possano avercela o no. Ma, come accennato all’inizio, in realtà, è impossibile rispondere a questa domanda finché non abbiamo affrontato il problema di fondo: cos’è o cosa potrebbe essere ritenuta, concretamente, l’intelligenza?

Stando a Desmond e Haslam, invece di una cosa, misurabile e quantificabile, che esiste indipendentemente nel mondo, suggeriamo che l’intelligenza sia considerata un’etichetta, fissata dall’umanità su una borsa piena di un miscuglio di tratti indipendenti che hanno aiutato i nostri antenati a prosperare. Sebbene generalmente le persone poco avvezze alla materia considerino l’intelligenza come un insieme coerente, essa rimane, dal punto di vista di Desmond e Haslam,  mal definita perché, in realtà, essa può essere ritenuta piuttosto come un insieme di aspetti mutevoli mascherato da una cosa sola. In effetti, loro sostengono che sia proprio difficile quantificare, empiricamente, l’intelligenza perché esiste solo in relazione alle nostre aspettative, aspettative che sono umane e, per di più, individuali per determinati umani.  Per questo motivo, proprio come nell’Inquisizione spagnola dei Monty Python, l’intelligenza spesso si presenta dove meno ce l’aspettiamo.

 

 

La nostra nozione di intelligenza raffrontata alla sopravvivenza degli altri organismi nel biota Terra

Come ci ha insegnato la nuova conoscenza sulla manifestazione fenomenologica che chiamiamo vita, allontanatasi da una lettura antropocentrica del fenomeno, l’intelligenza non sarebbe affatto fondamentale per il successo della maggior parte della vita sulla Terra. Consentiamoci una disobbedienza alla visione tradizionale della vita e dell’intelligenza e consideriamo le erbe: esse sono sbocciate in ambienti globali incredibilmente diversi, senza pianificare o discutere un singolo passo. I vermi planari fanno ricrescere qualsiasi parte del loro corpo e sono funzionalmente immortali, un trucco che noi umani possiamo realizzare solo nei racconti di fantascienza. Oppure consideriamo che un virus microscopico ha, effettivamente, bloccato il movimento umano globale nel 2020, senza avere alcuna idea di cosa siano gli esseri umani.

Sebbene gli archeologi, come lo sono Desmond e Haslam, abbiano una maggior facilità per comprendere che l’intelligenza non sia fondamentale per il successo della maggior parte della vita sulla Terra, tuttavia, quando proprio come archeologi cercano di seguire o tracciare il successo o le realizzazioni della nostra specie nel corso dei millenni, anche per loro la tentazione è quella di legare queste riuscite a qualche singolo tratto oggettivo, ad una luminosa stella guida. Ed è proprio qui che entra in gioco il concetto di intelligenza. In effetti, per gli studiosi dell’evoluzione il nostro successo evolutivo sembra mappare, direttamente, sulla nostra intelligenza, evidenziatasi attraverso l’invenzione di strumenti sempre più elaborati da parte dei nostri bis-bis-bis-bisnonni sempre più intelligenti. In questa visione e versione pervasiva, anche se stilizzata e ristretta, della storia umana, asce di pietra e fusarole simboliche hanno  portato inevitabilmente all’agricoltura, alla scrittura e ai paesaggi meccanizzati, ponendo le basi per i trionfi più recenti, tra cui la vittoria di guerre e premi Nobel, l’accumulo di ricchezze, e raggiungere la Luna – prima, preferibilmente.

Nonostante la sua natura nebulosa, l’intelligenza è stimata come molto importante per noi e, quindi, la cerchiamo dappertutto negli altri: nei partner romantici, negli animali domestici, nei leader, negli amici e nei colleghi. A volte infonderemmo intelligenza in oggetti di uso quotidiano, macchinosi o anche utili. Un esempio particolare di questo avviene quando siamo aiutati da una nuova app per smartphone o scoraggiati dal non poter utilizzare un lucchetto machiavellico. Costituisce una peculiarità su cui ci interroghiamo e di cui dibattiamo all’infinito sull’esistenza2 negli animali non umani (d’ora in poi, animali), dagli elefanti selvatici e dai delfini alle scimmie e ai gatti in gabbia. Attualmente si compiono enormi sforzi per cercare di comprendere l’intelligenza e costruirne una quantità molto maggiore, sotto l’egida dei programmi di intelligenza artificiale (AI). Essa sarebbe anche una parte fondamentale di ciò che speriamo di trovare nella vita aliena, reso esplicito3 nella lunga ricerca di intelligenza extraterrestre (SETI).

Ma nonostante si assuma che faciliti la portata globale della nostra specie, l’intelligenza, stando ai nuovi filoni di ricerca, rimarrebbe notoriamente difficile da definire. Quando vengono pressati, gli studiosi spesso punterebbero ad abilità mentali più trattabili come l’astrazione, la risoluzione dei problemi, l’efficienza, l’apprendimento, la pianificazione, la cognizione sociale e l’adattabilità, persino il calcolo o la capacità di riconoscersi allo specchio, anche se discutono su quali siano quelle più dimostrabili comportamenti intelligenti. In effetti, questa pluralità sarebbe proprio ciò che dovremmo anticipare: l’intelligenza non è e non è mai stata un’entità unica. Si tratta, invece, di un’euristica 4 a forma di ominide,5 un modo per noi di percepire facilmente caratteristiche apprezzate nelle altre persone. Come la bellezza, sta negli occhi di chi guarda. E proprio come non possiamo aspettarci di automatizzare la lente personale e mutevole attraverso la quale ognuno di noi vede la bellezza, la ricerca di qualcosa come l’intelligenza artificiale generale (AGI) non coglie il punto: nulla che riguardi l’intelligenza ha senso se non alla luce dell’umanità, e delle nostre proprie percezioni evolute.

