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30 Novembre, 2024

Identità e possessi

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 33 • Marzo 2020

 

Il comportamento ostentativo è radicato nella biologia evolutiva

Nell’agosto del 1859, circa 450 passeggeri della Royal Charter, di ritorno a Liverpool dalle miniere d’oro australiane, sono annegati quando questa velocissima e lussuosa nave a vapore, emblema dell’innovazione marittima dell’epoca, si schiantò contro gli scogli al largo della costa settentrionale del Galles. Ciò che ha reso “speciale” questa tragica perdita di vite umane, tra le innumerevoli altre catastrofi marittime, è stato il fatto che molti di quelli a bordo erano appesantiti dalle monete d’oro sistemate nelle loro cinture, carico che non avrebbero abbandonato quando si trovavano a così poche miglia dal ritorno a casa. Di fatto, noi umani abbiamo un’ossessione particolarmente forte e, a volte, totalmente irrazionale per gli averi. Si pensi soltanto a quante persone vengono uccise, o gravemente ferite, nei loro tentativi di fermare un qualche furto di qualcosa della loro proprietà. Correre un tale rischio pare suggerire che ci sia un impulso in noi che ci costringe a identificarci con le cose che possediamo al punto di spingerci a fare scelte pericolose per la nostra vita ed incolumità nel perseguimento e conservazione dei nostri possessi. In effetti, si potrebbe dire che anziché possedere i nostri averi sembra che ne siamo posseduti, come, in modo pungente e provocatorio, ci propone il professore di psicologia sperimentale Bruce Hood nel suo ultimo libro Why we want more than we need.

Naturalmente, l’acquisizione e l’ostentazione di averi e ricchezza pare costituire un potente incentivo. Di fatto, la nostra cultura consumistica moderna è riuscita a coniare il detto, poco simpatico, spesso attribuito all’attrice Mae West, “Sono stata ricca e sono stato povera – credimi, ricca è meglio“. Nonostante l’indiscussa utilità di sostenere la nostra identità attraverso i nostri averi, si arriva ad un punto, però, in cui abbiamo raggiunto un livello di vita confortevole e, anche, previdenziale per il nostro futuro, eppure continuiamo a cercare altre ricchezze con le quali apparire e avvertire della nostra esistenza a noi stessi e agli altri. In effetti, in un punto dell’evoluzione umana, in cui noi pensiamo di esserci allontanati dai comportamenti irrazionali continuiamo, però, paradossalmente, a comportarci in questo modo, in cui vogliamo più di quanto ci occorre per garantire la nostra fitness o il nostro valore adattivo1 in un modo razionale, quasi non tenessimo conto dell’impatto sugli equilibri ambientali del Pianeta – e sulla nostra stessa vita – della nostra radicata passione per l’acquisizione e l’esibizione di averi.

 

L’ostentazione dei possessi come linguaggio dell’accoppiamento

Al di là di ogni possibile posizione di giudizio morale, religioso o ideologico riguardo agli averi e alla loro esibizione pubblica, risulta sufficientemente documentato dagli antropologi il fatto che a noi umani ci piaccia mostrare la nostra fitness, non solo attraverso la nostra forma fisica ma sotto forma dei beni posseduti. Nel 1899, l’economista Thorstein Veblen, nel suo tentativo di dimostrazione della sua teoria della classe agiata2, osservò che i cucchiai d’argento erano segni della posizione sociale dell’élite. Egli coniò il termine “consumo ostentativo” [conspicuous consumption] per descrivere la volontà delle persone di acquistare beni più costosi rispetto a beni più economici, anche se funzionalmente equivalenti, al fine di segnalare una posizione sociale superiore. Una ragione di questo comportamento ostentativo sarebbe radicata nella biologia evolutiva, stando alla teoria di Bruce Hood. Certamente, nessuna considerazione di Hood potrebbe costituire una valida intuizione se considerassimo i membri della specie umana come soggetti dotati di un’essenza metafisica morale invece di ritenerli, come richiederebbe la prospettiva di Hood, habitat adattivi ed evolutivi di un’informazione genetica che, voluttuosamente, si ripete e che, nel suo andamento di replicazione, avrebbe sviluppato la riproduzione e la differenziazione sessuali come caratteristiche funzionali alla sua replica fine se stessa. 

