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13 Settembre, 2025

La coscienza della coscienza

Cosa origina in primis, la coscienza e poi il linguaggio o viceversa?

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno VII • Numero 26 • Giugno 2018

Scritto in collaborazione con Eugenia D’Alterio – biologa

 

La controversa nozione di “coscienza”

Uno dei maggiori ostacoli nella discussione sulla nozione di coscienza è il gran numero di definizioni eccentriche, al riguardo, nel contesto culturale convenzionale. Cosa sia la coscienza è una domanda che, fino ad oggi, ha trovato, per lo più, una spiegazione come prodigio umano, piuttosto, che una spiegazione scientifica. Tornando al passato, da Ippocrate ai neuro-scientisti della modernità, la coscienza è prodotta dal cervello. Ciò è, probabilmente, vero ma non costituisce una spiegazione esauriente. Se per Cartesio la coscienza era causata dalla circolazione di un fluido nel cervello, per Kant era, invece, un dono divino che egli chiamava ‘forma a priori’. Per varie teorie moderne, la coscienza deriverebbe dalle complesse e mutevoli attività del sistema nervoso, come dalla massiccia rete di connessioni di feedback in aree cerebrali. In definitiva, quando si tratta di spiegare la peculiarità umana della coscienza e quando si tratta di rispondere per quale logica la coscienza stessa accada, esistono un’infinità di ipotesi e tutte condividono un attributo, ossia, tutte puntano ad una sorta di prodigio associato a svariate narrative metafisiche antropocentriche e teologiche.1

Una svolta nell’interpretazione della nozione di coscienza è stata segnata dalla controversa opera diJulian Jaynes,2 The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind [Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza], pubblicata nel 1976, nella quale egli espose la sua ipotesi di una mente bicamerale nell’uomo primitivo e del linguaggio all’origine della coscienza. Il suo postulato è che la coscienza sia un fenomeno recente nell’evoluzione umana che origina dal linguaggio. Fino a 3000 anni fa, egli suppone che ciò che inizialmente si era evoluta nell’uomo primitivo era una mente bicamerale, cioè una mente in cui le funzione cognitive sarebbero state divise in due parti del cervello:una che sembrava parlare e l’altra che sembrava ascoltare e ubbidire. Data l’originalità di quest’opera, ormai un testo chiave nella comprensione post-moderna della coscienza, consideriamo utile riprenderla e rendercela familiare, non con l’idea di pubblicare un articolo fine a sé stesso ma perché la visione di Jaynes sulla questione potrebbe renderci più attenti alle nostre autoreferenziali funzioni cognitive e, di conseguenza, più attenti alle nostre certezze, anch’esse inevitabilmente autoreferenziali.

La comprensione della metafora

In quest’argomentazione torniamo3 ad occuparci di capire cosa sia la coscienza. Ma cosa tentiamo realmente di fare quando cerchiamo di capirne qualcosa? Come bambini che si sforzano di descrivere oggetti strani, quando cerchiamo di capire una cosa cerchiamo di trovare una metafora per quella cosa. Non una metafora qualsiasi, ma una metafora con qualcosa di più familiare e di più comprensibile alla nostra attenzione. Comprendere una cosa significa, quindi, pervenire a una metafora per quella cosa, sostituendo ad essa qualcosa di più familiare. La sensazione di familiarità non è che la sensazione del comprendere.

Varie generazioni fa avremmo, forse, inteso un temporale come il fragore delle armi di dèi sovrumani impegnati in battaglia. Avremmo ridotto il frastuono che segue al lampo ai ben noti rumori di una battaglia, per esempio. Similmente, oggi, riduciamo una tempesta a varie presunte esperienze con attrito, scintille, spazi vuoti e la fantasia di grandi masse d’aria che si urtano violentemente provocando il frastuono. Nessuna di queste cose esiste veramente come ce la immaginiamo. Le nostre immagini di questi eventi fisici sono non meno lontane dell’immagine di dèi che combattono fra loro. Eppure esse svolgono la funzione di una metafora e ci appaiono familiari, cosicché possiamo dire di capire il temporale.

Così, in settori scientifici, diciamo di capire un aspetto della natura quando possiamo dire che esso è simile a un qualche modello teorico che ci è familiare. I termini teoria e modello, per inciso, sono usati talvolta in modo intercambiabile. In realtà, non dovrebbe essere così. Una teoria è una relazione del modello alle cose che il modello vuole rappresentare. Il modello di Borh è quello di un nucleo circondato da elettroni in movimento su orbite ben definite. Esso assomiglia un po’ alla struttura del sistema solare, che è, appunto, una delle sue fonti metaforiche. Lateoria di Borh era che tutti gli atomi erano simili al suo modello. La teoria, con la scoperta in epoca più recente di nuove particelle e di complessi rapporti inter-atomici, è risultata erronea. Il modello però rimane. Un modello non è né vero né falso; è tale solo la teoria della sua somiglianza con ciò che rappresenta.