 

Nulla nell’ambito dell’intelligenza ha senso se non alla luce dell’umanità e delle nostre percezioni

Il mondo naturale trabocca di animali che vedono, sentono, odorano e sentono in modi molto diversi dai nostri, oltre a vivere in condizioni che ci schiaccerebbero, congelerebbero, dissolverebbero o cuocerebbero vivi. Esistono anche una moltitudine di organismi più piccoli e unicellulari che prosperano in modi che non si adattano facilmente alla nostra scala di realtà, per non parlare dei regni delle piante e dei funghi là fuori. Ogni specie vivente oggi può essere considerata nostra pari nel gioco del successo, per la semplice virtù della continua esistenza. Fisicamente parlando, gli umani saremmo un mammifero mediocre con una strana disposizione dei capelli, un dorso poco evoluto e una bocca che non si adatta più a tutti i nostri denti adulti.

Questa pochezza della nostra condizione di mammiferi, giudicano Desmond e Haslam, sarebbe il motivo per cui ci piacerebbe davvero il cervello.

Nell’euristica relativa all’intelligenza, riferiscono Desmond e Haslam, la dimensione assoluta del cervello, la dimensione relativa del cervello, l’organizzazione del cervello e la densità neuronale sono state tutte utilizzate per prevedere dove emergerà l’intelligenza. Tra gli animali viventi, l’Homo sapiens ha il quoziente di encefalizzazione più alto, il che significa che il nostro cervello è molto più grande di quanto previsto per le nostre dimensioni corporee. Questo, sostengono Desmond e Haslam, gioca a favore della nostra vanità, ma alcuni degli animali più intelligenti, là, fuori dalla nostra soggettività, hanno un cervello abbastanza diverso dal nostro: le seppie, ad esempio, fanno affidamento sui neuroni dei loro tentacoli per risolvere problemi complessi. I pappagalli grigi africani hanno l’intelligenza di un bambino umano, ma un cervello molto più piccolo di quanto ci si potrebbe aspettare. I toporagni, d’altro canto, posseggono densità neuronali tra le più alte tra i mammiferi ma, per ironia della sorte, non sono particolarmente astuti. Le vespe scavatrici dal cervello minuscolo utilizzano strumenti, come documenta la ricerca di Jane Brockmann6 e le farfalle monarca eseguono migrazioni annuali che attraversano i continenti. I cervelli grandi sembrano importanti per l’intelligenza umana, ma la vita trova altri modi per avere successo e declinarsi.

A complicare ulteriormente la situazione riguardo la nozione convenzionale di intelligenza, bisogna prendere atto che il comportamento intelligente delle persone non è sempre il risultato di una scelta consapevole o di una strategia razionale, ma può derivare da processi autonomi. Sotto quest’aspetto, Desmond e Haslam7 sostengono che l’emergere cognitivo di intuizioni, presentimenti e sensazioni istintive può spesso essere attribuito a sistemi di ordine inferiore, come il sistema nervoso simpatico o l’amigdala, o manifestarsi come risposte subliminali o subconsce condizionate a segnali ambientali.

In alcuni contesti iconoclastici, il cervello stesso viene giudicato come un candidato scadente per il luogo dell’intelligenza. I sostenitori dello sciame o dell’intelligenza collettiva ci dicono che l’attività del problem-solving9 Paradossalmente, consideriamo l’intelligenza un indicatore del successo individuale, eppure esiste sia come collettivo dei nostri neuroni, sia come aggregato di comportamento collettivo. Per parafrasare un personaggio della fiction, Inigo Montoya, continuiamo a usare questa parola, ma forse non significa ciò che pensiamo significhi.

L’intelligenza sarebbe un’etichetta che noi umani usiamo per aiutarci a dissezionare il mondo

Come ci insegnano le discipline sperimentali se aspiriamo all’ottenimento di risultati uguali non dovremmo partire da definizioni operazionali diverse dello stesso concetto. Perciò, se vogliamo continuare a parlare di intelligenza, dobbiamo almeno assicurarci di parlare della stessa cosa. A tale riguardo, Desmond e Haslam propongono come punto di partenza di intendere la nozione di intelligenza come un’etichetta che gli umani usano per aiutarsi a dissezionare o analizzare il mondo. L’esistenza dell’etichetta, tuttavia, non significa automaticamente che ci sia una singola cosa vera a cui essa corrisponda. Proprio come, qualche secolo fa, avere la parola flogisto10 non garantiva l’esistenza di una sostanza speciale contenuta in materiali combustibili. Ciò potrebbe sembrare ovvio, ma intende sottolineare che, in ultima analisi, siano le persone a scegliere e nominare ciò che conta. Di conseguenza, per rispondere alla domanda su cosa sia l’intelligenza, dobbiamo prima riconoscere che siamo noi, umani di un certo stadio evolutivo, a porre quella domanda.