Da una tale prospettiva evoluzionistica, la maggior parte degli animali compete per riprodursi. Combattere i concorrenti, tuttavia, comporta il rischio di lesioni o di morte. Una strategia alternativa potrebbe essere, quindi, pubblicizzare quanto siamo bravi in ​​modo che l’altro sesso scelga di accoppiarsi con i nostri geni, cioè con noi, piuttosto che con i geni dei nostri rivali. Naturalmente, stando a questa spiegazione dell’evoluzione della vita, molti animali avrebbero sviluppato attributi che indicherebbero la loro idoneità come potenziali compagni, tra cui appendici quali piumaggi colorati3 e corna elaborate, o comportamenti ostentativi come gli intricati e delicati rituali di corteggiamento che sono diventati marcatori della teoria dei segnali4. In effetti, quando si tratta di riproduzione, questa teoria spiegherebbe perché di solito sono i maschi ad essere più colorati nel loro aspetto e comportamento rispetto alle femmine. Questi attributi, si può ipotizzare, abbiano un costo ma, comunque, devono valerne la pena perché la selezione naturale avrebbe, plausibilmente, eliminato tali sviluppi o adattamenti se non ci fosse stato qualche vantaggio funzionale.

Tali benefici includono la robustezza genetica. Infatti, la teoria della segnalazione dispendiosa spiegherebbe, nella sua interpretazione dell’evoluzione, perché questi attributi, apparentemente dispendiosi, siano marcatori affidabili di altre qualità desiderabili. Il simbolo emblematico delle segnalazioni sfarzose è il pavone maschio con la sua elaborata e colorata coda a ventaglio che si è evoluta, come linguaggio dei geni del maschio, per segnalare alle femmine di possedere geni di successo adattivo. La coda del pavone è, invero, un’appendice così stravagante che nel 1860 lo stesso Charles Darwin scrisse: “La vista di una piuma nella coda di un pavone mi fa star male.” La ragione del suo disagio può essere interpretata nel senso che una tale coda non sembra ottimizzata per la sopravvivenza nei termini che noi intendiamo sia sostenibile e ragionevole a tale fine. Chiaramente, essa pesa troppo, richiede parecchia energia per essere cresciuta e mantenuta e, come un grande abito vittoriano in crinolina, risulta ingombrante e non snella per un movimento efficiente. Tuttavia, anche se in alcuni casi le pesanti esposizioni di piumaggio possono essere interpretate come un eccesso che rappresenta uno svantaggio, esse segnalano abilità genetiche perché i geni responsabili delle belle code sarebbero anche quelli associati a migliori sistemi immunitari, come documenta la ricerca di Adeline Loyau – e dei suoi colleghi – riguardante lo stato di salute dei pavoni.

Sia gli uomini che le donne avrebbero, ugualmente, sviluppato attributi fisici che, in questo originale “linguaggio di accoppiamento”, segnalerebbero le nostre idoneità biologiche. In effetti, con la nostra capacità di elaborazione e utilizzo di tecnologia, possiamo perfino mostrare i nostri vantaggi adattivi sotto forma di beni materiali. I più ricchi tra noi umani, in realtà, come documenta la ricerca in materia, hanno maggiori probabilità di vivere più a lungo, generare più prole ed essere più preparati ad affrontare le avversità che la vita comporta. Infatti, siamo attratti e affascinati dalla ricchezza e questa nostra inclinazione si potrebbe leggere in tanti nostri comportamenti. Si pensi al semplice fatto che nella veste di conducente disperato dal traffico stradale abbiamo maggiori probabilità di suonare il clacson ad un’utilitaria che ad un’auto sportiva costosa5, oppure al fatto che le persone che indossano i simboli della ricchezza sotto forma di abbigliamento con marchi di lusso abbiano maggiori probabilità di essere trattate più favorevolmente da altri, così come di attirare partner o compagnia.