Una teoria è dunque una metafora fra un modello e dei dati d’esperienza, e capire è, nella scienza, sentire una somiglianzafra dati complessi e un modello familiare.4

Se capire una cosa significa pervenire a una metafora che ce la renda familiare, possiamo vedere che nel comprendere la coscienza ci sarà sempre una difficoltà. Dovrebbe essere, infatti, immediatamente chiaro che nella nostra esperienza immediata non c’è e non può esserci alcunché di simile all’esperienza immediata stessa. Si può dire perciò che in un certo senso noi non saremo mai in grado di capire la coscienza nello stesso modo in cui possiamo capire le cose di cui siamo “coscienti”.

Gli errori riguardanti la coscienza sono errori nell’applicazione di metafore. Della nozione di coscienza come copia dell’esperienza si può dire che essa deriva dalla metafora della lavagna di scuola. Ma ovviamente nessuno intende, davvero, che la coscienza copi l’esperienza; si tratta solo di una metafora. Se si analizza la coscienza si realizza che essa non fa nulla di simile.5

E persino l’idea implicita in quest’ultima espressione, ossia che la coscienza faccia qualcosa, è anch’essa una metafora: equivale a dire che la coscienza è una persona che si muove in uno spazio fisico e che fa cose, e ciò vale solo se anche ‘fa’ è una metafora.‘Fare cose’, infatti, è un qualche comportamento in un mondo fisico da parte di un corpo vivente. In qualche ‘spazio’, inoltre, viene fatto questo ‘fare’ metaforico? Anche questo ‘spazio’ deve essere una metafora dello spazio ‘reale’. Tutto questo ci fa tornare alla mente la discussione sulla localizzazione della coscienza, che è anch’essa una metafora. La coscienza viene concepita come se fosse una cosa e, quindi, come altre cose deve avere un’ubicazione, e invece, in senso fisico, essa non c’è l’ha.

Ci rendiamo conto che questo ragionamento è piuttosto denso. Ma, prima di arrivare a un terreno più sgombro, vorremmo descrivere che cosa si intende designare col termine ‘analogo”. Un analogo è un modello, ma un modello di un genere speciale. Non è come un modello scientifico, la cui fonte può essere qualsiasi cosa e il cui fine è quello di fungere da ipotesi di spiegazione o di comprensione. Un analogo è invece generato in ogni punto dalla cosa di cui è analogo.6 Un buon esempio è fornito dalla carta geografica. Essa non è un modello in senso scientifico, né un modello ipotetico, come l’atomo di Borh, per spiegare qualcosa di ignoto, bensì è costruita sulla base di qualunque cosa che è ben nota, anche se non in modo completo. A ciascuna area di una regione di un territorio è assegnata un’area corrispondente sulla carta, anche se i materiali del paese e della carta sono assolutamente diversi e molto dei caratteri morfologici del paesaggio devono essere esclusi dalla carta stessa. E il rapporto fra l’analogo carta geografica e il paese che essa rappresenta è una metafora. Se io indico un punto su una carta geografica e dico: ‘Qui è il Monte Bianco e da Chamonix possiamo raggiungere il versante est per di qua’, questo è in realtà un modo abbreviato per dire: ‘Il rapporto fra il punto detto ‘Monte Bianco’ e altri punti è simile a quello esistente fra il Monte Bianco reale e le regioni circostanti”.

Il linguaggio metaforico della mente

“Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, di Julian Jaynes,7 è un’opera imprescindibile per chiunque voglia intendere la coscienza in termini post-teologici e post-metafisici. La tesi di Jaynes è che la coscienza ebbe origine con il linguaggio e non viceversa.

