La nostra più grande invenzione è stata l’invenzione stessa dell’invenzione

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7 Settembre, 2024
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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 35 • Settembre 2020

Il pensiero ipotetico: seguendo le tracce del filosofo Keith Frankish1

Come tutti gli altri animali, la nostra specie, stando alla teoria evoluzionista, si è evoluta da graduali processi di selezione naturale che ci hanno attrezzato per sopravvivere e riprodurci all’interno di una certa nicchia ambientale. A differenza di altri animali, tuttavia, la nostra specie sembra essere riuscita a sfuggire al suo mero ruolo biologico ereditato e a prendere un certo controllo del proprio destino. In un momento di questa sua evoluzione, dobbiamo ipotizzare, iniziò a innovare, rimodellando, attivamente, il suo stile di vita, il suo ambiente e, infine, il pianeta stesso. Certamente, con un po’ di perspicacia viene spontanea la domanda: ma come l’abbiamo fatto? Cosa ha distinto la nostra specie, l’Homo sapiens, dagli altri animali?

Cercare un solo evento, un cambiamento decisivo nella cultura o nella struttura cerebrale, è probabilmente un errore derivato da un campo cognitivo parecchio semplicistico. Secondo la teoria evoluzionistica, per più di 1,5 milioni di anni gli umani arcaici, prima specie di Homo come l’Homo erectus, si sarebbero lentamente discostati dalle altre grandi scimmie, sviluppando uno stile di vita segnato da una maggiore collaborazione. Dai fossili ritrovati si presume che realizzassero semplici strumenti di pietra e che cacciassero insieme. Si potrebbe presumere altresì che cucinassero il loro cibo e, probabilmente, che si impegnassero in una certa modalità di genitorialità condivisa, vale a dire l’assistenza parentale degli adulti verso giovani non discendenti o non appartenenti alla propria progenie genetica.

Tuttavia, stando alla documentazione dei fossili, il loro stile di vita sembra essere rimasto in gran parte statico per lunghi periodi di tempo, con pochi se non nessun segno di attività artistica o innovazione tecnica. Questo stato delle cose tra gli umani arcaici sarebbe cominciato a cambiare solo negli ultimi 300.000 anni con l’emergere della nostra specie e dei nostri “cugini” i Neanderthal e anche allora il ritmo del cambiamento non avrebbe accelerato molto fino a 40-60.000 anni fa.

Una delle domande più affascinanti nella prospettiva di quest’interpretazione evoluzionista è, certamente, cosa abbia fatto che la nostra specie si allontanasse dal modello impostato dagli umani arcaici? Anche in questo caso, si può ipotizzare, ci sarebbero stati probabilmente molti fattori. Dal punto di vista di Keith Frankish, che studia la mente umana cosciente come un sistema virtuale, trucco della biologia, uno sviluppo si distinguerebbe come di particolare importanza. Si tratterebbe di quell’abilità mentale che possediamo oggi emersa ad un certo punto della nostra storia e la cui apparizione avrebbe notevolmente migliorato le capacità creative dei nostri antenati.

L’abilità che Keith Frankish intende sottolineare è quella del pensiero ipotetico, vale a dire la capacità di staccare la mente dal qui e ora e di pensare consapevolmente ad altre possibilità. Questa sarebbe, nell’interpretazione degli studiosi come Frankish, la chiave per un’innovazione e una creatività sostenute e per lo sviluppo dell’arte, della scienza e della tecnologia. Gli umani arcaici, con ogni probabilità, non la possedevano. La staticità del loro stile di vita suggerisce che vivessero nel presente, la loro attenzione rinchiusa nella loro nicchia abitativa immediata e il loro comportamento guidato da abitudini e stimoli ambientali. Nel corso delle loro attività quotidiane, si può congetturare, avrebbero potuto, accidentalmente, “colpire” su un modo migliore di fare qualcosa e così, gradualmente, acquisire nuove abitudini e competenze, ma non avrebbero attivamente pensato alle innovazioni in quanto tali.