 

L’ostentazione dei nostri possessi attirerebbe su di noi l’attenzione degli altri

Pur accettando che vi siano connotati fisici e tratti comportamentali che segnalino un potenziale riproduttivo, sembra che ci sia anche una ragione molto potente per la ricchezza come una cifra della fitness: essa attira su chi la possiede l’attenzione del mondo. Questo è un punto sollevato anche da Adam Smith, considerato dal pensiero mainstream padre dell’economia moderna, quando scrisse nel 1759: “Il ricco si gloria delle sue ricchezze perché sente che esse attirano naturalmente su di lui l’attenzione del mondo.” Non solo la ricchezza materiale di per sé contribuirebbe ad una vita più confortevole, ma si potrebbe postulare che noi umani ci procuriamo soddisfazione dalla percezione dell’ammirazione degli altri. La ricchezza, in questa prospettiva, è considerata un contributo alla fitness. Quest’intuizione ha portato molti a postulare che la ricchezza sia ovviamente positiva e non mancano le ricerche che cercano di documentare che gli acquisti di lusso illuminerebbero i centri del piacere nel nostro cervello. In questo filone di ricerca sono stati impostati studi che sostengono di aver documentato che se si pensa di stare a degustare un vino costoso, non solo ci sembra che questo abbia un sapore migliore, ma il sistema di valutazione del cervello associato all’esperienza del piacere mostrerebbe una maggiore attivazione, rispetto al bere esattamente lo stesso vino quando si ritiene che sia un vino economico.

Ancora più imbarazzante, se giudichiamo dalla prospettiva della nostra visione convenzionale a vocazione francescana, risulta la proposta di alcuni studiosi che postulano che noi siamo ciò che possediamo. Più di 100 anni dopo Smith, William James scrisse di come il nostro sé non fosse solo il nostro corpo e la nostra mente, ma tutto ciò su cui potevamo rivendicare la proprietà, compresa le nostre proprietà materiali. Quest’intuizione è stata successivamente sviluppata nel concetto di “sé esteso” [extended self] dal guru del marketing Russell Belk che nel 1988 sosteneva che usiamo la proprietà e gli averi sin dalla tenera età come mezzo per formare la nostra identità e stabilire il nostro status nella comunità. Forse è per questo che “mio!” sia una delle parole comuni usate dai bambini piccoli e che oltre l’80% dei conflitti nelle scuole materne e nei campi da gioco riguardi il possesso dei giocattoli6.

Riflettendo su questo nostro possibile utilizzo dei nostri possessi, sin da piccoli, come strumento per forgiare la nostra identità, si potrebbe dire che con l’età (e gli avvocati) sviluppiamo modi più sofisticati per risolvere le controversie sulla proprietà ma, stando  a Bruce Hood, la connessione emotiva con la nostra proprietà come estensione della nostra identità rimarrebbe con noi. Ad esempio, uno dei fenomeni psicologici più solidi nell’economia comportamentale è l’effetto di dotazione, riportato per la prima volta nel 1991 da Richard Thaler, Daniel Kahneman e Jack Knetsch7. Esistono varie versioni dell’effetto, ma probabilmente la più convincente è la sorprendente osservazione relativa al fatto di come valutiamo beni identici. Ad esempio, valutiamo le tazze da caffè nello stesso modo fino a quando una specifica tassa da caffè diventa di nostra proprietà, allora, in quanto proprietari, si pensa che la propria tazza valga più di ciò che un potenziale acquirente sia disposto a pagare. Ciò che è interessante è che questo effetto sia più pronunciato nelle culture che promuovono un’interpretazione del sé [self-construal]8 più indipendente rispetto a quelle che promuovono nozioni più interdipendenti del sé9. Ancora una volta, questo si adatta al concetto di “sé esteso” in cui siamo definiti esclusivamente da ciò che possediamo.