La mente cosciente soggettiva, secondo Jaynes, è un analogo di quello che è chiamato il mondo reale. Essa è costruita con un vocabolario o campo lessicale i cui termini sono tutti metafore o analoghi del comportamento nel mondo fisico. La sua realtà è dello stesso ordine della matematica. Essa ci consente di abbreviare processi di comportamento e di pervenire a decisioni più soddisfacenti. Come la matematica, la mente cosciente soggettiva, più che una cosa o un serbatoio, è un operatore, ed è intimamente connessa alla volizione e alla decisione.8

Consideriamo il linguaggio da noi usato per descrivere i processi coscienti. Il gruppo di parole principale di cui ci serviamo per descrivere eventi mentali è attinto al campo visivo. Noi “vediamo” soluzioni a problemi, le migliori delle quali possono essere “brillanti” in contrapposizione a soluzioni “opache” o “oscure”, e parole simili possono essere usate per caratterizzare le persone. Queste parole sono tutte metafore e lo spazio mentale a cui si applicano è una metafora dello spazio reale.9 In questo spazio possiamo ‘accostarci’ a un problema, forse da un qualche ‘punto di vista’ o ‘angolo visuale’, e ‘venire alle prese’ con le sue difficoltà, o ‘afferrare’ o ‘comprendere’ parti di un problema e così via, usando metafore di comportamento per inventare cose da fare in questo spazio mentale metaforico.

Anche gli aggettivi per descrivere un comportamento fisico nello spazio reale sono trasferiti analogicamente alla descrizione del comportamento mentale nello spazio della mente quando descriviamo quest’ultima come “vivace”, “lenta”, “agitata” (come quando cogitiamo o co-agitiamo), “sveglia”, “forte” o “debole”. Anche lo spazio mentale, in cui queste attività metaforiche hanno luogo, ha il suo proprio gruppo di aggettivi: noi possiamo avere una mente “ampia”, “profonda”, “aperta” o “ristretta”; possiamo essere “occupati”; possiamo “uscire di mente” o avere qualcosa “in mente”, o , anche, “metterci” o “ficcarci” in mente qualcosa, o “tenere” qualcosa in mente.

Come nel caso di uno spazio reale, qualcosa può essere nei ‘recessi più riposti’ o ‘fuori’ della nostra mente. Nelle discussioni tentiamo di ‘aprire la mente’ di qualcuno, di ‘raggiungere’ la sua ‘comprensione’ o di trovare un ‘terreno comune’ o di ‘indicare’, ecc., tutte azioni proprie dello spazio reale che vengono trasferite analogicamente nello spazio della mente.

Ma la metafora che noi operiamo è metafora di che cosa? La funzione abituale della metafora è il desiderio di designare un particolare aspetto di una cosa o di descrivere qualcosa per cui non sono disponibili parole. La cosa che deve essere designata, descritta, espressa o ampliata lessicalmente, è ciò che designiamo come “metaferendo”. Noi operiamo su questo mediante una cosa simile, più familiare, chiamata “metaferente”.10 In origine, ovviamente, il fine era soprattutto pratico, come quello di designare il “braccio” di mare giudicato il posto migliore per la pesca dei crostacei, o di mettere una “testa” a un chiodo in modo che esso potesse fissare meglio una tavola su un sostegno. Qui i metaferenti erano braccio e testa, e i metaferendi una zona particolare del mare e una particolare estremità del chiodo, che già esisteva. Ora quando diciamo che lo spazio mentale è una metafora dello spazio reale, il metaferente è il mondo reale “esterno”. Ma se la metafora genera coscienza anziché limitarsi semplicemente a descriverla, che cosa è il metaferendo?

Paraferenti e paraferendi

Se consideriamo con maggiore attenzione la natura della metafora (osservando nel contempo la natura metaforica di quasi tutto ciò che diciamo), troviamo (persino il verbo ‘trovare’!) che essa è composta da qualcosa di più di metaferente e di metaferendo. Al fondo di quasi tutte le metafore complesse esistono anche varie associazioni o attributi del metaferente che vengono chiamati “paraferenti”.11  E questi paraferenti si ripercuotono nel metaferendo nella forma di quelli che vengono chiamati i “paraferenti del metaferendo’. Senza dubbio questo è un gergo tecnico, ma assolutamente necessario se vogliamo avere una chiarezza assoluta circa i nostri referenti.

Alcuni esempi mostreranno che la scomposizione della metafora in queste quattro parti è una realtà assai semplice, oltre che utile a chiarire ciò di cui, altrimenti, non potremmo parlare.

Consideriamo la metafora della coltre di neve che copre il suolo. Il metaferendo è qualcosa che ha a che fare con la completezza e lo spessore uniforme dello strato di neve sul suolo. Il metaferente è una pesante coperta, una coltre, su un letto. Ma le sfumature gradevoli di questa metafora stanno nei paraferenti del metaferente “coltre”. Essi hanno a che fare con il calore, la protezione e il sonno prima di un futuro risveglio. Queste associazioni della coltre diventano allora automaticamente le associazioni o paraferenti del metaferendo originale, ossia del modo in cui la neve ricopre il suolo. Con questa metafora abbiamo creato, così, l’idea della terra che dorme, protetta dalla coltre di neve, fino al suo risveglio in primavera. Tutto questo è racchiuso nel semplice uso della parola ‘coltre’ riferita al modo in cui la neve copre il suolo.