Per rispondere alla nostra domanda iniziale di come si sarebbe sviluppato il pensiero ipotetico Frankish propone due suggerimenti, uno del linguista israeliano Daniel Dor, l’altro del filosofo americano Daniel Dennett. Nessuno dei due tratta direttamente del pensiero ipotetico ma, insieme, offrono un quadro persuasivo di come noi umani avremmo acquisito questa capacità. Certamente l’ipotesi dello sviluppo del pensiero ipotetico permette di considerare che gli umani arcaici abbiano utilizzato quest’abilità in modo creativo per raccontare storie, creare miti e ingannarsi a vicenda.

Natura e origini del linguaggio secondo Daniel Dor

L’interpretazione di Dor, proposta nel suo libro The Instruction of the Imagination (2015)2, riguarda la natura e le origini del linguaggio. Un abbozzo della storia potrebbe sintetizzarsi così. Man mano che le loro società diventavano più collaborative, gli umani arcaici dovevano comunicare in modi più complessi, avvertendo, aiutando, consigliandosi e istruendosi l’un l’altro. Eseguivano, può darsi, una sorta di pantomima, utilizzando gesti, espressioni e mimica vocale per dirigere l’attenzione su ciò che intendevano comunicare. L’oggetto di tale mimo era quello che Dor chiama “identificazione reciproca esperienziale” volta a convincere gli interlocutori a condividere e riconoscere l’esperienza dell’altro, a trasmettere ciò che avrebbero visto e/o sentito e ad interagire nella reazione. Si potrebbe dire che gli umani arcaici erano altamente abili in tale messinscena. Eppure questa forma di comunicazione esperienziale-mimetica aveva una grave limitazione. Poiché funzionava condividendo l’esperienza, si limitava a comunicare cose che erano a disposizione per essere vissute o esperite. Si poteva comunicare, ad esempio, che c’era un lupo avvicinandosi solo se c’erano le condizioni per far sì che gli altri potessero vedere l’animale per sé stessi. Non si poteva comunicare su cose lontane nel tempo e nello spazio. Man mano che le prime società umane diventavano più complesse, si può supporre che questa limitazione diventasse sempre di più una pressione che spingeva per una soluzione.

Dor dubita, in ogni caso, che gli umani arcaici abbiano mai superato questo problema. Lui sostiene, invece, che la nostra specie e, probabilmente, i Neanderthal, l’abbiano risolto con un bel trucchetto o bel colpo. La soluzione, secondo lui, non avrebbe richiesto nuovi strumenti comunicativi ma solo un uso innovativo di quelli vecchi. Il trucco sarebbe stato quello di prendere il suono o il gesto già associato a una cosa e usarlo in un modo nuovo, vale a dire non come un invito a sperimentare la cosa o di “identificazione reciproca esperienziale” immediata, per utilizzare un suo concetto, ma come un’istruzione per l’immaginarlo. In altre parole, quando chi parlava faceva il suono, diciamo, corrispondente a ‘lupo’ quando non era presente alcun lupo, chi ascoltava attingeva ai propri ricordi di lupi per immaginare un lupo da qualche parte fuori dalla vista. Se chi parlava aggiungeva, diciamo, il suono per ‘collina’, i loro ascoltatori combinavano ricordi di lupi e colline per immaginare un lupo sulla collina e reagivano di conseguenza. Con questo, la comunicazione è stata svincolata dal qui e dall’ora. Come dice Dor, un Rubicone fu attraversato: “Per la prima volta nell’evoluzione della vita, gli umani avrebbero cominciato a sperimentare per gli altri e a lasciare che gli altri sperimentassero per loro.” In questo modo, secondo Dor, si potrebbe sintetizzare la nascita del linguaggio.

Nel corso del tempo, stando alla teoria di Dor, noi umani gradualmente abbiamo migliorato questa nuova tecnologia di comunicazione. Si può immaginare, ad esempio, che abbiamo identificato, reciprocamente, nuovi segni per le cose importanti per noi, creando in questo modo un “paesaggio simbolico” che ha scolpito il mondo esperito in caratteristiche discrete. Ugualmente si può supporre che ci siamo accordati su caratteristiche specificate. Naturalmente, queste convenzioni, si può considerare, non venivano esplicitamente concordate. Semplicemente si sviluppavano tacitamente, come spesso fanno le convenzioni sociali.