A differenza della maggior parte degli altri organismi, di solito non risolviamo i nostri problemi con parti del nostro corpo. Non abbiamo bisogno di avere la piuma più calda, i denti più affilati, le secrezioni cutanee più tossiche o laringi ottimizzate per l’ecolocalizzazione. Invece, pensiamo alle cose e poi modifichiamo i nostri ambienti a nostro vantaggio. Creiamo strumenti, impieghiamo strategie, costruiamo habitat complessi e spostiamo simboli. È così che funzioniamo noi umani. Dunque, in effetti, l’intelligenza non si riferisce a un singolo tratto o qualità misurabile ma piuttosto indicizza comportamenti e capacità che sono emersi in momenti diversi nel corso della storia evolutiva della nostra specie. Piuttosto che un pacchetto che è saltato fuori e messo in esistenza completamente formato in un singolo momento, questo patchwork di vantaggi selettivi si è accumulato nel corso di molti millenni. Nessuna sorpresa, quindi, che i tratti riconoscibili da noi come intelligenza si verifichino, quasi esclusivamente, negli umani moderni.

Da una prospettiva evolutiva, l’intelligenza si è evoluta e si sta evolvendo. Circa 7 milioni di anni fa, i nostri ultimi antenati comuni con gli scimpanzé, si può ipotizzare, erano già capaci di comportamenti culturali e di usare utensili, e probabilmente avevano una comprensione avanzata della causa e dell’effetto fisici. Circa 3,4 milioni di anni fa, la nostra intelligente bisnonna Lucy l’australopiteco realizzò, e poi utilizzò, utensili di pietra affilati per tagliare strategicamente la carne. L’accesso alla carne diede ai suoi discendenti l’energia extra di cui avevano bisogno per alimentare i loro costosi tessuti cerebrali, con i quali formularono poi strumenti e strategie sempre più complicati. Quindi, dopo queste ipotesi e supposizioni si potrebbe postulare che l’intelligenza sia un modo in cui identifichiamo tratti concomitanti che, nella nostra specie, probabilmente significano successo.

Da quel momento, stando alla ricerca, si suppone che la nostra stirpe abbia raddoppiato l’intelligenza come strategia di investimento. I nostri antenati Homo erectus, da 1,8 milioni di anni fa, ci hanno dotato della capacità di cacciare, forse di cucinare e di realizzare strumenti elaborati come asce, imbarcazioni e fasce porta-bambini. In quest’ordine di idee e interpretazioni si può suggerire che, la crescente necessità di trasferire conoscenze e coordinarsi strategicamente tra loro, diede un vantaggio selettivo a coloro che erano buoni comunicatori. Inoltre, potremmo lasciarci ispirare da Desmond e Haslam11 e considerare che un qualche tipo di discorso probabilmente gorgogliò tra 2 milioni e 500.000 anni fa, tra l’Homo erectus e il nostro ultimo antenato comune con i Neanderthal e i Denisoviani. La capacità di codificare informazioni esternamente, in media simbolici come perline, bastoncini di conteggio, tatuaggi o pitture rupestri, riporta anche a uno dei nostri antenati del Pleistocene medio. Ciò che appare chiaro è che la nostra specie abbia preso questa palla e ci sia corsa dietro, inventando la scrittura, il cemento, gli iPhone, le camere di commercio e i computer quantistici, tutto negli ultimi 10.000 anni.

Dunque, guardando indietro e superando la nozione superficiale dell’intelligenza, ha senso proporre che l’intelligenza umana sia difficile da definire. L’intelligenza non sarebbe una singola qualità empirica e positivista che esiste in natura. L’intelligenza, come considerano, Desmond e Haslam, sarebbe un modo in cui identifichiamo tratti co-occorrenti che, nella nostra specie, è probabile che significhinosuccesso“. L’intelligenza è reale, perché è reale per noi, ma non è una cosa sola.

Per fare un paragone, si pensi ad un arcobaleno. Gli arcobaleni esistono, certo, ma solo per qualcuno che guarda le gocce d’acqua con il sole a un’angolazione inferiore a 42 gradi alle sue spalle. Un arcobaleno è un concetto unificato che indicizza una cosa nota e tuttavia un arcobaleno è intrinsecamente una questione di prospettiva. Supponendo che queste premesse per la visione dell’arcobaleno siano soddisfatte, ciò di cui stiamo realmente parlando sarebbe un aggregato di divisioni culturalmente derivate (il turchese è blu o verde?), discrete ma sovrapposte (rosso o rosso-arancione o arancione?), arbitrarie ma reali (il blu non è giallo, ma vi si sfuma) nello spettro della luce visibile. Inoltre, un arcobaleno ha senso per noi come concetto solo perché abbiamo un apparato sensoriale evoluto che può percepirlo, come i primati che in genere hanno tre tipi di coni oculari. L’intelligenza potrebbe avere più o meno le stesse proprietà: Indicizza un aggregato di componenti evolutivamente adattabili, con capacità discrete ma sovrapposte (abilità numerica, uso di strumenti, pensiero simbolico) e arbitrariamente divise ma reali (intelligenza da gran maestro di scacchi contro intelligenza diplomatica contro intelligenza da scienziato missilistico contro intelligenza del servizio clienti) che hanno mantenuto in vita i nostri antenati.

Allora, se questo può essere apprezzato come lo stato dell’arte dell’interpretazione non convenzionale circa l’intelligenza, perché l’establishment continua ad insistere, attraverso i suoi opinion leader accademici in materia, sul fatto che tutte queste cose vadano insieme come un tutto unificato? Qual è il punto di discernere l’intelligenza l’uno nell’altro e perché è così importante per la classe dirigente che ha speso miliardi nel tentativo di trovarla e crearla nelle macchine?

