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24 Agosto, 2024

Le emozioni come programmi d’azione e le passioni come oggetti d’osservare

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BIO – Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità – Educational Papers • Anno IX • Numero 35 • Settembre 2020

Le neuroscienze e la filosofia delle passioni di David Hume

Divulgare le idee relative alla filosofia di David Hume costituisce per me un’opportunità di trarre spunti che facilitano il mio modo di vivere. Come Hume, vivo con la convinzione che noi, umani, non siamo null’altro che umani.1 E come Julian Baggini2 considero che qualora la nostra civiltà avesse, effettivamente, come valore eccelso lenire e far prosperare l’esistenza umana anziché sacrificarla a nome di un metafisico aldilà, Hume sarebbe il filosofo amabile e generoso di cui avremmo bisogno. La sua stessa esistenza costituisce una testimonianza dell’arte di saper vivere conducendo una vita giusta.

Della rilevanza di Hume nella filosofia contemporanea mi sono già occupato nell’articolo “Se la posterità ama la fine tragica. Critica ai modelli eroici-tragici della civiltà”3, articolo in cui argomento che Hume non è il pensatore che vende gli intellettuali al grande pubblico dato che non è una figura tragica né romantica e ciò lo rende troppo ragionevole e moderato per ispirare zelotismo e ammiratori. Oggi, raccolgo per voi, lettori, alcuni suggerimenti sulla rilevanza che la filosofia delle passioni di David Hume potrebbe avere per le neuroscienze4 traendo spunti dalle riflessioni sul tema di Richard C. Sha, professore di filosofia all’American University di Washington, D.C. e membro del Center for Behavioral Neuroscience dello stesso ateneo. Certamente, queste annotazioni sono rivolte a voi lettori con l’auspicio che possano esservi di utilità nelle vostre riflessioni esistenziali. Infatti, queste considerazioni non costituiscono un apporto alla ricerca ma un concorso alla sua divulgazione.

Legame tra emozioni e azioni

Nel suo “Trattato sulla natura umana” (1739-40), David Hume sosteneva che: “La ragione è e dovrebbe essere solo schiava delle passioni …” Per “passioni”5 il suo tempo intendeva ciò che ora chiamiamo emozioni,6 cioè qualcosa che ci spingerebbe irrefrenabilmente ad agire e che può impedire il controllo della ragione. Il concetto di passione è stato storicamente associato a quello di emozione, o di emozione violenta, ed è stato pertanto contrapposto a quello di razionalità. Nella storia della filosofia, infatti, ha prevalso il significato di passione come un sentire di forte intensità, di solito connotato da una grande attrazione per un soggetto esterno. Nella passione, il soggetto che la sente si trova sottoposto ad un’azione o impressione esterna e ne patisce l’effetto sul piano sia fisico che psichico. Dunque, con lo sconcerto che ci suscitano le passioni, che cosa dava a Hume tanta fiducia nelle passioni da poter accettare la schiavitù della ragione a loro? Il fatto sarebbe appunto che Hume capì che la ragione da sola non era in grado di produrre alcuna azione e che le passioni erano, invece, la fonte delle nostre motivazioni e la stoffa del nostro sé. Di conseguenza, ha insistito sul fatto che dobbiamo prestare attenzione alle passioni, cioè a quella alterazione anormale della conoscenza, se vogliamo capire come si fa qualsiasi cosa.

Molto recentemente le neuroscienze hanno iniziato a documentare che la razionalità umana sia più debole di quanto si abbia pensato comunemente e che siano proprio le emozioni anziché la ragione a rendere possibile la presa di decisioni garantendo la rilevanza di solo alcuni fini da raggiungere. Infatti, per emozioni si intendono quelli stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi, la cui funzione consisterebbe nel rendere più efficace la reazione dell’individuo alla situazione in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza. Si tratta di quelle reazioni che, in ogni caso, non utilizzano processi cognitivi ed elaborazione cosciente. Ma, in termini pratici, perché è importante questa documentazione delle neuroscienze riguardo le emozioni e cosa potrebbero paradossalmente “imparare” queste stesse discipline dalla filosofia delle emozioni di Hume?