Non tutte le metafore hanno, ovviamente, un tale potenziale generativo. In quella, spesso citata, di una nave che solca il mare, il metaferendo è la particolare azione della prua della nave nell’acqua, e il metaferente è l’azione di tracciare solchi, di arare. La corrispondenza è esatta. E qui la cosa si ferma.

Ma se io dico che il ruscello canta nei boschi, la somiglianza tra il metaferendo del gorgoglio e chiacchiericcio del ruscello e il presumibile metaferente di un bambino che canta non è affatto esatta. Quel che interezza qui sono i paraferenti della gioia e della danza, che diventano i paraferendi del ruscello.

O nel classico paragone poetico fra l’amore e una rosa, non è la tenue corrispondenza fra il metaferendo e il metaferente ad avvincerci, ma i paraferendi: che l’amore vive nel sole, che ha un dolce profumo, che se afferrato punge con le sue spine, che fiorisce per una sola stagione. Oppure supponiamo che io dica, meno visivamente e, quindi, in modo più profondo, qualcosa di completamente opposto, che il mio amore è come un mestolo di stagno che affonda, ormai senza più lustro, nel cassone della farina.12

Qui la corrispondenza immediata fra metaferendo e metaferente, quella della rimozione dalla vista superficiale, è banale. Sono invece i paraferendi di questa metafora a creare quello che non poteva altrimenti trovarsi, la forma resistente e attenta, la luminosità segreta e il possesso di un amore durevole, celati nella massa ricca e morbida del crescere del tempo, ove tutto è una simulazione (e quindi un paraferendo) del rapporto sessuale da un punto di vista maschile. L’amore non ha proprietà del genere, tranne quando noi le generiamo mediante metafora.

Di tale poesia è fatta la coscienza.13 Possiamo rendercene conto se torniamo a considerare qualcuna fra le metafore della mente che abbiamo avuto occasione di esaminare. Supponiamo di essere impegnati a risolvere un qualche problema semplice, come quello di una serie di cerchi e triangoli. E supponiamo di esprimere il fatto di avere ottenuto la soluzione esclamando che finalmente ‘vediamo’ qual è la risposta, ossia un triangolo.

Questa metafora può essere analizzata esattamente come quella della coltre di neve o del ruscello che canta. Qui il metaferendo è il ritrovamento della soluzione, il metaferente è la visione con gli occhi, e i paraferenti sono tutte quelle cose associate alla visione che creano poi i paraferendi, come l’’occhio’ della mente, il ‘vedere chiaramente la soluzione’, ecc., e, fatto più importante, il paraferendo di uno ‘spazio’ in cui si ‘vede’, quello che viene chiamato da Jaynes ‘spazio della mente’, e di ‘oggetti’ da ‘vedere’.14

Non è nostra intenzione spacciare questa brevissima riflessione sul problema della coscienza per una vera teoria su come fu generata in principio la coscienza. Si intende invece suggerire la possibilità che la coscienza è opera di una metafora lessicale. Essa è un prodotto dei metaferenti concreti dell’espressione e dei loro paraferenti, i quali proiettano paraferendi che esistono solo in senso funzionale. La coscienza continua, inoltre, a generare se stessa, in quanto ciascun nuovo paraferendo, capace di essere a sua volta un metaferendo, dà origine a nuovi metaferenti con i loro paraferenti, e così via.15

Ovviamente, questo processo non è e non può essere così causale come lo facciamo apparire. Il mondo è organizzato, ei metaferenti concreti che generano la coscienza la generano, quindi, in modo organizzato. Di qui la somiglianza tra la coscienza e il mondo fisico-comportamentale di cui abbiamo coscienza. Perciò la struttura di quel mondo viene riecheggiata – anche se con certe differenze – nella struttura della coscienza.16

Un’ultima complicazione prima di procedere oltre. Proprietà cardinali di un analogo è ovviamente che il modo in cui esso è generato non è il modo in cui è usato.17 Il cartografo e l’utente delle carte topografiche fanno due cose diverse. Per il cartografo, il metaferendo è il vuoto foglio di carta su cui egli opera col metaferente del territorio, che conosce e su cui ha eseguito i rilevamenti necessari. Per l’utente della carta topografica la situazione è esattamente opposta. Il territorio è ignoto, è il metaferendo, mentre il metaferente è la carta che egli sta usando, e attraverso la quale comprende il territorio.