Per quanto riguarda il fatto di riconoscere l’intelligenza dell’altro, nel corso della nostra storia, valutare le capacità degli altri umani, gli attori predefiniti [the default actors] nel nostro mondo sociale evolutivo, è stata una questione di vita o di morte. Il vantaggio adattivo nel non solo avere ma anche riconoscere l’intelligenza avrebbe pagato grandi dividendi evolutivi. È un comportamento di un valore inestimabile, che ci mette in allerta sulle capacità di comunicazione, coordinamento, tecnologia, strategia, pianificazione, riconoscimento di schemi e utilizzo dell’ambiente a nostro vantaggio, come sostengono Desmond e Haslam. Da questa prospettiva, la vita umana si potrebbe considerare come un insieme di problemi che si verificano in modo affidabile, letteralmente problemi quotidiani, che ruotano attorno alla sopravvivenza, al comfort e alla ricerca di un significato nel mantenimento della nostra esistenza. La maggior parte di questi problemi sono talmente comuni tra i nostri amici, familiari e vicini che qualsiasi soluzione escogitino funzionerà anche per noi, insieme a qualsiasi beneficio sociale che deriva semplicemente dall’adattarsi al gruppo. Allo stesso modo, i loro errori, in particolare quelli fatali, offrono lezioni preziose per le nostre azioni che non devono o non possono essere apprese in modo indipendente. Raccogliere questi segnali è una parte fondamentale della sopravvivenza nel mondo umano.

 

La capacità di mettere in atto, riconoscere e trasmettere comportamenti innovativi adattivi avrebbe mantenuto in vita i nostri antenati

Stando a Desmond e Haslam e ad altri studiosi evoluzionisti, la capacità di mettere in atto, riconoscere e trasmettere comportamenti innovativi e adattivi, vale a dire intelligenti avrebbe mantenuto in vita i nostri antenati, ma non attraverso imprese di forza o abilità fisica, come si potrebbe essere inclini a immaginare. Per illustrare quest’ipotesi si consideri di nuovo uno dei nostri antenati australopitechi, che, usando solo il proprio corpo, non ebbe alcuna possibilità contro un leopardo. Ogni vicino di Lucy, nostra nonna australopiteca, che provò ad andare da solo contro un grosso felino avrebbe proprio rischiato una morte rapida, ma coloro che avrebbero prestato attenzione ai modi in cui i loro simili ominidi sopravvivevano agli incontri con i leopardi sono stati preavvisati e letteralmente armati di tutto punto. I leopardi come possiamo argomentare sono un problema risolvibile e coloro che lo risolsero mostrarono una qualità che la nostra specie ha deciso di chiamare intelligenza.

Non importa se la soluzione sia stata mettere in atto l’auto-mimetizzazione, la creazione di un bastone appuntito, il coordinamento di un’orda di australopitechi, la costruzione di una fossa coperta, urlare istruzioni all’amico su un albero, il raggiungimento di un terreno elevato oppure l’offerta di un topo al gatto (ognuno di questi comportamenti richiede diversi livelli di coordinamento e pianificazione ambientale, tecnologica o sociale). Stando a Desmond e Haslam, la dipendenza di questi comportamenti dal giudizio degli osservatori significa che la valutazione dell’intelligenza è basata sui risultati. Ovviamente, i membri del gruppo che manifestano questa caratteristica sono quelli con cui dovremmo cercare di allinearci, emulare, fare amicizia, sposare, avere nel nostro team, ascoltare, promuovere come leader o da cui stare attenti. In un contesto evolutivo umano, valutare l’intelligenza servì come attrattiva per modi di fare che diedero ai nostri antenati un vantaggio competitivo unico. Mentre i risultati dell’intelligenza possono essere cambiati nel tempo, continuano ad attirare la nostra attenzione perché insieme pubblicizzano l’idoneità e vennero mantenuti attraverso le generazioni attraverso la selezione sociale adattiva per garantire la sopravvivenza degli umani.

Trovare e testimoniare l’intelligenza, secondo gli studiosi Desmond e Haslam, innesca un campanello d’allarme mentale, nello stesso modo in cui fa vedere la bellezza. Il suo valore di sopravvivenza significa che siamo predisposti a cercarla. Sotto quest’aspetto, il cervello umano viene spesso descritto come una macchina di previsione che costruisce un modello statistico del mondo filtrando da tutto ciò che scorre attraverso i nostri sensi e, poi, traccia al meglio quel modello corrispondente alle nuove informazioni man mano che arrivano. Avere un modello accurato rende più efficiente l’elaborazione della realtà, un vantaggio per tessuti costosi come il cervello, poiché si rende necessario prestare attenzione solo a quei rari pezzi di informazione che sono fuori allineamento.

 

L’intelligenza come sorpresa

Il risultato di questa impostazione è che la maggior parte del mondo esterno può essere ignorata per la maggior parte del tempo, mentre ci si muove in un ambiente ampiamente popolato da caricature di sfondo di alberi, nuvole, edifici e persino persone. Tuttavia, le nostre menti ricevono anche una serie di avvisi che possono farci perdere il controllo della velocità di crociera (di default). I ​​predatori innescano quegli avvisi, così come un rumore forte improvviso, una caduta inaspettata, un delizioso profumo da una panetteria o da un chiosco di hot dog nelle vicinanze, o una persona particolarmente attraente che passa di lì. Ciò che questi eventi hanno in comune non è la loro natura intrinseca, ma ciò che suscitano in noi: la sorpresa, come sostengono Desmond e Haslam.