Normalmente, l’effetto di dotazione non appare nei bambini fino ai sei o sette anni, ma nel 2016 Harbaugh, Krause e Vesterlund hanno sostenuto di aver documentato che questo comportamento può essere indotto nei bambini più piccoli se li si stimola a pensare a sé stessi nei termini dell’effetto di dotazione. Ciò che è ugualmente notevole è che l’effetto di dotazione appaia debole nella tribù Hadza della Tanzania che è uno degli ultimi popoli cacciatori-raccoglitori rimasti in cui la proprietà dei beni tende ad essere comune e opera con una politica di “condivisione della domanda” – cioè, se hai qualcosa di cui un altro ne ha bisogno, passagliela.

 

I beni segnalano agli altri chi siamo e ci ricorderebbero chi siamo per noi stessi

Belk10 ha anche osservato e documentato che i beni che vediamo come più indicativi di noi stessi siano quelli che vediamo come più magici. Questi sono oggetti sentimentali, insostituibili e, spesso, associati a proprietà immateriali o essenze che ne definiscono l’autenticità. Nata dalla nozione della forma di Platone, l’essenza, nell’interpretazione platonica, sarebbe ciò che conferisce identità. L’essenzialismo, secondo Belk, sembra dilagare nella psicologia umana mentre infondiamo al mondo fisico queste proprietà metafisiche. Stando alla ricerca di Gjersoe e Newman, l’essenzialismo spiegherebbe perché apprezziamo le opere d’arte originali più che le copie identiche o indistinguibili. L’essenzialismo o investimento magico del mondo fisico con proprietà metafisiche, sarebbe quella qualità che rende insostituibile la fede nuziale. Non tutti riconoscono il proprio essenzialismo o la propria mentalità magica, ma esso potrebbe essere alla base di alcune delle nostre più aspre controversie sulla proprietà, come quando l’investitura metafisica della proprietà acquistò il valore di sacro e come essa finì per fare parte della nostra identità sancita dalla religione ufficiale. In questo modo, i beni non solo segnalerebbero chi siamo agli altri, ma ci ricorderebbero chi siamo per noi stessi e, forse, il nostro bisogno di autenticità in un mondo sempre più digitale, spiegando il nostro comportamento a volere di più di ciò di cui avremmo bisogno.

La nostra relazione amorosa con i nostri averi sembra un comportamento difficile da arrestare o modificare in quanto il comportamento ostentativo è radicato nella biologia evolutiva. In effetti, siamo piuttosto riluttanti a cambiare le nostre abitudini quando si tratta delle cose che vogliamo e vorremmo avere. Il perché di questo, stando agli studiosi accennati in questa breve argomentazione, si trova nel nostro bisogno di proprietà come cifra della nostra fitness e come modalità per procurarci compagnia.  Il comportamento ostentativo è radicato nella biologia evolutiva

 

Il comportamento ostentativo come vestigia

La proprietà è una preoccupazione prettamente umana e tuttavia, analizzando da una prospettiva evoluzionistica il comportamento ostentativo dei possessi e l’attaccamento di noi umani a questi nostri averi, sembra che questo atteggiamento abbia le sue radici profondamente radicate nella nostra biologia. Stando agli studiosi di riferimento, questo modo di agire può essere rilevato dappertutto, dai bambini che combattono per i giocattoli all’ascesa dell’estremismo politico. Le loro ricerche sono volte a spiegare perché la necessità psicologica di averi e proprietà sia uno stato mentale ed emotivo che domina il nostro comportamento dalla culla alla tomba, anche quando esso sia spesso palesemente irrazionale e distruttivo. Cosa ci spinge ad avere più del necessario? In che modo la nostra voglia di acquistare determina il nostro comportamento, anche nel modo in cui votiamo? Queste sono domande veramente interessanti da esplorare, innanzitutto, quando le disfunzioni che tale brama sembra generare nelle opulente società occidentali d’oggi potrebbero, forse, voler segnalarci che accennare alla nostra fitness biologica attraverso la proprietà e il consumo sia anche essa una vestigia11 come l’appendice nell’intestino crasso residuo da un passato da erbivori. In tal caso, la nostra rincorsa agli averi come segni del nostro linguaggio di accoppiamento, o la rincorsa ai nostri possessi come estensione della nostra identità, potrebbe essere interpretata come una commedia da affrontare, inizialmente e sanamente, con una buona risata, oppure come l’inquietante resoconto di una disfunzionalità cognitiva e, quindi, non più adattiva con tutte le conseguenze disfunzionali nella nostra vita umana in società.