Lo stesso vale nel caso della coscienza. La coscienza è il metaferendo quando è generata dai paraferendi delle nostre espressioni verbali. Il funzionamento della coscienza è però, per così dire, il viaggio di ritorno. La coscienza diventa il metaferente carico della nostra passata esperienza, operante in modo costante e selettivo su incognite come azioni future, decisioni e passati di cui conserviamo solo un ricordo parziale, su ciò che siamo e possiamo ancora essere. Ed è attraverso la struttura generata della coscienza che noi comprendiamo allora il mondo.18

Che cosa si può mai dire su tale struttura? Qui accenneremo brevemente agli aspetti che Jaynes ha considerato essere i più importanti.

I caratteri della coscienza

La spazializzazione. L’aspetto primo e più primitivo della coscienza è il paraferendo di quasi tutte le metafore mentali che possiamo fare, lo spazio mentale che noi adottiamo come il vero habitat di tutto ciò.19 Se chiediamo a qualcuno di pensare alla sua testa, poi ai suoi piedi, poi alla colazione che ha fatto questa mattina, poi alla Torre di Pisa e poi alla costellazione di Orione, tutte queste cose hanno la qualità di essere spazialmente separate, e questa è la qualità a cui ci riferiamo. Quando facciamo dell’introspezione (una metafora per ‘guardare dentro qualcosa’), ci volgiamo a questo spazio mentale metaforico, che rinnoviamo e ‘ampliamo’ costantemente con ogni nuova cosa o relazione di cui siamo coscienti. E noi presupponiamo questi ‘spazi’ senza porci alcun problema. Essi sono una parte di ciò che significa essere coscienti e presupporre una coscienza negli altri.

Inoltre, cose che nel mondo fisico-comportamen- tale non hanno una qualità spaziale ne ricevono una nella coscienza. Altrimenti ci è impossibile essere coscienti. È ciò che chiameremo spazializzazione.20

Un esempio chiaro è fornito dal tempo. Se ci viene chiesto di pensare agli ultimi cent’anni, possiamo avere la tendenza a disporre spazialmente la successione degli anni, probabilmente da sinistra a destra. Ma, naturalmente, nel tempo non ci sono una sinistra e una destra, bensì solo un prima e un dopo, e il prima e il dopo non hanno alcuna proprietà spaziale, se non per analogia. Non si può assolutamente pensare il tempo se non spazializzandolo. La coscienza è sempre una spazializzazione in cui il diacronico è trasformato in sincronico, e in cui ciò che è accaduto nel tempo viene selezionato e visto in giustapposizione spaziale.21

Questa spazializzazione è tipica di ogni forma di pensiero cosciente. Se ora pensiamo a dove, fra tutte le teorie della mente, possa collocarsi la particolare teoria appena descritta, ci ‘rivolgeremo’ dapprima, abitualmente, al nostro spazio mentale, dove cose astratte possono essere ‘separate’ e ‘poste’ l’una ‘accanto’ all’altra per essere ‘esaminate’: cosa che non potrebbe mai accadere nel mondo fisico o nella realtà. Costruiremo, poi, la metafora delle teorie come oggetti concreti, poi, la metafora di una successione temporale di tali oggetti come una serie sincronica22 e, in terzo luogo, la metafora delle caratteristiche delle teorie come caratteristiche fisiche, tutte aventi una gradazione in modo di poter essere ‘disposte’ in un qualche ordine. Costruiremo poi l’espressiva metafora del ‘collocamento’. Il comportamento reale del collocare, di cui il ‘collocamento’ è l’analogo della coscienza, può variare da persona a persona e da cultura a cultura, secondo l’esperienza personale di sistemare cose in un qualche ordine, di collocare o inserire oggetti nei loro ricettacoli. Il sostrato metaforico del pensiero è quindi qualcosa di molto complesso, e difficile da districare. Ma ogni pensiero cosciente che abbiamo leggendo quest’articolo può essere ricondotto da una tale analisi ad azioni concrete in un mondo concreto.