La sorpresa, come a volte viene formalmente chiamata l’intelligenza, è ciò che accade quando il mondo previsto e quello riportato non coincidono. Questa versione tecnica della sorpresa si allinea perfettamente con le esperienze quotidiane che portano a risate, shock, paura e così via, a seconda che la sorpresa sia gradita o meno. Fondamentalmente qui, la sorpresa è soggettiva e fluida nel tempo. Inoltre, essa è relazionale, esiste solo in confronto alle nostre aspettative. Il compito della sorpresa, in questa teoresi, sarebbe di avvisarci che c’è qualcosa nel mondo che richiede la nostra attenzione, qualcosa che non avevamo previsto, favorevole o meno.

L’intelligenza, quindi, evoca un particolare sapore di sorpresa, quando vediamo qualcuno raggiungere un risultato che va oltre il nostro modello, costruito dalle nostre esperienze personali fino a quel momento, di come il mondo può, o sarà, risolto.

Tanto è il valore della sopravvivenza che avere un modello accurato di previsioni rende più efficiente l’elaborazione della realtà, tuttavia questa fretta nell’attribuire intelligenza a soluzioni sorprendenti, ci renderebbe anche inclini a falsi positivi. Sotto quest’aspetto Desmond e Haslam sostengono che attori inaspettati attivano il nostro tripwire o detonatore cognitivo. In effetti, potremmo sorprenderci, in particolare, nel vedere, come ci documenta C. R. Reid, un’intelligenza inaspettata in muffe melmose intente in processi decisionali mentre navigano per risolvere un labirinto, oppure in un polpo di nome Otto che risolve il problema delle luci intense vicine sparando getti d’acqua per mandare in cortocircuito la rete elettrica del suo acquario. Ed è difficile non sorprendersi quando veniamo a conoscenza, come documentano Barbara Clucas, Donald H Owings and Matthew P Rowe, di scoiattoli di terra della California che masticano la pelle di serpente a sonagli scartata e se la strofinano sul corpo, camuffando il loro odore dal predatore. Ma quando lo stesso scoiattolo si blocca nel traffico in arrivo, di certo non lo indicizziamo come comportamento intelligente. Ciò che potremmo non realizzare è che gli scoiattoli sono programmati per evitare di essere scoperti non innescando la sensibilità al movimento dei loro predatori naturali. Comportarsi in modo inflessibile, ovvero mettere in atto un rigido schema comportamentale collaudato nel tempo come risposta a determinati stimoli, garantirà, proprio come il comportamento intelligente di strofinare la pelle di serpente, di solito la sopravvivenza dell’animale. In ogni caso, il nocciolo dell’intelligenza non risiede in ciò che sta facendo la muffa melmosa, il polpo o lo scoiattolo, né nel contesto adattivo per un particolare comportamento, ma proviene da dentro di noi. Noi alluciniamo l’intelligenza.

Gli animali sono particolarmente adatti a far suonare i nostri campanelli d’allarme evoluti. Molti di loro si muovono e interagiscono con il mondo in modi che possiamo comprendere ampiamente, vivendo a velocità e dimensioni che possiamo osservare comodamente e, come noi, affrontando una ricerca quotidiana di cibo, riparo e compagni. E più un animale è simile a noi, se ha due occhi, una mascella e quattro arti e vive sulla terraferma, più facilmente possiamo mappare le sue soluzioni ai suoi problemi sulle nostre aspettative. Ma anche le cose che non ci assomigliano regolarmente ci colgono in fallo. Quando un animale ci sorprende, raggiungendo un obiettivo, risolvendo un problema o mettendo in atto una strategia vincente che non ci aspettavamo, siamo portati a registrare come intelligenza la discrepanza tra il comportamento dimostrato e le nostre aspettative.

 

 

Ciò accade più spesso di quanto potremmo pensare, in particolare, quando pensiamo erroneamente che un organismo sia troppo semplice o poco significativo per eseguire una sequenza complessa di azioni. In questo modo, le api o i batteri possono apparire più intelligenti quanto più li conosciamo. Tuttavia, stando al parere di Desmond e Haslam,12 abbiamo dei limiti intrinseci a quanto a lungo possiamo rimanere sorpresi. Una ricerca continua può, alla fine, stabilire una nuova base di aspettative, nella misura in cui perdiamo la nostra sorpresa e riduciamo quanto del loro comportamento etichettiamo come intelligenza, finché, alla fine, arriviamo a vederlo come una programmazione evolutiva spiegabile. Al riguardo, Desmond e Haslam considerano che a quel punto noi ricalibriamo le nostre aspettative, giusto in tempo per fermarci prima di attribuire una vera intelligenza a entità non umane. In particolare, ci diciamo che noi umani facciamo qualcosa di intelligente o tattico perché il nostro cervello stimolato da uno specifico percorso di azione produce risultati favorevoli, ma quando apprendiamo che le formiche fanno la stessa cosa emettendo risposte pre-programmate ai feromoni, sicuramente questo non conta.