 

Fonte immagine: pixabay

  1. Fitness. In termine prettamente biologici si riferisce al valore relativo che misura la differenza nella capacità riproduttiva e di sopravvivenza di un particolare organismo (o genotipo) in un dato ambiente e nei confronti di un altro organismo della stessa specie. È detto anche valore adattivo e viene espresso con un indice numerico tra 1 e 0. Il concetto serve a quantificare, in particolare, il contributo che un individuo di una certa specie è capace di trasmettere alle generazioni successive, in termini di patrimonio genetico. Gli etologi distinguono tra fitness diretta, ovvero i cromosomi che un individuo trasmette alla prole sopravvissuta mediante la riproduzione, e fitness indiretta, ovvero, i geni che l’individuo contribuisce a propagare nell’ambiente aiutando dei consanguinei a crescere la loro prole (che non sarebbe sopravvissuta senza il suo aiuto). Infine, si definisce fitness complessiva la somma della fitness diretta e indiretta. Quindi, il concetto nasce da valutazioni di natura prettamente genetica, tuttavia queste valutazioni hanno numerosi connotati anche di natura tipicamente sociale, soprattutto nel contesto umano. Tutti gli esseri viventi che devono condividere il proprio ambiente con altri membri della stessa specie devono necessariamente avere connotati sociali. In particolare proprio la riproduzione degli organismi, quando non si realizza più per semplice replicazione cellulare, ma si sviluppa per riproduzione sessuale in cui avviene l’unione di geni provenienti da organismi differenti, come tipicamente accade negli organismi superiori, presenta connotati di natura sociale. Così, fitness in campo genetico ha un significato preciso che a prima vista potrebbe sembrare molto differente rispetto a quello culturale in cui abitualmente utilizziamo questo termine. Ma in realtà la distanza non è poi tanta. Infatti, buona parte dell’impegno che un individuo, umano, dedica alla propria fitness presenta il fine di poter aver successo sia nella ricerca di partner per l’accoppiamento a fini riproduttivi o per qualsiasi altro fine. Ci si mantiene in forma per piacere agli altri, soprattutto per essere attraenti che, in termini biologici, significa di fatto poter riprodurre, proprio come gli altri animali.
  2. Thorstein Bunde Veblen, Theory of the leisure class, 1899. Nella sua teoria Veblen sostiene che la proprietà privata non risponde solo a necessità di sussistenza, ma va interpretata come un segno di distinzione e di prestigio sociale che si aggiunge alle qualità personali. Per questo la ricchezza non viene solo accumulata, ma mostrata in società attraverso l’ostentazione di beni costosi; ciò porta anche ad un singolare gusto, per cui il valore estetico di un oggetto è legato strettamente al suo costo economico. Questa deriva consumistica è tipica in particolare della classe dei capitalisti che vivono di speculazione, senza produrre beni e lucrando sul lavoro di altri.
  3. Vargas, R. O. & E. D’Alterio. Il sesso delle anatre. Conflitto sessuale ed evoluzione estetica. In “BIO Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità Retroscena”, Anno III, Num. 12, Dicembre 2014
  4. Nell’ambito della biologia evolutiva, la teoria dei segnali è un campo di ricerca teorica che esamina la comunicazione tra gli individui, sia all’interno delle specie sia tra le specie. La questione centrale è quando ci si dovrebbe aspettare che organismi con interessi confliggenti, come nella selezione sessuale, forniscano segnali onesti (ossia spontanei, senza alcuna presunzione di un intento consapevole) piuttosto che segnali “disonesti” (cioè ingannevoli) finalizzati a sfruttare a proprio vantaggio la relazione. I modelli matematici descrivono come i segnali possono contribuire a una strategia evolutivamente stabile. I segnali sono emessi