La selezione. Nella coscienza non “vediamo” mai nulla nella sua interezza. Questa limitazione si deve al fatto che un tale “vedere” è un analogo del comportamento reale; e nel comportamento reale noi vediamo o facciamo oggetto della nostra attenzione solo parte di una cosa in ciascun momento preciso. Lo stesso avviene nella coscienza. Noi selezioniamo alcune tra le molte possibili forme di attenzione per una cosa, che costituiscono la “conoscenza” che abbiamo di essa. E questo è tutto ciò che si può fare, dal momento che la coscienza è una metafora del nostro comportamento reale.23

Così, se chiediamo a qualcuno di pensare per esempio a un circo, egli avrà dapprima un momento di lieve incertezza, seguito forse da immagini di trapezisti, o di un clown al centro della pista. Oppure, se pensiamo alla città in cui ci troviamo, ci verrà alla mente un qualche carattere particolare, come un determinato edificio o torre o incrocio di strade. Oppure, se ci viene chiesto di pensare a noi stessi, faremmo determinate selezioni dal nostro passato recente, credendo in tal modo di stare pensando a noi stessi. In tutti questi casi non troviamo alcuna difficoltà a paradosso particolare nel fatto che le nostre selezioni non sono la cosa in sé, anche se noi ne parliamo come se lo fossero. In realtà noi non siamo mai coscienti della vera natura delle cose, ma di ciò che selezioniamo da esse.24

Molta più riflessione e molto più studio meritano le variabili che controllano le nostre selezioni. Da esse dipendono, infatti, l’intera coscienza che un individuo ha del mondo e delle persone con cui ha rapporti. Le selezioni che facciamo, dalle qualità di una persona che conosciamo bene, sono strettamente associate ai sentimenti che abbiamo per lei. Se le siamo affezionati, le qualità selezionate sono gli aspetti piacevoli, nel caso contrario sceglieremmo, come rappresentativi, gli aspetti antipatici. Questo rapporto causale può agire in entrambe le direzioni.

Il modo in cui compiamo una selezione fra le caratteristiche di altre persone determina il tipo di mondo in cui sentiamo di vivere.25 Consideriamo per esempio l’immagine che abbiamo dei nostri genitori com’erano quando eravamo piccoli. Se quest’immagine è fatta soprattutto dei loro insuccessi, dei conflitti nascosti, delle illusioni, è una cosa. Se invece li vediamo com’erano nei loro momenti più felici, nelle loro gioie, ne risulta un mondo del tutto diverso. Scrittori e artisti fanno in modo controllato ciò che ‘nella’ coscienza accade in maniera più disordinata.

La selezione è una cosa distinta dal ricordo. Una selezione di caratteri da una cosa rappresenta nella coscienza la cosa o l’evento a cui aderiscono i ricordi, e mediante la quale possiamo richiamarli alla mente.26 Se voglio ricordare che cosa ho fatto l’estate scorsa, comincio col fare una selezione di cose dal periodo di tempo considerato, selezione che può essere anche un’immagine fuggevole di un paio di mesi sul calendario, fino a fermarmi alla selezione di un evento determinato, come una passeggiata lungo la riva di un fiume. Da qui, attraverso associazioni attorno a questo evento, arrivo a ricordare particolari relativi all’ultima estate. Questo è ciò che intendiamo per reminiscenza, la quale è un particolare processo cosciente di cui nessun altro animale è capace. La reminiscenza è una successione di selezioni. Ogni cosiddetta associazione nella coscienza è una selezione, un aspetto o immagine, se si preferisce, di qualcosa di “congelato” nel tempo, di estratto dall’esperienza sulla base della propria personalità e di fattori situazionali mutevoli.27

L’analogo “io”. Un ‘carattere’ estremamente importante di questo ‘mondo’ metaforico è la metafora che abbiamo di noi stessi, l’analogo “io”, che può “aggirarsi” vicariamente nella nostra “immaginazione”, “facendo” cose che non facciamo realmente. Ci sono ovviamente molti usi per un tale analogo “io”. Noi immaginiamo “noi stessi” nell’atto di “fare” questo o quello, e “prendiamo” decisioni sulla base di “esiti” immaginati che sarebbero impossibili se non avessimo un “sé” immaginato che opera in un “mondo” immaginato. Nell’esempio citato nel paragrafo sulla spazializzazione, non era il nostro sé fisico comportamentale che cercava di ‘vedere’ dove ‘si collocasse’ la propria teoria nella serie di teorie alternative, ma era il nostro analogo “io”.28

Se facendo una passeggiata in un bosco, veniamo a trovarci a un bivio, sapendo che uno dei due sentieri ci ricondurrà sì a casa ma solo con un percorso più lungo e tortuoso, possiamo ‘percorrere’ col nostro analogo ‘io’ la via più lunga per vedere se i suoi panorami e i suoi stagni meritano il maggior tempo comportato dalla scelta. Se non possediamo la coscienza, col suo analogo ‘io’ sostitutivo, non potremmo compiere questa operazione.