Questo ciclo sottolinea ancora una volta che in questa fenomenologia l’osservatore svolge il ruolo centrale piuttosto che trovarsi di fronte ad una caratteristica innata del fenomeno osservato o ad un suo risultato favorevole. Sotto questo aspetto Desmond e Haslam sostengono che proprio come la nostra capacità di provare sorpresa è fluida, dipendente dalla nostra età, dal nostro background culturale e da ciò che sappiamo e ci aspettiamo da una situazione, così anche la nostra assegnazione di intelligenza è relazionale e mutevole. Al riguardo, potremmo prendere l’esempio fornito di Fiona Cross e Robert Jackson, dei ragni salticidi, come quelli del genere Portia, che possono pianificare13 un percorso complicato da dove si trovano a una potenziale preda, e poi seguire quel percorso anche se non riescono più a vedere la preda durante il loro viaggio. Se, come molti di noi, ci aspettiamo che i ragni non siano in grado di creare e utilizzare, essenzialmente, una mappa mentale, questo costituisce una scoperta sorprendente. Malgrado le nostre aspettative, non cambia ciò che quei ragni fanno per tutto questo tempo, sotto i nostri occhi. Ci racconta, invece, che cosa avevamo previsto che potessero fare.

Inoltre, quando descriviamo altri animali o cose come dotati di intelligenza, potremmo inavvertitamente attribuirgli altre qualità simili a quelle umane. Se una lontra di mare può usare degli strumenti, potremmo inconsciamente supporre che sia come noi in altri modi; forse potrebbe avere capacità di conteggio, pensare in modo astratto, pianificare in anticipo o conoscere il suo riflesso in uno specchio. Se è intelligente, come potrebbe non farlo? Ma questo sarebbe solo un salto ingiustificato, che emerge dal modo in cui abbiamo costruito definizioni egocentriche di intelligenza. In noi umani, l’uso abile di strumenti è un indicatore altamente accurato di un certo livello di sviluppo nella teoria della mente (la capacità di attribuire stati mentali agli altri), gratificazione ritardata e controllo degli impulsi, strategia procedurale e abilità numerica, perché questi tratti si sviluppano insieme man mano che i bambini umani crescono.

Una persona che ci parla usando un linguaggio complesso e ricorsivo molto probabilmente può anche pianificare cosa mangerà per cena ed eseguire quel piano, non perché il linguaggio sia il segno dell’intelligenza, ma perché il linguaggio è un segno umano, e noi umani siamo anche bravi a pianificare, rispetto ad altre forme di vita conosciute. Come la vita e il tempo, l’intelligenza è una scorciatoia utile per un’idea complessa che ci aiuta a strutturare le nostre vite, come persone. In tale prospettiva sarebbe principalmente sinonimo di umanità giudicare altri animali, in base a questo metro di giudizio, ma non renderebbe giustizia alla loro natura unica di lontre marine, di vermi o di squali.

Stando a Desmond e Haslam,efn_note]Abigail Desmond & Michael Haslam. op. cit.  17 June 2024[/efn_note] l’intelligenza è diventata, inavvertitamente, uno stampino o taglia-biscotti a forma di successo umano che sventagliamo su altre specie. Passando dalle metafore della pasticceria a quelle sportive, potremmo dire che tutti gli altri (animali, amebe, IA e alieni) devono giocare la partita su un campo che abbiamo tracciato, secondo regole che abbiamo stabilito e che abbiamo dimostrato di saper seguire con grande competenza. Apprezziamo la novità e l’efficienza, quindi siamo sorpresi quando un animale, uno sciame o un programma fa le cose più velocemente di quanto ci aspettiamo o prende scorciatoie inaspettate per risolvere un problema.

Tenendo in considerazione quanto Desmond e Haslam riferiscono al riguardo, il rapporto dell’umanità con l’IA è caratterizzato da cicli simili di sottovalutazione e sorpresa, seguiti da esplorazione, comprensione e spiegazione con un successivo rassicurante declassamento della nostra convinzione che l’intelligenza sia attualmente in gioco. Gli attuali modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) come ChatGPT dialogano in frasi che sembrano indistinguibili da quelle di un’altra persona e la loro capacità di ricerca rapida, i molteplici livelli di parametri modificabili e l’addestramento su enormi quantità di informazione consentono loro di superare i test di intelligenza standard. Tuttavia, la fragilità e i meccanismi incerti di questi programmi hanno a detta di tanti studiosi, portato a dubitare che questa sia da reputare come vera intelligenza artificiale che, invece, potrebbe essere trovata solo quando le macchine riusciranno a gestire concetti astratti, generalizzando, da un piccolo numero di esempi per prevedere i pezzi mancanti oppure il pezzo successivo in una serie di puzzle, qualcosa in cui noi umani siamo bravi. Ancora una volta, le nostre menti umane antropomorfiche cercano di delineare ciò che intendiamo per intelligenza: se un computer mostra un tratto dell’intelligenza umana, ma non gli altri, scivola nella nostra stima della vera intelligenza.

Certamente c’è uno schieramento sociale che ritiene che l’intelligenza sia proprio ciò che le macchine non avrebbero ancora mostrato. Nemmeno ora che è possibile per le macchine battere grandi maestri di scacchi umani, il gioco non viene più ampiamente visto come un indicatore di vera intelligenza. In settori della medicina in cui le diagnosi commissionate all’AI sono più affidabili di quelle dei medici, diagnosticare malattie è allo stesso modo considerato poco intelligente. Semplicemente, mero calcolo mnemonico. Ciò che cambia non è la capacità teorica di una macchina di eguagliare o superare un umano, ma la nostra comprensione di ciò di cui è capace un dato sistema. Una volta che possiamo prevedere, in modo fidato, il suo successo, non è più sorprendente e l’intelligenza della macchina viene relegata a meramente meccanicistica. I confini si spostano in termini della nostra comprensione e volontà.