Se il suggerimento di Dor è giusto, allora si può ritenere che il linguaggio abbia aperto la strada ad un pensiero ipotetico. Il linguaggio ha permesso a noi umani di conoscere cose che non si erano sperimentate da soli o direttamente. Ha permesso addirittura molto di più. Infatti, combinando elementi linguistici in modi diversi, chi parlava poteva impartire istruzioni per indurre ad immaginare una gamma illimitata di cose, non solo cose che chi ascoltava non aveva mai prima sperimentato, ma cose che nessuno aveva sperimentato. Avrebbero potuto, ad esempio, istruire chi ascoltava ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere, cosa sarebbe accaduto, perfino cosa non sarebbe potuto accadere. A poco a poco, scoprirono che potevano usare questa abilità in modo creativo, per raccontare storie, creare miti e, con ogni probabilità, ingannarsi a vicenda. E, soprattutto dal nostro punto di vista, hanno scoperto che potevano usarle per proporre ipotesi. Mentre parlavano di una brutta giornata di caccia, potevano suggerire spiegazioni su ciò che era andato storto, proporre modi per fare meglio le cose e proporre piani per il giorno successivo.

Stando alle considerazioni di Dor, in un primo momento tale pensiero ipotetico sarebbe stato un processo sociale. Al riguardo si potrebbe ipotizzare che chi parlava non aveva pensato alle idee in privato e poi le condivideva. Piuttosto, creavano nuove idee nell’atto di parlare, giocando con le istruzioni per l’immaginazione dell’altro e aspettando fino a quando ottenevano la risposta precisa da qualcuno. Era un processo collettivo di tentativi ed errori. Tuttavia, dovremmo anche ipotizzare la risposta ad un’altra domanda: in che modo, allora, noi umani abbiamo fatto il passaggio al pensiero ipotetico solitario, condotto nella privacy delle proprie menti?

La mente cosciente secondo Daniel Dennet quale sistema virtuale creato da noi stessi

Qui veniamo al suggerimento di Dennett, proposto nel suo libro Consciousness Explained (1991)3. La preoccupazione di Dennett è la coscienza, vale a dire, nei termini della sua teoresi, il flusso di pensieri, idee e impressioni che attraversano le nostre menti. In questo ordine di idee, si è tentati di pensare che la generazione di coscienza sia una funzione centrale del nostro cervello e, forse, anche del cervello di altri animali. Dennett, però, suggerisce che non sia così. I nostri cervelli, sostiene, sarebbero composti da molteplici sistemi specialistici che operano inconsciamente e in parallelo. La mente cosciente sarebbe soltanto un livello temporaneo di organizzazione, vale a dire un sistema “virtuale” che creiamo per noi stessi attraverso certe abitudini apprese di auto-stimolazione.

In breve, l’idea sarebbe questa. Una volta sviluppato il linguaggio, i nostri antenati a volte avrebbero parlato con loro stessi, in un primo momento per caso. Quando lo facevano, avrebbero ascoltato le loro espressioni e, spesso, avrebbero reagito a loro stessi come facevano ascoltando quelle degli altri. Quando ponevano una domanda a loro stessi, rispondevano; quando si ammonivano, lavoravano più intensamente; quando si ricordavano, si concentravano di più, e così via, e queste reazioni venivano generate spontaneamente da processi inconsci. A volte, un’espressione avrebbe provocato un’altra e quella un’altra ancora, e così via, generando un lungo “treno” di pensiero. Questo processo di auto-stimolazione mentale avrebbe contribuito a coordinare le risorse di diversi sistemi cerebrali e questo si sarebbe rivelato utile, migliorando l’autocontrollo e promuovendo modelli continui di comportamento. In questo modo noi umani avremmo formato abitudini di “linguaggio privato” e avremmo sviluppato, gradualmente, la capacità di parlare, silenziosamente, con noi stessi nel “linguaggio interiore”. Si potrebbe per di più ipotizzare che avremmo adottato perfino altre forme di auto-stimolazione mentale, come disegnare immagini o visualizzarle. Elaborato e raffinato, il flusso del linguaggio auto-generato e di altre immagini e le reazioni mentali associate, sarebbero venute a formare quello che chiamiamo la mente cosciente.