Nel complesso, fino a poco tempo fa gli “scienziati”7 hanno evitato le emozioni perché ritenute troppo soggettive e definite in modo troppo impreciso. Tuttavia, una volta che l’evoluzionismo darwiniano e le neuroscienze hanno affermato e, in qualche modo, documentato il legame tra emozione e azione, le emozioni hanno iniziato a guadagnare più attenzione tra gli studiosi. Nel suo libro “The Strange Order of Things” (Lo strano ordine delle cose – Adelphi, 2018), António Damásio,8 uno dei neuroscienziati più influenti oggi, definisce gli affetti e le emozioni come “programmi d’azione”, e da ciò collega le emozioni all’omeostasi, processo attraverso il quale ci manteniamo vivi. Il lavoro di Damásio non solo garantisce un peso di interesse scientifico e anche umanistico alle emozioni ma, meglio ancora, le rende la chiave della sopravvivenza umana. Le neuroscienze, oggi, supportano altresì un crescente riconoscimento delle connessioni tra i sistemi percettivo e motorio del cervello. Questo ha portato studiosi come Francisco Varela, Evan Thompson, Andy Clark e Shaun Gallagher – “enattivisti”9 che sostengono che il pensiero umano non sia legato al cervello ma che deriverebbe da connessioni tra mente, corpo e ambiente – a concludere, a vari livelli, che le percezioni umane sono funzionali ai fini dell’azione, portando ad alcuni, come Andy Clark a sostenere che le percezioni non siano altro che allucinazioni sociali adattive e che il realismo sia una falsa protezione adattiva dalla complessità della realtà, come argomenta Donald Hoffman.10

A volte, tuttavia, si potrebbe apprezzare la rilevanza funzionale di qualcosa senza però ridurla ad uno strumento. Infatti, stando a Richard Sha11 e alle sue conoscenze sul pensiero di Hume, la visione neuroscientifica delle emozioni come azioni piuttosto adattive impoverirebbe l’azione stessa. Una tale riduzione non solo separerebbe l’agire da una tradizione filosofica che invece lo vorrebbe collegato agli stati mentali ma ignorerebbe, altresì, la possibilità che le emozioni abbiano alcuna intenzionalità che non sia la semplice reazione di sopravvivenza, il che significherebbe che esse siano, in effetti, giudizi sulle cose. Come esempio di quanto sia rilevante concedere, come vuole la tradizione del pensiero filosofico sull’azione, che le emozioni possano avere intenzionalità, Richard Sha segnala che la legge penale nel Regno Unito e negli Stati Uniti ha da tempo imposto uno standard di intenti per la colpevolezza penale. Ciò significa che, all’interno della legge, il semplice comportamento sarebbe insufficiente per dimostrare la responsabilità criminale perché per poter essere incriminati anche la mente dovrebbe essere colpevole. Questa esemplificazione della questione consente a Sha di considerare, con ironia e intuito, che il divario cartesiano, giustamente criticabile, tra mente e corpo, potrebbe avere in ogni caso un certo valore come modello utile nelle pratiche cosiddette spirituali o di educazione morale delle passioni, specialmente quando si ipotizza che tale divario crei o incoraggi lo spazio per la deliberazione e l’intenzione.

Cosa potrebbero imparare le neuroscienze dalla filosofia delle passioni di Hume

Il passaggio omologante delle emozioni come azioni operato dalle neuroscienze, quindi, secondo Richard Sha, trarrebbe beneficio dallo scetticismo di Hume sull’azione e dalla sua diffidenza su quanto controllo abbiamo sulle nostre emozioni. Infatti, quando le emozioni vengono ritenute “programmi di azioni” che comportano la sopravvivenza, chi può rifiutarsi di accettarle? La riduzione dell’emozione all’azione, cioè delle emozioni come “programmi di sopravvivenza”, lascerebbe dietro di sé il fatto che le nostre emozioni sono spesso “mescolate”, ciò che Hume riconosce come “la contrarietà dei motivi e delle passioni”. Quando le nostre emozioni contengono gradi di ambivalenza o contraddizione, come spesso accade, il giusto corso d’azione non è chiaro. Infatti, sotto la spinta alla sopravvivenza tendiamo a non chiederci se le agitazioni delle passioni siano buone per noi o se siano fonte inaffidabile di disagio, come riconoscevano gli antichi Greci come Zenone ed Epitteto.