La metafora “me”. L’analogo ‘io’, però, non è solo questo, ma è anche una metafora ‘me’. Immaginando noi stessi mentre percorriamo il sentiero più lungo, abbiamo in effetti ‘immagini’, per quanto fuggevoli, di ‘noi stessi’, immagini autoscopiche.29 Noi possiamo sia guardare, da dentro, il nostro sé immaginato, il paesaggio immaginato, sia vedere noi stessi mentre ci inginocchiamo accanto a un ruscello per bere un sorso d’acqua. Qui si pongono ovviamente problemi profondi, particolarmente nel rapporto tra l’’io’ e il ‘me’, problemi che esorbitano però dal nostro tema. Qui ci limitiamo solo a indicare la natura del problema.

La narratizzazione. Nella coscienza noi vediamo sempre il nostro sé sostitutivo come una figura prima nella storia della nostra vita. Nell’esempio che abbiamo citato qui sopra, la narratizzazione è ovvia: si tratta della passeggiata nel bosco. Non è invece altrettanto ovvio che noi in realtà narratizziamo ogni volta che siamo coscienti. Seduti dove ci troviamo, stiamo leggendo un articolo, e questo fatto è inserito più o meno al centro della storia della nostra vita, essendo il tempo spazializzato nell’immagine di un viaggio di giorni e/o anni.

Conclusione: la coscienza non è poi così importante per molte nostre attività

Vorremmo ora procedere a una breve ricapitolazione per ‘vedere’ dove siamo e in quale direzione la nostra discussione stia procedendo. Abbiamo detto che la coscienza non è una cosa, un deposito o una funzione ma, piuttosto un’operazione. Essa opera per analogia, attraverso la costruzione di un analogo ‘spazio’, con un analogo ‘io’ che è in grado di osservare tale spazio e di muoversi metaforicamente in esso. La coscienza opera su ogni forma di reattività, seleziona da un tutto aspetti pertinenti, che narratizza e concilia fra loro in uno spazio metaforico in cui tali significati possono essere manipolati come nello spazio. La mente cosciente è un analogo spaziale del mondo e gli atti mentali sono analoghi di atti corporei. La coscienza opera solo su cose osservabili oggettivamente o, per esprimerci in un altro modo che riecheggia John Locke,30 nella coscienza non c’è nulla che non sia un analogo di qualcosa che è già stato nel comportamento.

Dentro la nostra testa non c’è nulla, a parte tessuti fisiologici di vario genere. E il fatto che si tratti in prevalenza di tessuti neurologici è irrilevante. Ora, però, ci vuole un po’ di riflessione per abituarci a questa idea: noi inventiamo continuamente questi spazi nella nostra testa e in quella degli altri, pur sapendo, perfettamente, che essi non hanno alcuna esistenza anatomica; e l’ubicazione di questi “spazi” è, in effetti, del tutto arbitraria. Che non ci sia alcuna necessità fenomenica di collocare la coscienza nel cervello è ribadito ulteriormente da vari casi anormali in cui la coscienza sembra essere esterna al corpo. Infatti, qualsiasi persona che abbia preso la dietilammide dell’acido lisergico potrebbe riferire esperienze di coscienza fuori dal corpo, o esperienze eso-somatiche come vengono chiamate. Tali eventi non dimostrano alcunché di metafisico, ma solo che la localizzazione della coscienza può essere una cosa arbitraria.

Guardiamoci però dal commettere un errore. Quando siamo coscienti, usiamo sempre e decisamente certe parti del cervello all’interno della nostra testa. Ma lo stesso vale anche quando andiamo in bicicletta, e l’operazione di andare in bicicletta non ha luogo dentro la mia testa. I due casi sono ovviamente diversi, giacché andare in bicicletta ha una precisa collocazione geografica che manca alla coscienza. In realtà la coscienza non ha alcuna ubicazione che non sia immaginata da noi stessi.