I traguardi dell’intelligenza mobile, come ci fanno notare Desmond e Haslam, non sono esclusivi degli animali e dell’intelligenza artificiale, e ci aspettiamo che esistano da quando esistono gli umani. Sotto questo aspetto si può accennare, in particolare, che molti dei nostri antenati, recenti e lontani, vivevano in regioni tettonicamente attive, soggette a vulcani e terremoti. Questi eventi, notoriamente imprevedibili e occasionalmente catastrofici, erano visti come opera di dei o spiriti intelligenti, seppur mutevoli. Tuttavia, con una maggiore conoscenza in materia sarebbe arrivata una maggiore comprensione, e le previsioni e le spiegazioni di eruzioni e terremoti sono sempre più accurate anche se non perfettamente. Un bambino potrebbe ancora essere sorpreso dal rumore improvviso di un temporale e attribuirgli una qualche forma di intelligenza punitiva o malevola. Un adulto istruito ne sa di più e invece attribuisce un’intelligenza simile a quella umana a un nuovo chatbot, ma solo per ora. Queste sono normali reazioni a un mondo imprevedibile. In breve, possiamo dire che facciamo meglio quando sappiamo chi placare e con chi sono le nostre alleanze.

 

La nozione di intelligenza come indicatore del successo umano

Le cose che chiamiamo intelligenza ci hanno trasformato da piccole, lente e fisicamente deboli scimmie nei predatori più letali del sistema solare. Tuttavia, quando ci chiediamo se altri animali siano intelligenti, di solito non ci stiamo chiedendo quali capacità o tipi di corpi fossero vantaggiosi nel loro passato evolutivo. Ci stiamo chiedendo se fanno le cose come le facciamo noi. A volte, il diagramma di Venn14 delle strategie di successo degli animali si sovrappone al nostro (ciao delfini!). Ma nel cercare l’intelligenza, stiamo, in realtà, cercando noi stessi, cercando strategie di successo che corrispondano a quelle trovate nella nostra storia evolutiva. Se una macchina addestrata sul linguaggio umano riproduce passabilmente il linguaggio umano; se uno scoiattolo mette in atto un comportamento stereotipato come risposta a uno stimolo; se un orso, o un narciso, non imparano a premere una leva che gli consente di aprire una scatola per ottenere un premio, e allora? Concentrarsi su comportamenti che assomigliano ai nostri spesso nasconde domande molto più interessanti. Come potrebbe apparire il successo a un tardigrado, o a un piccione, o a un granchio a ferro di cavallo? Una canocchia pavone, capace di vedere una gamma quasi insondabile di colori (oltre alla luce polarizzata) e di colpire con una forza incredibile generando bolle di cavitazione15 ultrasonica, sarebbe commossa dalla nostra capacità di batterla a dama?

Dove tutto questo lascia l’intelligenza come indicatore del successo umano? In realtà, è piacevolmente intatta. Continueremo a correlare l’intelligenza con l’adattamento, la raffinatezza, l’apprendimento, la pianificazione, la strategia, l’astrazione e così via che vediamo nelle persone che ci circondano. Ci siamo evoluti per farlo, quindi continueremo a farlo. Se la capacità di qualcuno per fare certe cose suscita la nostra attenzione e poi ci sorprende, l’intelligenza è lì. Dopo tutto, l’intelligenza è un concetto unificante, ma ciò che unifica è l’esperienza umana: è il piccolo disegno sul nostro distintivo di successo come specie.

Vista in questo modo, l’intelligenza è slegata da qualsiasi definizione parrocchiale. I genitori seguiranno l’intelligenza mutevole dei loro figli durante la crescita, gli amanti degli animali saranno deliziati da quella che vedono come l’intelligenza dei loro animali domestici e i ricercatori di intelligenza artificiale affermeranno, autorevolmente, che giocare a scacchi non è, semplicemente, un comportamento intelligente ma qualcosa in più. Invece di cercare di confrontare in modo quantificabile queste cose, possiamo invece renderci conto che non si allineano – e non avrebbero bisogno di farlo – a un livello più profondo.

Alla fine, invece di parlare di come macchine, collettivi di animali o singoli uccelli e insetti mostrino intelligenza, dovremmo essere più preparati a indagare su come hanno evoluto o ripetuto quelle azioni nei loro spazi evolutivi, svincolati dagli standard plasmati dall’uomo. Per coloro che cercano una via di mezzo, potremmo suggerire di considerare che ogni specie ha la sua intelligenza, ma questa affermazione porta con sé troppi fardelli a questo punto.

Un pianeta, pieno di vita, che effettivamente e continuamente risolve problemi16 esiste separatamente dagli umani, e nessuna delle sue soluzioni è obbligata a inserirsi perfettamente nella nostra mentalità soggettiva ed egoistica. Dobbiamo evitare il rischio reale di perdere i modi di avere successo degli altri animali non umani o delle macchine o delle piante, dei funghi, dei batteri perché sono, alla base, estranei al nostro kit di strumenti concettuali.

Desmond e Haslam,17 suggeriscono una metafora per una migliore comprensione di cosa possiamo intendere come intelligenza in termini del successo evolutivo umano. Per immaginare cosa sia questa strumentale nozione di intelligenza pensiamo di guardare attraverso una vetrata colorata un paesaggio innevato dai colori vivaci, l’intelligenza non è solo ciò che stiamo cercando, è anche ciò che stiamo guardando.