Stando a Richard Sha, dalla filosofia di Hume le neuroscienze potrebbero apprendere un altro suggerimento riguardo all’elevato prezzo pagato per l’attuale dubbia omologazione delle emozioni con le azioni o i programmi di sopravvivenza. Il fatto sarebbe che David Hume sostiene che le azioni siano, per loro natura, temporanee e fastidiose e dove non provenissero da qualche causa nel carattere e nella disposizione della persona che, anziché attuarle, le esperisce, non le rimarrebbero nella coscienza e, di conseguenza, non potrebbero né contribuire al suo onore, se buone, né alla sua infamia, se cattive. Infatti, poiché capiva che le azioni sono fugaci, mentre le passioni sono “principi di azione radicati”, Hume considerava le passioni e non le azioni come componenti chiave di noi stessi. Le passioni sarebbero, quindi, per Hume, parte necessarie della disposizione e del carattere delle persone. Una volta trasformate, attraverso l’abitudine, in principi, secondo lui, si può avere l’evidenza empirica di un sé stabile.

Nel suo approfondire la filosofia delle emozioni di Hume, Richard Sha porta l’argomento al lato pragmatico segnalandoci che secondo Hume, l’abitudine riduce le agitazioni delle passioni, rendendole gestibili. Al riguardo è ugualmente importante ricordare che, come avvisa la filosofa Hannah Arendt nel suo saggio scritto nel 1958 e premonitorio della contemporaneità umana e politica, “Vita Attiva, la condizione umana”12, le conseguenze delle azioni sono imprevedibili. Una volta iniziate spesso non siamo in grado di fermare le azioni, trasformandole in qualcosa che facciamo e patiamo. Hume, di fatto, anticipa Arendt quando riconosce che patiamo le passioni, e quindi esse articolano l’agire piuttosto che innescarlo o facilitarlo. Compassione, dopo tutto, significa letteralmente soffrire insieme. Quando non abbiamo altra scelta che subirle, le passioni possono diventare sia le chiavi della moralità sia la stoffa di cui siamo fatti. Nella misura in cui l’azione costituisce la nostra sensazione del potere di agire, il fatto che siamo spesso passivi di fronte alle passioni – per esempio, non possiamo dirci di chi innamorarci – significa che la nostra lotta con le passioni sono ciò che fa nascere il sé. Eppure, soprattutto, Hume insiste sul fatto che dobbiamo attivamente prendere le distanze dalle passioni violente se non vogliamo rimanere in balia di esse: “ciò che chiamiamo forza d’animo, implica la prevalenza delle passioni calme al di sopra delle violente”.

Le passioni educate ed integrate come qualità morali del sé

Infine, lo scetticismo di Hume nei confronti dei nostri poteri di razionalità lo spinge a pensare a quali tipi di controllo abbiamo sulle passioni e ci offre molteplici strategie per affrontarle. Sotto una concezione delle emozioni come programmi d’azione, come intese dalle neuroscienze, c’è poco incentivo a deliberare su di esse, specialmente quando l’azione equivale alla sopravvivenza. Hume propone invece di considerare le passioni come “oggetti” da osservare, sia dal sé che dallo spettatore imparziale, in modo che possano essere valutate ed educate. Rendendo le passioni oggetti empirici che gli individui e la società esaminano sotto forma di comportamenti, Hume ci chiede di confrontare il nostro senso di queste passioni “rese oggettive” con il verdetto del mondo sociale. Solo in questo modo le passioni possono essere educate e integrate nel carattere come qualità morali. Per aumentare l’educabilità delle passioni, Hume avverte che, quando le passioni sono irragionevoli, “devono essere accompagnate da un falso giudizio”. Collegando le emozioni alle azioni e alla sopravvivenza, come fa il modello delle neuroscienze, si restringerebbe il ruolo e l’influenza del giudizio e si trascurerebbe l’educazione delle nostre emozioni. In effetti, Hume teme che l’orgoglio, che lui definisce “una presunzione infondata” di sé stessi, possa farci valutare un’azione più di quanto dovremmo.

In questo paradigma filosofico morale, le abitudini consolidano il controllo che possiamo avere sulle nostre passioni. Hume, infatti, attribuisce all’abitudine un posto privilegiato nelle sue considerazioni morali, ma la chiave qui è valutare continuamente se abbiamo le abitudini giuste, non accettare passivamente le abitudini esistenti. ‘Nulla può essere più lodevole’, scrive, ‘che avere un valore per noi stessi, dove abbiamo davvero qualità che sono preziose.’ In altre parole, chiederci prove empiriche del nostro valore, non solo del nostro sentimento riguardo al valore in questione. Le abitudini, dopo tutto, rendono possibile contenere passioni violente come la rabbia. Hume insiste sul fatto che “una volta che una passione è diventata un principio d’azione consolidato e viene istituita come l’inclinazione predominante dell’anima, comunemente non produce più alcuna agitazione rilevante”. In questa prospettiva, l’abitudine riduce le agitazioni della passione, rendendole gestibili.