Fermiamoci ora a considerare dove siamo arrivati, giacché abbiamo appena finito di aprirci strada attraverso una quantità enorme di materiali ramificati che ci sono, forse, sembrati più imbarazzanti che non chiarificanti. Siamo stati condotti alla conclusione che la coscienza non è ciò che generalmente pensiamo. Essa non va confusa con la reattività. Non interviene in una moltitudine di fenomeni percettuali. Non ha alcuna parte nell’esercizio di abilità, di cui spesso ostacola l’esecuzione. Non interviene necessariamente nel parlare, nello scrivere, nell’ascolto o nella lettura. Non trascrive l’esperienza, come molti credono. La coscienza non ha nulla a che fare con l’apprendimento di segnali, né c’è bisogno del suo intervento per imparare abilità e soluzioni, cosa che si può fare senza avere coscienza. Non è necessaria per la formulazione di giudizi o di pensieri semplici. Non è la sede della ragione e, anzi, alcuni fra gli esempi più difficili di ragionamento creativo fanno a meno della sua assistenza. Essa non ha inoltre una localizzazione reale ma, solo, ubicazioni immaginarie! La domanda immediata che si pone è quindi: ma lacoscienza esiste? Al riguardo, abbiamo argomentato accennando alla risposta di Jaynes. Qui è solo necessario concludere che la coscienza non è poi così importante per molte nostre attività.31

Se i ragionamenti che abbiamo fatto finora sono stati corretti, è possibilissimo che sia esistita una specie umana che parlava, giudicava, ragionava, risolveva problemi e che faceva quasi tutto quello che facciamo oggi noi, ma che non ne era affatto cosciente. È questa la conclusione importante e, sotto certi aspetti, sconvolgente che siamo costretti a formulare a questo punto.

Questa è un’argomentazione difficile, speriamo, però, di avere indicato a grandi linee, in modo sufficientemente plausibile, che la nozione di coscienza come modello del mondo generato mediante metafore conduce ad alcune deduzioni ben definite e che queste deduzioni sono verificabili nella nostra esperienza cosciente quotidiana. Tutto questo è, ovviamente, solo un inizio, un inizio abbastanza grezzo, che speriamo di sviluppare in lavori futuri.

Se la coscienza è questa invenzione di un mondo analogale sulla base del linguaggio, un mondo parallelo rispetto al mondo del comportamento, nello stesso senso in cui il mondo matematico è un parallelo rispetto al mondo delle quantità delle cose, cosa possiamo dire sulla sua origine?

Siamo pervenuti a un punto interessante della nostra discussione, un punto che è in totale contraddizione con tutte le diverse soluzioni del problema dell’origine della coscienza di cui ci occupiamo. Se infatti la coscienza è fondata sul linguaggio, ne segue che essa ha un’origine molto più recente di quanto non si sia supposto finora. La coscienza è posteriore al linguaggio! Le implicazioni di tale posizione sono assai serie e gli scenari, forse, imprevedibili.

Immagini: Pexels

  1. Michael A. Graziano. Consciousness and the social brain. Oxford University Press, New York, 2013.
  2. Julian Jaynes. The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind. August 15th 2000 by Mariner Books (first published 1976).
  3. Rinaldo Octavio Vargas & Eugenia D’Alterio. Coscienza e consapevolezza. Reinterpretate alla luce delle neuroscienze sociali nella Post-Modernità.BIO Educational Papers. Anno III, Numero 12, Dicembre 2014, pp. 12-29.
  4. Julian Jaynes – Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. gli Adelphi. Milano, 1984 p. 76.
  5. Ibidem
  6. Ibidem
  7. Julian Jaynes. Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. gli Adelphi. Milano, 1984.
  8. Ibidem
  9. Ibidem
  10. Ibidem
  11. Ibidem
  12. Si tratta della poesia Mossbawn (for Mary Heany) di Seamus Heaney, in North, Faber & Faber, London, 1974.
  13. Julian Jaynes. op. cit.
  14. Ibidem
  15. Ibidem
  16. Ibidem
  17. Ibidem
  18. Ibidem
  19. Ibidem
  20. Ibidem
  21. Ibidem
  22. Che avviene nello stesso tempo.
  23. Julian Jaynes. op. cit.
  24. Ibidem
  25. Ibidem
  26. Ibidem
  27. Ibidem
  28. Ibidem
  29. Autoscopia – Fenomeno psicologico che si verifica in particolari condizioni (ipnosi, isterismo, depersonalizzazione) e per il quale il soggetto ha lavisione o di tutto il proprio organismo nella sua forma esterna ( a. esterna) o dei suoi organi interni ( a. interna).
  30. Locke parla dell’identità nel capitolo 29 del Libro II del Saggio sull’intelletto umano, all’interno di un più ampio discorso che ha come oggetto l’idea di sostanza, un concetto tipico della filosofia di cui Locke mostra la fragilità (nel senso che, a suo avviso, è solo un nome vuoto perché non corrisponde a nulla di conoscibile). Lo scopo della sezione dedicata all’identità è mostrare come essa non riposi su una sostanza.
  31. Julian Jaynes. op. cit.

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