Gli umani apprezzano l’intelligenza, e questo non cambierà. Ciò che potrebbe cambiare è la nostra capacità di apprezzare altri tipi di vita alle loro condizioni, slegati dal controllo antropocentrico delle caselle. Ciò che speriamo che il nostro suggerimento faccia è impedire a qualsiasi metrica limitata di distorcere o oscurare i diversi tipi di successo evolutivo che esistono nel nostro mondo, compresi quelli che dobbiamo ancora scoprire. Non solo vedremo più chiaramente, vedremo più di prima. Se l’intelligenza non è più una metrica predefinita per il valore delle specie, come potrebbero cambiare i nostri giudizi di valore? Saremmo più inclini alla meraviglia e questa meraviglia potrebbe spingerci a conservare le altre meravigliose declinazioni della vita con cui condividiamo questo pianeta e gli ambienti in cui hanno sviluppato i loro gusti di successo? Penso, come tanti altri, che sarebbe una cosa intelligente da fare.

 

  1. Abigail Desmond & Michael Haslam. What is intelligent life? ARON, 17 June 2024
  2. Negli ultimi decenni, le questioni relative ai diritti degli animali si sono trasformate da una causa di nicchia a una preoccupazione diffusa in gran parte delle societ. contemporanee. Non . una coincidenza che questa maggiore consapevolezza si sia verificata in mezzo a una raffica di ricerche che spiegano in dettaglio come gli animali non umani prosperano, soffrono, si emozionano ed elaborano le informazioni in modi molto simili agli umani. E non sono solo i nostri cugini primati a sembrare possedere livelli sorprendenti di intelligenza: persino creature dal cervello piccolo come le api possono contare e afferrare concetti astratti. La nostra rapida evoluzione della comprensione dell’intelligenza degli animali non umani pone innumerevoli domande importanti a scienziati, filosofi e legislatori. Ad esempio, in che misura le protezioni legali della “personalità” dovrebbero applicarsi agli animali non umani? E possiamo mai sperare di superare i nostri pregiudizi quando valutiamo le menti di altri esseri? Come spiega Marta Halina, docente di filosofia delle scienze cognitive presso l’Universit. di Cambridge, queste questioni etiche emergenti richiedono un nuovo quadro per aiutarci a comprendere meglio la cognizione nelle sue molteplici variet. e sradicare l’antropocentrismo. Marta Halina. Come una “tavola periodica” dell’intelligenza animale potrebbe aiutare a sradicare i pregiudizi umani. AEON, 28 giugno 2021.
  3. Abigail Desmond & Michael Haslam. op. cit.  17 June 2024
  4. Nell’ambito di una scienza, la metodologia di ricerca di fatti o verità, ovvero i modelli che consentono di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.
  5. Gli ominidi sono una famiglia di primati risalente al Miocene inferiore. A questa famiglia appartengono gli umani e gran parte delle scimmie antropomorfe: oranghi, gorilla e scimpanzé, oltre a diversi gruppi fossili, tra i quali gli australopitechi.
  6. H. Jane Brockmann. Tool Use in Digger Wasps (Hymenoptera: Sphecinae). In Psyche: A Journal of Entomology, First published: 01 January 1985
  7. Abigail Desmond & Michael Haslam. op. cit.  17 June 2024
  8. Per problem solving si intende la capacità di risolvere problemi. Si tratta di un’attività cognitiva e di comportamento che consente di superare un ostacolo incontrato sul proprio percorso che allontanerebbe un obiettivo da raggiungere.[/efn/note] può essere condivisa tra una moltitudine di entità simili, come in un banco di pesci o in un’ondata di cavallette. Le formiche, metaforicamente, costruiscono barche, ponti e metropoli con popolazioni di milioni di individui, eppure la loro potenza cerebrale individuale sarebbe piuttosto scarsa. I confini di un gruppo interattivo (il nido, il banco di pesce, la mente razionale, lo stato-nazione) possono essere tutti considerati la scala in cui emerge la vera intelligenza, postulano Desmond e Haslam.8Abigail Desmond & Michael Haslam. op. cit.  17 June 2024
  9. Denominazione data dai chimici del Settecento a una ipotetica sostanza che si sarebbe liberata dai composti per combustione o per calcinazione, dei quali avrebbe costituito il ‘principio di infiammabilità
  10. Abigail Desmond & Michael Haslam. op. cit.  17 June 2024
  11. Abigail Desmond & Michael Haslam. op. cit.  17 June 2024
  12. Fiona R. Cross, Robert R. Jackson. The execution of planned detours by spider-eating predators. Journal of the Experimental Analysis of Behaviour, Volume105, Issue1, Pages 194-210, 18 January 2016.
  13. È un diagramma che mostra tutte le possibili relazioni logiche tra una collezione finita di insiemi differenti. Questo rende i diagrammi di Venn uno strumento eccellente per il confronto dei dati e la misurazione delle probabilità.
  14. Durante il ciclo di bassa pressione, le onde ultrasoniche ad alta intensità creano piccole bolle o vuoti nel liquido. Quando le bolle raggiungono un volume tale da non poter più assorbire energia, collassano violentemente durante un ciclo ad alta pressione. Questo fenomeno è definito cavitazione.
  15. Il termine problem-solving indica un’attività finalizzata all’analisi e alla risoluzione dei problemi usando tecniche e metodi generici, o ad hoc.
  16. Abigail Desmond & Michael Haslam. op. cit.  17 June 2024

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