Anche se elaborato in precedenza, secondo Keith Frankish, il suggerimento di Dennett completa quello di Dor molto bene. Quando i nostri antenati hanno iniziato a parlare a sé stessi, stavano imparando a istruire la propria immaginazione. Da questo punto di elaborazione del linguaggio e del pensiero ci sarebbe voluto molto poco per passare all’uso del processo istruttivo in modo creativo, privatizzando, in questo modo, pratiche che in precedenza erano sociali. A quel punto, quando i nostri antenati dovevano affrontare un problema, potevano esplorarlo da soli, stimolandosi con domande, suggerimenti e immagini visive, ad esempio, ‘Perché questo sta scivolando?’, ‘Prova dall’altra parte’ oppure ‘Potrei disporli in questo modo’. Queste azioni avrebbero generato non solo reazioni sotto forma di linguaggio più interiore del tipo ‘Deve essere più stretto’, ‘Questo è meglio’ oppure ‘Sarebbe bello’ ma avrebbero, anche, generato sentimenti di soddisfazione o frustrazione, sentimenti che avrebbero potuto richiedere un altro giro di auto-stimolazione. Si potrebbe asserire che il processo era ancora di tentativi ed errori, di aspettare di colpire una buona idea. A questo proposito, non sarebbe stato diverso dal modo in cui gli umani arcaici avrebbero imparato nuove abilità. La grande differenza era che noi umani potevamo ora prendere il controllo del processo, esplorando rapidamente e sistematicamente nuove possibilità nella nostra mente anziché aspettare che il mondo regalasse idee a noi. Ora avevamo un metodo di invenzione.

Mentre coltivavamo queste abitudini, ad un punto dello sviluppo del linguaggio e del pensiero ipotetico, stimolandoci mentalmente e prestando attenzione ai risultati, noi umani, si può supporre, facemmo addirittura qualcos’altro. Avremmo creato l’idea, il senso oppure l’impressione che ci fosse un mondo privato dentro di noi, dove il nostro vero sé viveva e pensava, un mondo che a volte ci sembrava più reale di quello che ci circondava. In un certo senso, avevamo creato la nostra mente cosciente e noi stessi.

Prendendo insieme le intuizioni teoretiche di Dor e Dennett, Keith Frankish considera che qualora questi due studiosi abbiamo ragione si potrebbe asserire che i fattori chiave per instradare noi umani sul nostro percorso unico siano stati l’invenzione di un nuovo modo di comunicare e la scoperta di come usarlo in modo creativo, prima socialmente e, poi in privato, nel monologo interiore. Queste attività sono ora centrali per la vita umana e i nostri cervelli e sistemi vocali si sono presumibilmente adattati in molti modi per facilitarli, ma inizialmente furono innovazioni culturali. Data la sua centralità nella vita umana si potrebbe ben asserire che la più grande invenzione di noi umani sia stata l’invenzione stessa dell’invenzione.

______________Note _________________

1 Keith Frankish. Filosofo specializzato in psicologia e scienza cognitiva. Insegna all’Università di Sheffield, Regno Unito e nel Brain and Mind Program presso l’Università di Creta. Noto per la sua posizione “illusionista” nella teoria della coscienza. Sostiene che la mente cosciente sia un sistema virtuale, un trucco della biologa. In altre parole, la fenomenalità della mente riguardo il cervello sarebbe un’illusione introspettiva. Le teorie sulla coscienza di solito accettano che la coscienza fenomenica sia reale e puntano a spiegare come essa esista. L’altro approccio, chiamato da Frankish stesso “illusionismo” sostiene che la coscienza fenomenica sia un’illusione e punta a spiegare perché essa sembra di esistere.

2 Daniel Dor. The Instruction of Imagination. Language as a Social Communication Technology. Oxford University Press. 2015

3 Daniel C. Dennett. Consciousness Explained. Penguin, 1993

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