L’idea di Hume che la ragione sia al servizio delle passioni ha trovato in modo importante il supporto scientifico. La nostra razionalità serve le nostre passioni e abbiamo meno controllo sulle passioni di quanto si pensi comunemente. Stabilendo che la ragione è schiava delle passioni, Hume ci avverte delle conseguenze di non avere le giuste abitudini. Quando i neuroscienziati mettono allo stesso livello l’emozione e l’azione, questo restringe l’emozione alla sopravvivenza e sottovaluta i modi in cui l’osservazione riflessiva delle emozioni potrebbe favorire la deliberazione. Mentre i neuroscienziati impostano la scala temporale delle emozioni a non più di pochi minuti, Hume insiste sul fatto che ci vorrà niente di meno di una vita per calibrare le nostre emozioni nella giusta misura.

______________Note _________________

1 David Hume. A Treatise of Human Nature. Introducing the Experimental Method of Reasoning into Moral Subjects. 1739-40

2 Julian Biaggini. How the World Thinks. A Global History of Philosophy. Granta, London, 2018

3 Rinaldo Octavio Vargas. Se la posterità ama la fine tragica. Critica ai modelli eroici – tragici della civiltà. BIO Educational Papers Medicina Costruzione Sociale nella Post-Modernità Retroscena. Anno VIII, Numero 29, Marzo 2019, pp. 4 – 11

4 Per neuroscienze si intende l’insieme delle discipline che studiano i vari aspetti morfo-funzionali del sistema nervoso mediante l’apporto di numerose branche della ricerca biomedica, dalla neurofisiologia alla farmacologia, dalla biochimica alla biologia molecolare, dalla biologia cellulare alle tecniche di neuroradiologia. Storicamente nascono con l’identificazione del neurone quale unità cellulare autonoma e funzionalmente indipendente del sistema nervoso.

5 Passione, dal greco antico πάθος (pàthos), vale a dire sofferenza, passività. In filosofia indica il predicato o la categoria dell’essere corrispettivo e complementare all’azione alla quale logicamente si oppone. In un significato più specifico il termine si trova usato per indicare: (a) un evento di passiva ricezione, di modificazione o di alterazione anormale della conoscenza come avviene nella sensazione o nell’intelletto passivo (potenziale) aristotelico per cui il soggetto si trova “sottoposto a un’azione o impressione esterna e ne patisce l’effetto sul piano sia fisico che psichico” e (b) quelle affezioni, tendenze e, in genere, modificazioni dell’animo che hanno il carattere di durata nel tempo e intensità tale che si distinguono rispetto alla minore incisività che solitamente contraddistingue i sentimenti. Nella storia della filosofia è quest’ultimo significato che ha prevalso e si è più diffuso come un sentire di forte intensità, di solito connotato da una grande attrazione per un soggetto esterno; assume comunque, come tutti gli stati affettivi, significati diversi secondo l’ambito in cui se ne parla.

6 Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multi-componenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve. In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente. Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni psicofisiologiche). Si differenziano quindi dai sentimenti e dagli stati d’animo, anche se questi termini vengono spesso usati indifferentemente nel senso comune.

7 Persone esperte in un determinato campo della scienza e che usano abitualmente metodi scientifici nell’effettuare ricerche i cui risultati vengono tipicamente pubblicati su apposite riviste dopo attenta validazione da parte di specialisti del settore, destinate all’incremento della conoscenza scientifica nello specifico settore di competenza.

8 António Damásio. The Strange Order of Things. Life, feeling, and the making of cultures. Vintage, 2019

9 Enattivismo sostiene che la cognizione nasce attraverso un’interazione dinamica tra un organismo che agisce e il suo ambiente. Afferma che il nostro ambiente è quello che creiamo in modo selettivo attraverso le nostre capacità di interagire con il mondo.

10 Donald D. Hoffman. The Case Against Reality: Why Evolution Hid the Truth from Our Eyes. W. W. Norton Company, 2019

11 Richard C. Sha. Perverse Romanticism. Aesthetics and Sexuality in Britain, 1750 – 1832. Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2009 Richard C. Sha. Imagination and Science in Romanticism. Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2018

12 Hannah Arendt. Vita Attiva. La Condizione Umana. Bompiani, 2017