in contesti come la selezione del compagno da parte delle femmine, che sottopone a una pressione selettiva i segnali dei maschi che si fanno pubblicità. I segnali possono così evolversi perché modificano il comportamento del ricevente in modo da beneficiare il segnalatore. I segnali possono essere onesti, trasmettendo informazioni che aumentano utilmente l’idoneità del ricevente, o disonesti. Un individuo può ingannare emettendo un segnale disonesto, che potrebbe beneficiare per un breve periodo quel segnalatore, a rischio però di minare il sistema di segnali per l’intera popolazione. La questione se la selezione dei segnali operi a livello del singolo organismo o gene, o a livello del gruppo, è stata dibattuta da biologi come Richard Dawkins, che sostiene che gli individui si evolvano per segnalare e ricevere i segnali meglio, anche per resistere alla manipolazione. Amotz Zahavi suggerì che lo sfruttamento (inganno) potrebbe essere controllato dal principio dell’handicap, dove il cavallo migliore in una corsa a handicap è quello che porta il peso maggiore come handicap. Secondo la teoria di Zahavi, i segnalatori come i pavoni maschi hanno “code” che sono autentici handicap, essendo costose da produrre. Il sistema è evolutivamente stabile in quanto le grandi code vistose sono segnali onesti. I biologi hanno tentato di verificare il principio dell’handicap, ma con risultati incoerenti. Il biologo matematico Ronald Fisher analizzò l’effetto che il possesso di due copie di ciascun gene (diploidia) avrebbe sulla produzione di segnali onesti, dimostrando che nella selezione sessuale potrebbe verificarsi un effetto di fuga. L’equilibrio evolutivo dipende sensibilmente dal bilanciamento tra costi e benefici. Gli stessi meccanismi si possono attendere negli esseri umani, nei quali i ricercatori hanno studiato comportamenti quali i rischi corsi dai giovani, la caccia di grandi animali da selvaggina e alcuni complessi rituali religiosi, trovando che tali comportamenti sembrano avere le caratteristiche di costosi segnali onesti.
  5. Anthony N. Doob & Alan E. Gross. Status of frustrator as inhibitor of horn-honking responses. In “The Journal of Social Psychology”, Vol. 76, Issue 2, pages 213-218, 1968
  6. Hay DF. & Ross HS. The social nature of early conflict. In “Child Development”, 53 (1): 105-13, Feb. 1982
  7. Daniel Kahneman, Jack L. Knetsch, Richard H. Thaler. The Endowment Effect, Loss Aversion, and Status Quo Bias. In “Journal of Economic Perspectives”, Vol. 5, Num. 1, pages 193-206, 1991
  8. Termine della psicologia sociale che si riferisce al modo in cui le persone percepiscono, comprendono e interpretano se stessi e il mondo che li circonda.
  9. William W. Maddux, Haivang Yang, Carl Falk, Hajo Adam, Wendi Adair, Yumi Endo, Ziv Carmon, Steven J. Heine. For whom is parting with possessions more painful?: Cultural differences in the Endowment Effect. In “Psychological Sciences”, vol. 21, Issue 12, pages: 1910-1917, 2010
  10. Russell W. Belk. Possessions and the Extended Self. In “Journal of Consumer Research”, Oxford Academy, Vol. 15, Issue 2, pages 139-168, Sept. 1988
  11. Sono considerate vestigia (dal latino vestigium, impronta, orma) quegli elementi di un organismo che in esso persistono, ma che hanno perso del tutto la funzionalità che invece avevano in un antenato o nell’embrione. Si possono individuare due tipi di vestigia: filogenetico e ontogenetico. Nel primo caso un esempio classico è l’appendice vermiforme, residuo intestinale erbivoro, nel secondo l’ombelico. Un elemento vestigiale può non aver alcun ruolo nell’organismo, come l’epooforon nella donna, oppure può avere ancora qualche funzione, come i denti del giudizio, o ancora aver cambiato funzione, come il sacco vitellino nell’embrione umano.

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